DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

(Il testo che segue fu presentato come rapporto alla Riunione Generale di Partito del settembre 1972 e pubblicato sulle pagine de Il programma comunista, nn.6-7-8-10/1973)

 

È un punto centrale – nella nostra valutazione sia della fondamentale convergenza sia delle iniziali ma secondarie divergenze fra noi e i bolscevichi negli anni di splendore della ricostituzione dell'Internazionale comunista – l'affermazione che il dibattito sulle questioni tattiche e organizzative si svolse allora nel quadro di una totale omogeneità nei principi, saldi nella loro duplice natura di cardini invarianti ed internazionali del movimento.

In una memorabile polemica contro gli astrattismi antidialettici di falsa sinistra, al III Congresso dell'Internazionale (1921) Lenin osservò con forza: "I principi non sono il fine, non sono il programma, non sono la tattica e la teoria: la tattica e la teoria non sono i principi". Voleva con ciò dire che fra queste "categorie" non solo v'è distinzione, come è indiscutibile, ma v'è assenza di legame? Rispondere al quesito è essenziale non solo per ben definire il senso delle nostre posizioni tattiche, ma per smantellare l'ignobile edificio di menzogne costruite dall'opportunismo sulla presunta "elasticità (peggio ancora, sul presunto eclettismo o addirittura empirismo)" leninista in materia di tattica e perciò anche di organizzazione.

 

Teoria, fini, programma, principi

Nel passo citato, Lenin insegna che teoria, fine, programma, principi, tattica del partito comunista mondiale, sono aspetti e momenti diversi della funzione del partito, e subito dopo elimina con un esempio classico il dubbio che almeno due dei suddetti termini – fine e principi – abbiano o possano avere identico valore: "Che cosa ci distingue dagli anarchici sul terreno dei principi? I principi del comunismo consistono nella instaurazione della dittatura del proletariato e nell'impiego della costrizione statale nel periodo di transizione [dal capitalismo al socialismo]". Questi principi si distinguono fin dalle polemiche di Marx ed Engels contro gli anti-autoritari, gli anti-centralisti, gli anti-dittatoriali, dall'anarchismo; e ovviamente, da ogni deformazione democratica, legalitaria, parlamentare, gradualista, del marxismo: gli esponenti dell'uno e dell'altra possono accettare e magari accettano (non discutiamo ora fino a che punto) il fine della società senza classi e quindi senza stato, insomma il punto d'arrivo di tutto il ciclo destinato a condurre al comunismo; ma negano i principi della dittatura e del terrore; negano insomma ciò che ci distingue, quello senza di cui non si è comunisti – non nel 1920 o 1921, ma dal 1871 e per sempre – , cioè la via di trapasso obbligata della dittatura esercitata dalla classe proletaria, tramite il partito, sulla classe abbattuta. Non basta condividere il fine per essere comunisti; bisogna condividerne senza riserva i principi che dunque sono cose diverse, ma nello stesso tempo invariabili – per Lenin come per noi – e inderogabili. È importante stabilire che altrettanto vale per la teoria e per il programma.

La teoria, o dottrina del partito, tratta della storia della società umana e del suo concatenamento; comprende quindi il fine e i principi, ma non si esaurisce in essi, né la sua accettazione "intellettuale" coincide di per sé con l'adesione a quella milizia che è il partito. Essa è carne e sangue del partito non meno dei principi – lo è per Marx ed Engels nelle loro battaglie contro "il commercio dei principi", lo è per Lenin che apre nel 1902 il Che fare? proprio con una difesa del “dogmatismo" e "dottrinarismo" marxista contro ogni forma di "eclettismo" e con una energica riaffermazione dell'importanza centrale della teoria, invariante e mondiale, contro gli eterni paladini della "libertà di critica".

Il programma è la formulazione della prospettiva di azione prossima – nel senso storico e non pettegolo – del partito: non è la teoria e non è i principi, ma non può contraddire né l'una né gli altri, che al contrario ne costituiscono le basi; ed è a sua volta inderogabile: chi non accetta il programma mondiale del comunismo è fuori del partito, proclamò la sinistra al II Congresso di Mosca; ma è importante rilevare che, stabilendo al 21° punto delle Condizioni di ammissione che "chi respinge per principio le condizioni e le tesi dell'Internazionale Comunista deve essere espulso", lo stesso Congresso statuì per sempre l'identico principio, giacché le "tesi" non sono se non gli a capo fondamentali del programma.

