DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Nonostante le statistiche della crescita economica internazionale siano da qualche anno di segno positivo, la crisi perdura. Ne è sintomo inequivocabile la generale stagnazione degli investimenti, che potrebbe trovare rimedio solo in sostanziose politiche interventiste, come suggeriscono economisti di varia formazione, dacché è evidente che il meccanismo “spontaneo” di accumulazione è fermo o quasi e ha bisogno di forti “stimoli”. Del resto, per tutto il periodo dagli anni Settanta del '900 a oggi il capitalismo mondiale ha conosciuto una fase di espansione solo grazie a stimoli di varia natura: liberalizzazione del credito, libertà di circolazione di capitali, droghe monetarie che hanno innestato spirali speculative, sfociate in bolle destinate inevitabilmente a sgonfiarsi.

Parallelamente all'esaurirsi degli stimoli monetari provenienti dalle banche centrali, il prossimo stimolo si annuncia nella forma di investimenti pubblici che agiscano da moltiplicatore dell'investimento privato o da investimenti privati agevolati fiscalmente. La prima sembra essere la soluzione “europea” della crisi. Molti economisti di formazione keynesiana insistono su questa necessità, ma si tratta di valutare fino a che punto il “moltiplicatore” possa funzionare in una fase di sovrapproduzione assoluta di capitale. Che si tratti di sovrapproduzione “assoluta”, propria dello stadio in cui ogni nuovo incremento di capitale investito non è in grado di generare nuovo plusvalore, è una ipotesi già anticipata da un nostro articolo della fine degli anni Novanta: ipotesi che dovrebbe essere tanto più valida oggi, dato l'enorme sviluppo della capacità produttiva mondiale avvenuto nel frattempo. Lo sviluppo cinese si è fondato sul sovrainvestimento, ma man mano che l'incremento della capacità produttiva si traduceva in sovrapproduzione, l'effetto moltiplicatore è andato via via scemando (vedi “Crescita, Cina terra promessa. Ma la spinta è solo pubblica”, Corriere economia, del 19/9/2016)

L'altra forma di interventismo si affida direttamente al capitale privato, offrendo forti agevolazioni fiscali alle imprese che investano nel mercato interno in infrastrutture. Questa è la ricetta del nuovo... prescelto per la salvezza del capitalismo americano e mondiale, epigono di una tradizione di detassazione dei profitti inaugurata agli albori della crisi di accumulazione dei primi anni Settanta e proseguita con la “deregulation” reaganiana. In verità, c'è ben poco di nuovo sotto il sole del capitale. Si detassano i profitti in una competizione all'insegna del dumping fiscale (vedi “La doppia lezione che l'Italia deve seguire”, Il Sole 24 Ore del 2/12/16), si detassa l'assunzione di manodopera (bonus fiscale alle imprese, voucher, ecc…), si detassa il capitale finanziario allo scopo di attrarne i flussi, ma niente di tutto questo riesce a dare nuovo slancio all'accumulazione. Questa seconda modalità di interventismo, tra l'altro, limitandosi ad agevolare fiscalmente l'investimento privato, non tiene conto che i profitti da investimenti infrastrutturali presuppongono un'ottica di recupero di lungo periodo che il grande capitale mondiale ha abbandonato da tempo, a favore di una logica “mordi e fuggi” tipicamente speculativa. Nella soluzione keynesiana, invece, il costo iniziale dell'investimento graverebbe essenzialmente sullo Stato.

Nel frattempo, la sola prospettiva di agevolazioni fiscali per i profitti e di regalìe agli investitori sta generando una nuova, ennesima bolla speculativa: flussi crescenti di capitale finanziario si gettano nella bolgia di Wall Street, speranzosi in una prossima nuova stagione di espansione e profitti in crescita (La Wall Street dei record e il rischio della 'bolla', Il Sole24Ore, 15/12/16). Molto più probabili, invece, sono lo scoppio della bolla della Borsa americana, dove già oggi le quotazioni azionarie stanno ben al di sopra della corrispondente crescita degli utili, e il riaccendersi dell'inflazione. La crescita pompata dallo Stato spingerà i prezzi in alto e la Fed dovrà alzare i tassi di riferimento, proprio ciò che finora non ha fatto per evitare l'esplosione della bolla globale dei titoli finanziari. Normalmente, al rialzo dei tassi americani fa seguito il rientro dei capitali investiti negli “emergenti” e il conseguente tracollo di quelle economie, che hanno debiti in dollari per un valore tre volte superiore a quello dei subprime e sono pertanto particolarmente esposte a un rafforzamento della moneta americana (vedi Il Sole 24 Ore del 20/11/16).

