DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Nella nostra pluridecennale battaglia per affermare i principi di un’autentica lotta di difesa economica, scrivevamo nel 1961, in un articolo di questo giornale: “Nessuna delle lotte in difesa delle condizioni di vita e di lavoro oggi riesce a superare i limiti della fabbrica, del complesso industriale, della categoria, del settore specialmente interessato: ognuna si svolge in un ambiente chiuso - anche se le rivendicazioni avanzate sono comuni a tutti gli scioperanti”. Secondo gli strateghi dell’opportunismo sindacale, si sarebbe trattato di una tattica esemplare: lottare per settore e categoria, per regione, per località, per fabbrica allungando le lotte nel tempo – la brillante idea di una “lotta articolata”. Continuavamo: “In realtà, stendendo per decenni reti di filo spinato intorno alle galere del lavoro essa serve a dividere la classe, serve a impedire che il morbo della lotta generale dilaghi. Il movimento operaio ha conosciuto nella sua storia molte forme di lotta, anche quelle frammentarie, gli scioperi di mestiere, di settore e di fabbrica, molto prima che gli attuali burocrati li proponessero come forme di lotta”. Passando all’oggi, questa pratica sciagurata è diventata la forma dominante. Sempre nel 1961, ribadivamo (e ribadiamo oggi con forza): “Che si possa lottare per rivendicazioni settoriali, di fabbrica o anche di reparto, è ovvio; ma solo chi ha voltato le spalle alla lotta di classe può sostenere che queste forme inferiori e secondarie di lotta abbiano rappresentato una conquista, una rivelazione da sostituire agli ‘schemi’ del passato”. Nelle fasi di grande combattività, erano gli operai stessi a imporre “di rovesciarsi nelle strade come un fiume in piena unendo i vari settori (metallurgici, siderurgici, tranvieri, ferrovieri, ecc.). Essi non attendevano altro, entrando in agitazione, che un ordine per schierarsi a fianco dei compagni. Il dovere delle organizzazioni proletarie, quelle che meritano il nome di organizzazioni di classe, è l’inverso da quello praticato oggi. Non è quello di elevare argini e chiudere in compartimenti stagni tutte le lotte parziali o, peggio ancora, accrescere il frazionamento e disperdere in mille rivoli una battaglia che potrebbe trasformarsi in una gigantesca e comune guerra di classe. Solo quando gli operai superano i limiti del mestiere, della fabbrica, del complesso, del settore, della città, della regione, solo quando trionfano sul sezionamento, la dispersione e la polverizzazione,cui sono condannati dalla società capitalistica, solo allora possono conquistare ‘obiettivi avanzati’ e, ciò che più conta, allargare il proprio orizzonte politico, comprendere l'irriducibilità del contrasto fra le classi, prendere coscienza della propria forza e della lotta generale dituttii proletari contro l'ordinamento capitalistico. È un insegnamento secolare, antico quanto il proletariato e quanto il marxismo”.

Ancor oggi, questi obiettivi e queste critiche trovano conferma nelle necessità della riorganizzazione del movimento proletario, e con maggior forza, perché gli effetti devastanti della crisi hanno ridotto, almeno nell’area euro-americana, le grosse concentrazioni produttive, gonfiando al tempo stesso la popolazione proletaria sul territorio.

Che cosa rispondevano (e continuano a rispondere) alle nostre critiche le burocrazie sindacali, l’aristocrazia del lavoro, i pompieri della lotta di classe? Che mancavano le risorse (economiche e organizzative) per sostenere forme di lotta più estese e incisive. Questa la causa dell’assenza di lotte di difesa, in un tempo in cui disoccupazione e miseria crescono in maniera esponenziale? Si dica piuttosto che le lotte sono state castrate, che l'estensione del fronte della lotta non c'è mai stato perchénon lo si è voluto, e non lo si è voluto perché la forza scatenata da un’azione di lotta generale non si concilia con la politica di pacificazione, col legalitarismo democratico e col collaborazionismo costituzionale. La tesi riformista e ultra-democratica secondo cui non ci si può lanciare in una grande offensiva senza avere le casse piene e senza che la stragrande maggioranza degli operai sia organizzata è vecchia come il cucco. Lo dimostra la stessa storia del movimento proletario. Era la tesi delle potentissime organizzazioni sindacali tedesche, contro cui la Luxemburg si scagliò dopo il 1905, a proposito delle lotte di difesa economica: “Questa teoria è assolutamente utopistica. Gli operai dovrebbero, prima di poter rischiare un'azione di massa, essere tutti organizzati. Ma le circostanze, le condizioni dell'evoluzione capitalistica e dello Stato borghese, fanno sì che, nel corso ‘normale’ delle cose, senza violente lotte di classe, certe categorie, o meglio le categorie più importanti, le più deboli, le più schiacciate dal capitale e dallo Stato, non possono assolutamente organizzarsi”. Non l'organizzazione fa nascere la lotta di difesa, ma è la lotta di difesa che genera l'organizzazione: è naturale però che, a sua volta, la forma di organizzazione diventi poi fattore determinante per l’approfondimento e l’estensione della lotta stessa, perché è un altro punto fondamentale della critica comunista la necessità di un’organizzazione di difesa economica stabile, estesa, autonoma da Stato e padronato.

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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