Nella visione di Lenin, come di Marx ed Engels e nostra, le "categorie" dottrina-fine-programma-principi sono dunque delimitate inseparabili, e nello stesso tempo formano tutte insieme un blocco invariante e vincolante. Un partito che ne accetti una parte e ne respinga l'altra non è, semplicemente, un partito Comunista: tanto sia detto, una volta per tutte, a scorno di quei partiti spudoratamente autodefiniti comunisti, marxisti o marxisti-leninisti, che ammettono la presenza nelle proprie file di cristiani, musulmani, israeliti ecc. professanti o idealisti dichiarati (negazione del carattere impegnativo della teoria e, insieme, del fine) sostengono la possibilità di una via pacifica al socialismo, si proclamano democratici, pretendono di conciliare l'internazionalismo con la difesa degli "interessi del paese" (negazione del carattere chiuso e vincolante del programma e dei principi), ecc. Essi, tutti, sono fuori del comunismo (1).

 

E la tattica?

"Fin qui tutto bene", obietta il presunto marxista tuttavia abbacinato dal mito della "elasticità" correntemente attribuita a Lenin: "ma la tattica è un'altra cosa; i principi sono obbligatori, la tattica è facoltativa". E si ha un ben controbattere che, se così fosse, andrebbe a farsi benedire quell'altra "categoria" fondamentale del partito che è l'organizzazione, giacché fondamenti necessari ed ineliminabili di questa sono la disciplina e la centralizzazione intese per giunta mondialmente, e non si vede come queste, da cui dipende l'unità di azione e movimento del partito mondiale unico del proletariato rivoluzionario, sarebbero possibili ove fosse concesso ad ognuno dei suoi reparti nazionali – e, nell'ambito di questi, ai loro plotoni regionali e locali – di decidere autonomamente come muoversi ed agire nel gioco complesso delle forze sociali, delle classi e semi-classi, e dei partiti. Egli, il presunto marxista "elastico", replica imperterrito: "vi concedo anche questo; rimane però il fatto che le questioni tattiche sono tali da doversi per definizione risolvere non in modo unico, ma multiplo; da essere, in altri termini, un sistema di alternative, laddove non c'è alternativa, putacaso per la teoria o per i principi".

È una risposta che non colpisce il bersaglio. Non si può – è vero – tracciare un unico binario tattico: esso sarà diverso – come ben precisarono le nostre Tesi di Roma del 1922 – per i momenti di attacco rivoluzionario, per quelli di riflusso e "difensiva", per quelli intermedi di preparazione a un nuovo ma forse non vicino assalto. E, in ognuno di questi casi, il binario sarà diverso per le fasi (e le aree) di rivoluzione doppia e di rivoluzione semplice, mentre anche in rapporto a queste ultime il problema, per esempio, dei contadini può imporre "accentuazioni" o "attenuazioni" della rigidezza tattica proletaria e comunista a seconda del grado di sviluppo capitalistico e delle fasi successive dello scontro di classe.

Ma il nocciolo della questione è che il marxismo non sarebbe scienza, e la "teoria rivoluzionaria" non sarebbe quella tal cosa senza la quale "non c'è azione rivoluzionaria (Lenin), se nella sua conoscenza esatta non fosse compresa non solo la cognizione di queste fasi e aree, ma dello schierarsi delle forze sociali e dei loro partiti in ognuna di esse di fronte all'unico partito rivoluzionario proletario, ma la cognizione del necessario comportarsi di quest'ultimo nei loro riguardi in funzione dell'obiettivo unico verso il quale tutti i binari della sua azione devono convergere; altrimenti, vicina o lontana che sia, addio rivoluzione perché addio preparazione e lotta di reparti d'assalto in stretta omogeneità di movimento! E ciò, in altre parole, significa, che il marxismo, se tale è, risolve le questioni tattiche – decide la "rosa" delle eventualità o delle "alternative" tattiche – in modo bensì multiplo, ma senza mai infrangere il legame coi principi – quindi con la teoria e col programma – ed anzi commisurando ad essi ogni soluzione. E li risolve sempre centralmente, condizione sine qua non per risolversi internazionalmente.