Tra crollo dei titoli azionari per sopravvalutazione, crollo dei titoli finanziari causa aumento dei tassi, crollo delle economie emergenti per rientro dei flussi di capitale, i potenziali fattori di innesco di una nuova crisi globale sono molteplici. Ma anche qualora un nuovo acutizzarsi della crisi, con conseguente generale e massiccia distruzione di capitale, dovesse essere procrastinato, l'unico effetto certo e duraturo di entrambe le possibili soluzioni interventiste (investimenti pubblici in infrastrutture e agevolazioni per gli investitori) sarebbe l'incremento del deficit delle Stato e del debito pubblico, che si tradurrebbe a sua volta in accentuata pressione fiscale – diretta e indiretta - sul proletariato e sulle mezze classi.

Il capitale, che nelle fasi espansive ha generato ricchezza in forma di profitti, salari e introiti fiscali, da quarant'anni a questa parte è divenuto progressivamente un vorace dissipatore della ricchezza sociale, nutrito di debito pubblico e privato. Il debito globale, che nel 2002 era al 200% del Pil, dopo 15 anni di aumento più rapido dell'economia quest'anno ha toccato il 225% (fonte FMI, Il Sole 24 Ore del 6/10/11). L'accumularsi del debito è tra i principali effetti del ristagno del meccanismo di accumulazione: la crescente pletora di capitale finanziario smanioso di valorizzarsi, non trovando occasioni di investimento profittevole gira a vuoto nutrendosi di speculazione. Non saranno l'immissione di capitale pubblico aggiuntivo o l'agevolazione fiscale a dare avvio a una nuovo ciclo di accumulazione di lungo periodo in presenza di sovrapproduzione di capitale e di sovracapacità produttiva generale di così alto livello.

Frattanto, gli effetti della crisi si scaricano sui proletari e sulle classi di mezzo, sempre più martoriate e avvilite dallo strapotere (apparente) del capitale. E' un fatto mondiale che accomuna indifferentemente i proletari d'Asia, America ed Europa, a riprova del livello elevatissimo di concentrazione e intensità di capitale delle imprese in tutto il mondo. In Giappone, si muore in fabbrica non solo a causa di incidenti, ma per superlavoro (Internazionale, 11/11/2016), e per la stessa ragione gli operai cinesi che lavorano per la Apple si buttano dai tetti dei capannoni (Internazionale, 21/10/2016); gli operai americani dei magazzini Amazon denunciano una condizione ai limiti della schiavitù, e non stanno molto meglio i “colletti bianchi”, costretti a lavorare in un clima ben alimentato di competizione selvaggia tra colleghi (Internazionale, 28/8/2015). Orari impossibili, salari sempre più bassi, precarietà sono il tratto comune che unisce oggi i proletari di tutto il mondo. La situazione qui da noi è ben riassunta da questa intervista, apparsa su un giornale locale , a un addetto alla grande distribuzione: “Vorrei anch'io un posto fisso, ma in questo momento ho trovato soltanto un pagamento con i voucher. E me lo tengo stretto. So di essere sfruttato, ma il mercato offre questo. E io devo vivere. Non ho nessuna maggiorazione in caso di lavoro notturno o festivo, ma per il momento mi devo accontentare. Devo fare buon viso a cattivo gioco, perché anche se dicessi no, arriverebbe qualcun altro alle medesime condizioni. E allora, tanto vale”(Messaggero Veneto, 29/10/16).

Nulla da aggiungere a questo quadro, se non che la precarietà è sempre meno una condizione temporanea, propria dei lavoratori giovani, e sempre più una condizione permanente, caratteristica della forza lavoro di tutte le età. Domani non sarà meglio di oggi, specie se i proletari continueranno a perseguire una via di salvezza individuale dallo sfruttamento, il più delle volte illusoria (secondo un recente rapporto Ires Friuli V .G., da gennaio ad aprile 2016, al calo del 38,6% dei contratti a tempo indeterminato nati grazie alle agevolazioni, ha fatto riscontro una crescita tendenziale dei voucher del 32,2%).