L'elemento di "varietà" implicito nella tattica è in effetti espressione della natura dialettica della interpretazione materialistica della storia; non ne scalfisce il carattere monolitico, non introduce nessun elemento di indeterminazione nella sua scienza del divenire delle società umane e delle vie che porteranno il proletariato a chiudere per sempre il capitolo fosco delle società di classe. Il maneggio della tattica è certamente arduo, ma solo perché è arduo l'uso non occasionale e non fortuito ma rigoroso della dialettica. Ancora una volta, ce lo insegna magistralmente il presunto maestro della mobilità e destrezza tattica, Lenin.

Prendiamo le tesi del II Congresso. Esse sono tutte tesi tattiche per un verso, ma lo sono in quanto restano, per l'altro sempre e preliminarmente tesi di dottrina e di principio. Giungono a conclusioni tattiche vincolanti perché partono da premesse teoriche e programmatiche vincolanti. Prescrivono ciò che si deve fare nella misura in cui fissano il limite oltre il quale il partito non può spingersi, nei diversi settori, senza perdere la propria natura, la propria ragione d'essere, la propria continuità. Si può discutere (e noi discutemmo allora) se il limite vi è fissato con sufficiente nettezza o con eccessiva latitudine almeno per i tempi e i luoghi della prospettiva di rivoluzioni proletarie pure, ma non si potrà mai scoprire in una sola formulazione tattica delle celebri Tesi l'appiglio ad una deviazione di principio: parlamentarismo rivoluzionario sì, ma nel quadro rigido e rigoroso della denuncia della democrazia e del parlamento come vie e strumenti non nostri, ma della classe avversa; appoggio attivo ai moti nazional-rivoluzionari nelle colonie e nei paesi "arretrati", mai fusione con essi, mai abdicazione alla propria autonomia, mai "codismo"; sforzo di saldare i moti ed interessi contadini al grande moto e agli interessi primari del proletariato agricolo tutt'uno col proletariato industriale), ma rivendicazione della funzione di guida di quest'ultimo; indicazione dei compiti dei militanti rivoluzionari nei sindacati diretti dai riformisti, ma per conquistarli alla direzione del partito, organo gerarchicamente primario, non parallelo come nella visione deforme dei "bonzi" gradualisti e minimalisti; compiti dello stesso partito, prima durante e dopo la rivoluzione, dedotti come altrettanti corollari dalla definizione teorica della sua natura, nei confronti della classe e della sua storica lotta emancipatrice; al centro di tutte, i principi della dittatura, della costrizione statale, del terrore restaurati su granitiche basi e posti a pietra di paragoni di qualunque espediente tattico e di qualunque risorsa organizzativa, nella coscienza che i mezzi non sono armi neutre e indifferenti rispetto agli obiettivi, ma ne sono e ne devono essere condizionati, o saranno essi a condizionarli e – se adottati a caso e prescindendone – a deformarli.

Le stesse Condizioni di ammissione, impegnative per tutti i partiti aspiranti ad essere accolti in seno all'Internazionale come sue sezioni, dunque come membra di un corpo mondiale unico, che cosa sono se non un elenco di prescrizioni tattiche nei diversi settori di attività del partito di classe – nel parlamento, nelle amministrazioni comunali, nell'esercito, nelle cooperative, nei sindacati, nelle campagne ecc., di fronte ai moti di liberazione nazionale e coloniale, ai partiti a base operaia ma politicamente borghesi della destra e del centro riformisti, e nei rapporti fra sezioni nazionali e centro internazionale, come fra sezioni territoriali e direzione centrale nell'ambito di ciascuno? Il carattere "multiplo" della tattica non vi è forse inquadrato nella cornice di soluzioni rigide, delimitate da confini obbligatori, tutte subordinate ai principi informatori del comunismo?

Ma si potrebbe risalire più indietro nel tempo, e ricordare con Trotsky – la cui testimonianza è tanto più preziosa in quanto, prima dell'Ottobre, egli navigava in acque "intermedie" fra bolscevichi e menscevichi – come "non sia la duttilità a costituire [...] il tratto caratteristico del bolscevismo, ma la sua fermezza ferrea: è precisamente questa la qualità che possedeva e che gli rimproveravano nemici ed avversari e di cui a giusto titolo è andato fiero... Intransigenza, vigilanza rivoluzionaria, lotta per ogni grammo di indipendenza: ecco i suoi tratti essenziali", ecco le "garanzie" anticipate dell'Ottobre; garanzie non astrattamente "teoriche" nel senso idealistico del termine, ma reali, cioè costantemente osservate ed applicate nell'azione, anche (e soprattutto) nei rapporti coi partiti affini e nella vita di ogni giorno, in ognuno dei suoi molteplici e apparentemente secondari o irrilevanti episodi. E chi, se non Lenin, ha scritto (Che fare? II/c):

"Se non esiste una salda organizzazione, preparata in ogni momento e in tutte le situazioni, non si può parlare di quel piano sistematico d'azione, illuminato da principi fermi e rigorosamente applicato, che è l'unico che meriti il nome di tattica", formula doppiamente significativa nella sua straordinaria potenza, perché dà alla tattica il carattere di un piano sistematico, strettamente legato ai principi (solo così, anzi, dichiara che la si possa concepire) e, perché mette in evidenza un altro punto cruciale su cui ritorneremo, cioè l'impossibilità di definire ed attuare un piano tattico senza un'organizzazione già pronta e non meno organicamente connessa ai principi e destinata a servirli?

 

La rotta sicura

Abbiamo detto nei precedenti paragrafi che il vero, arduo problema della tattica consiste nel fissare in modo netto, centralmente e internazionalmente, il limite oltre il quale la manovra si converte da mezzo utile ed anzi indispensabile in mezzo inutile e perfino dannoso - ad esempio, il giusto orrore del putschismo diventa legalitarismo imbelle; il parlamentarismo rivoluzionario, ove e quando sia praticabile, degrada a cretinismo parlamentare; la condanna del blanquismo come teoria delle élites audaci, praticanti il colpo di mano come che sia, si abbassa al livello di ripudio del blanquismo come arte dell'insurrezione armata; la ricerca della necessaria influenza sulle masse si capovolge in servile accodamento agli umori momentanei, magari quietisti e controrivoluzionari, delle masse; e viceversa, la giusta consapevolezza della natura del partito comunista come forza di attacco permanente alla società borghese decade a garibaldinismo idiota, culto della "offensiva" ad ogni costo, rifiuto perfino della battuta d'arresto e della ritirata temporanea su posizioni più favorevoli; insomma, nel fissare il limite oltre il quale – in una direzione o nell'altra – si espone il movimento al suo snaturamento, all'oblio dei suo compiti ed obiettivi, alla rottura della sua continuità di azione, di propaganda, di organizzazione, di inquadramento teorico e programmatico; insomma, alla rovina.

Entro questo limite, fissato in modo rigoroso e noto a tutti i militanti e ai loro reparti organizzati, "l'arte" della tattica è quella della corretta valutazione dei rapporti di forza; e in questa delicatissima arte è certo che Lenin fu maestro. Ma è vitale stabilire che lo fu in un senso che non ha nulla a che vedere con il cinico empirismo ed eclettismo degli epigoni (ammesso che di tale designazione siano ancora "degni", essi che tutto hanno tradito), secondo cui "ogni mezzo è buono", ogni espediente è utilizzabile, ogni manovra è lecita – perché non esiste "legge", e tutto è "nuovo" e "imprevisto". Nel nostro testo Lenin nel cammino della rivoluzione (1924), si legge: "A chi voglia troppo sottolineare in Lenin il tattico ‘senza regole fisse’, noi rinfacceremo sempre l'unità che lega tutta l'opera politica di lui. Lenin è quel grande che, fisso lo sguardo alla meta finale rivoluzionaria, non teme di farsi chiamare nelle epoche della preparazione il dissolvitore, il centralizzatore, l'autocrate, il divoratore dei suoi maestri e dei suoi amici. È l'apportatore spietato della chiarezza e della precisione dove questo comporta il crollo di false concordie e di alleanze posticce. È l'uomo che sa temporeggiare quando ne è il caso, ma che in un certo momento sa formidabilmente osare... In lui la valutazione tattica, spregiudicata fin che si vuole nel senso che egli meno di ogni altro si lasciava guidare da suggestioni sentimentali e da cocciutaggini formalistiche, non abbandonò mai la piattaforma rivoluzionaria: ossia la sua coordinazione alla finalità suprema e integrale della rivoluzione universale" (NOTA?).