Il peggioramento della condizione operaia nei centri dell'imperialismo, la tendenza al livellamento dei salari alla scala mondiale, la defiscalizzazione dei profitti, i cambiamenti nella legislazione del lavoro, le pratiche protezionistiche sempre più aggressive, l'utilizzo di nuove tecnologie a crescente “risparmio” di lavoro favoriscono il ritorno in patria di alcune produzioni già delocalizzate e lo smantellamento di parti delle catene di produzione del valore, nate con l'internazionalizzazione dei processi industriali negli ultimi decenni. Il caso Electrolux è emblematico: la multinazionale dell'elettrodomestico bianco, che a partire dagli anni Novanta d el '900 aveva progressivamente delocalizzato la produzione in Polonia, già un anno fa trovava conveniente riportare alcune produzioni nella fabbrica friulana, divenuta “una delle più produttive ed efficienti del gruppo” (Messaggero Veneto, 16/01/2016). I sindacalisti rivendicano buona parte del merito di aver allontanato il rischio di chiusura dell'impianto in veste di garanti della pace sociale e cofirmatari, assieme a Ministero dello Sviluppo Economico e Regione, di un accordo che garantisce a Electrolux la decontribuzione dei contratti di solidarietà, il sostegno finanziario pubblico agli investimenti nelle fabbriche italiane e altro. L'accoppiata Stato-sindacato, genuflessa di fronte all'azienda, implora la grande multinazionale: “Rimani qui, a sfruttare la nostra manodopera! guarda com'è collaborativa e laboriosa! Si accontenta di poco!”, dice il sindacalista. “Anche noi ci accontentiamo di poco”, aggiunge lo Stato. “Ti chiediamo meno tasse e in più ti finanziamo gli investimenti se li farai a casa nostra”. Ed entrambi i generosi offerenti (generosi con la fatica e i soldi degli altri) non ritengono necessaria la rassicurazione finale: “i profitti, o azienda, sono tutti per te”.

Tutta questa dimostrazione d'amore è ripagata dalla gratitudine dell'impresa: nei piani di Electrolux, lo stabilimento di Porcia è stato prescelto per sperimentare la nuova fabbrica 4.0, all'insegna del controllo digitale dell'organizzazione del lavoro e dei processi produttivi e dell'aumento del tasso di automazione. Ne deriveranno la riduzione dei costi e la riduzione della quota di capitale variabile. La fabbrica sarà salva, sarà moderna, competitiva e sempre più… capitalisticamente improduttiva, incapace di generare plusvalore a un saggio sostenibile in rapporto a quel po' po' di investimenti. Un'altra quota di operai sarà “liberata” dalla fatica produttiva e quella rimasta in fabbrica sarà sempre più schiacciata dall'efficienza dell'organizzazione del lavoro...

Oggi più che mai, il capitale ha buon gioco nel tradizionale ricatto rivolto ai senza riserve – “liberi di morire di fame”! – ma nello stesso tempo ha ormai così poco da offrire (con profitti elevati in assoluto, ma ridotti a una percentuale minima degli investimenti) che il suo apparente strapotere è solo la maschera di una grande fragilità. Vedendo logorarsi progressivamente le basi profonde, materiali, della sua ragione di esistenza – il profitto – e di conseguenza del consenso sociale, il capitale chiama all'estrema difesa la politica e il sindacato.

Il completo asservimento dello Stato e dei suoi “apparati intermedi” agli interessi del capitale, specie se grande, ha come effetto la crescente dissipazione delle energie e della ricchezza sociale in nome del profitto privato. Il paradosso sta nell'inversione di ruolo tra salvatori e salvati: in realtà, non è l'impresa a salvare “il lavoro” e le casse dello Stato, ma è esattamente l'opposto. I ricchi doni portati in sacrificio salvano il profitto dall'immediato declino, senza peraltro invertire la tendenza alla caduta del suo saggio medio. Quanto più il meccanismo di accumulazione è in crisi, tanto più i servi del capitale si affannano a nutrirlo di energie umane e di risorse pubbliche, che agiscono da controtendenza alla caduta del saggio del profitto. A poco a poco, la follia di questi meccanismi si manifesta con sempre più evidenza nell'allargamento del divario sociale, nell'estendersi delle aree di povertà, nel crescente sfruttamento, nella mancanza di futuro per le giovani generazioni e più in generale, nel clima opprimente che grava su tutta la società.

In attesa che la ripresa della lotta di classe strappi definitivamente il velo dell'ideologia aziendalista-mercantile, assistiamo alle convulsioni della politica borghese che deve periodicamente mutar forma per continuare il suo mestiere di serva prezzolata. Brexit, Trump e referendum costituzionale in Italia sono stati altrettanti capitomboli che hanno rivelato come la subordinazione dei politici agli interessi del capitale industrial-finanziario internazionale cominci a stare sull'anima alla maggioranza di tartassati, nonostante il massiccio imbonimento mediatico, mentre una parte crescente ha già smesso di credere che il voto dato a questo o quello sia un significativo esercizio di potere democratico e non una presa per i fondelli.

Brexit non porterà certo vantaggi al proletariato inglese, e la classe operaia bianca d'America che ha votato per Trump non ci metterà molto a capire di essere caduta dalla padella nella brace. Il referendum italiano, se ha tolto (temporaneamente) di mezzo un maggiordomo delle multinazionali, non potrà impedire che si succedano esecutivi dello stesso segno di classe, di qualunque colore si vestano. Il tratto comune “sovranista”, come viene chiamato oggi, di questi movimenti che rendono instabile la politica borghese, se dà voce al malessere delle classi impoverite dalla crisi, non fa altro che segnalare e accompagnare la transizione in atto da una lunga fase di espansione del commercio mondiale a una di contrazione e arroccamento protezionistico. Dagli anni Ottanta in poi, il tasso di crescita del commercio mondiale aveva sempre superato quello della produzione, agendo da potente valvola di sfogo alla sovrapproduzione di merci e capitali e da controtendenza alla caduta del saggio del profitto. Da alcuni anni, invece, la produzione mondiale – pur entro la tendenza decrescente che caratterizza il suo corso storico – sta aumentando a un tasso più elevato di quello dei commerci (vedi “Il commercio globale e la 'febbre' del Pil”, Il Sole 24 Ore del 23/11/2016). Evidentemente, la funzione propulsiva del commercio mondiale va esaurendosi, sia nelle economie emergenti – con la difficile transizione della Cina da un'economia export-dipendente a una maggiormente rivolta al mercato interno – sia in quelle avanzate, dove i nuovi sistemi di produzione e la tendenza al livellamento internazionale del prezzo della manodopera favoriscono il rientro di produzioni già delocalizzate, e la produzione orientata all'export – la sola in crescita – non è in grado di trascinare nel suo relativo sviluppo l'intera economia nazionale.

Per quanto il fenomeno rientri nella insanabile contraddizione tra natura nazionale del capitale e sua proiezione mondiale, è sempre più evidente che l'enfasi sulla liberalizzazione degli scambi internazionali – a uso e consumo delle grandi imprese, le sole in grado di competere sui mercati mondiali – lascia sempre più spazio a pratiche di difesa dell'economia nazionale a colpi di protezionismo non più mascherato da incentivi e norme di varia natura, ma proclamato apertamente. Questo apre scenari nuovi di ri-nazionalizzazione economica con inevitabili riflessi politici: in politica interna, stanno trovando spazio le destre e le espressioni della cosiddetta “antipolitica”, che oggi raccolgono il malcontento delle mezze classi impoverite dalla globalizzazione ma ancora illuse del potere salvifico di una democrazia in qualche modo risanata dal “mal di casta”. Ri-nazionalizzazione non significa mettere in secondo piano la conquista dei mercati esteri. Anzi: un più aperto e diretto sostegno dello Stato all'export delle grandi imprese sposta la competizione internazionale, finora limitata alla guerra commerciale o valutaria, a un livello superiore, orientato allo scontro inter-statale. Se la fase di apertura dei mercati mondiali era stata accompagnata dalla prospettiva di una liberalizzazione degli scambi promossa dalla WTO, il rinculo protezionistico in atto porta alla ricerca di accordi bilaterali o di area, segnati dal prevalere degli interessi del capitalismo più forte.

L'intento dichiarato da Trump in campagna elettorale di porre al di sopra di tutto gli interessi americani (America first) annuncia ai capitalismi più deboli l'imposizione delle condizioni americane nell'interscambio e lancia una sfida ai maggiori concorrenti, Cina in testa. In assenza di una reale ripresa dopo la grande crisi, sembra si avvicini al tramonto l'epoca della pacifica convivenza tra colossi imperialisti. E, ci auguriamo, anche tra le classi.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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