Il nodo del problema, tuttavia – e questo fu il senso di una delle più vigorose battaglie della Sinistra in seno alla III Internazionale – è che il mantenimento di questa inesorabile "coordinazione", di questa saldatura fra principi e tattica, non può essere affidato "alla firma di una o più persone" per quanto illuminate teoricamente e temprate da una lunga e diritta milizia, ma deve poggiare su quell'"insieme sintetico di direttive", vincolanti per il centro dirigente come per la "base" del Partito, in cui si condensa il bilancio storico di tutto il movimento comunista, e che noi rivendicammo, vivente Lenin, come una delle condizioni imprescindibili dell'omogeneità di azione e quindi anche dell'irreversibilità delle posizioni programmatiche e delle proclamazioni di principio, al di là dei propositi, delle intenzioni, dell'indiscutibile buona fede, e della vita fisica, di capi e gregari – gli uni e gli altri garantiti, nei limiti in cui una garanzia è possibile, contro il pericolo di sbandamenti, oscuramenti e deviazioni, appunto dal carattere chiuso, cioè non "libero", non subordinato a contingenze locali o temporali, delle norme che disciplinano e alle quali si ispira la quotidiana battaglia del Partito.

Tale rivendicazione, che non va scambiata con gli infantilismi a sfondo idealistico dei negatori di "ogni compromesso", delle vestali dell'"offensiva permanente", degli esteti della "purezza comunista", acquista oggi – dopo così disastrose esperienze in materia di elasticità contrabbandata per "leninismo" – un rilievo ancora più spiccato che negli anni in cui potevamo al massimo obiettare allo stato maggiore internazionale bolscevico che i bruschi mutamenti di fronte, i rapidi accostamenti e gli ancor più rapidi distacchi, l'agilità nel contrarre e sciogliere accordi tattici – sempre nel più rigoroso "non perdere mai la bussola" del nord rivoluzionario – non erano soltanto la manifestazione di una rara maestria nel giudizio realistico dei rapporti di forza fra le classi in gioco, ma il riflesso necessario della mobilità del terreno sociale su cui procedono le rivoluzioni doppie come appunto quella russa, ma non li si poteva e non li si doveva trasporre meccanicamente alle aree e ai tempi delle assai più rigide e rettilinee rivoluzioni proletarie pure; e che il grande insegnamento dell'Ottobre e della guerra civile per tutti i paesi era proprio quello della sovrana capacità del Partito di bruciare tutti i ponti successivi della manovra tattica per emergere indenne sul filo del solitario assalto al potere e dell'ancor più solitario esercizio dittatoriale di esso – insegnamento di ferrea stabilità e coerenza in un oceano obiettivamente gravido di instabili e incoerenti maree di fondo. "Siate flessibili e saggi", cioè lucidi nel valutare le forze e non inclini a pascervi di frasi, diceva Lenin a Lazzari, ma solo dopo aver diviso per sempre la propria via da quella non solo degli opportunisti, ma anche delle loro varianti in veste retoricamente barricadiera: non fate sciocchezze, se non volete perdere l'appena ritrovato cammino dei principi!

 

E l'organizzazione?

Sarebbe mostruoso, dopo quanto si è detto, se dal vincolo strettissimo che lega tutte le "categorie" il cui insieme forma inseparabilmente l'esistenza stessa del partito in quanto milizia rivoluzionaria, noi escludessimo l'organizzazione, cioè quel meccanismo articolato e strutturato senza di cui – come si legge nel Che fare? – non è neppure pensabile un sistema di norme tattiche e, meno ancora, una sua traduzione in pratica – che è quello che noi vogliamo, altrimenti cesseremmo di essere, anche solo in potenza, un partito, cioè una milizia, per decadere a club di pensatori o ad accademia di generali per definizione senza esercito, piccolo o grande che la storia voglia che sia. Sarebbe mostruoso, perché significherebbe che il blocco monolitico del marxismo ha tuttavia una sua incrinatura; che il suo carattere scientifico si concilia con l'indeterminazione, l'accidentalità, l'arbitrio, e questo proprio là dove esso entra a contatto e si misura con i fatti della storia, per essere quello che bisogna che sia – l'arma di lotta e di emancipazione della classe operaia e, con essa, dell'umanità intera!

Chi pensasse che l'identico legame intercorrente fra tattica e principi (come fra principi e programma e fini e teoria) non vincoli l'organizzazione, scambierebbe – nella migliore dell'ipotesi – l'accidentalità irrilevante di singole norme "statutarie" con la base di principio sulla quale esse sempre si erigono e in forza della quale vengono alternativamente fissate, o soppresse, o rese inoperanti. Dimenticherebbe che la nostra storica battaglia in seno alla III Internazionale si condensa nella vigorosa proclamazione che la "coordinazione della tattica alle finalità supreme del movimento rivoluzionario", tradotta in un "insieme sintetico di direttive" note e impegnative per tutti, è condizione – non sufficiente, certo, ma necessaria – della stabilità organizzativa e della serrata disciplina del Partito; proclamazione che vieta già di per sé di considerare scissa dalla catena dei principi proiettati nella tattica la categoria dell'"organizzazione".

Ma v'è di più. La tattica è il modo di agire non di individui, persone e gruppi, ma di quell'organo ed organismo cui è affidata l'attuazione dei principi della presa rivoluzionaria del potere, della dittatura, della coercizione statale: il Partito. Può mai, questo organo, strutturarsi "a casaccio", fuori da una sua legge, senza divenir preda di leggi differenti ed antitetiche, le leggi della classe avversa e della sua conservazione?

Quando noi – e dicendo noi parliamo di Marx ed Engels nella lotta contro gli antiautoritari, come dei loro grandi o umili discepoli – eleviamo a principi il centralismo e la disciplina, lo facciamo forse in nome di un'idea astratta, o non invece dei principi che ci delimitano da chi magari condivide i nostri "fini", ma li colloca nell'empireo della ragion pura o dello "spirito" o, peggio, delle opinioni accidentalmente mulinanti nella zucca dell'individuo? Il nostro centralismo non è, certo, un dogma eterno, come non lo è la dittatura e non lo è il terrore; ma non c'è dittatura né terrore e, prima ancora, presa del potere rivoluzionaria, senza centralismo, e non v'è centralismo senza quella sua controfigura che è la disciplina. Potremmo addirittura capovolgere la successione delle categorie finora esposte e poggiarle tutte su quest'ultima – l'organizzazione centralizzata – , per la buona ragione che non siamo qui a batterci perché sia adottata... nelle Università la nostra teoria o nelle... Case della Cultura il nostro programma, bensì perché con essi si vinca una storica e materiale battaglia fra le classi; potremmo farlo, dicevamo, ma alla sola condizione di riconoscere che centralismo e disciplina o servono al trionfo di quei principi, o sono forme vuote pronte ad accogliere qualunque contenuto e, come nello stalinismo, il peggiore, il più anticomunista dei contenuti. E fissiamo questo teorema: non c'è organizzazione se non in funzione dei principi; non c'è principio che, per realizzarsi, non si crei la propria organizzazione, veicolo della tattica a esso raccordata, del programma che in essi si incarna, della teoria (quindi dei fini) che tutti regola e sovrasta.

Poggiando la polemica anti-individualista e anti-anarchica su basi rigorosamente materiali, Engels ricordava come la stessa struttura produttiva che la borghesia ha avuto il compito storico di introdurre poggi su una rete centralizzata di unità non soltanto connesse da legami inscindibili, ma convergenti in un unico punto; esempio tipico quel sistema nervoso dell'economia e della società che sono le ferrovie. Dialetticamente – qui il senso del paragone -, l'assalto rivoluzionario si configura come il convergere di mille binari e convogli verso il terminal – oggi diremmo – del potere statale centrale: di che cosa è organo il Partito, se non del rapido, regolare, cosciente congiungersi – con il minimo di... deragliamenti – dei reparti di assalto della classe al punto d'arrivo obbligato della rivoluzione? E potrebbe assolvere questa funzione materiale, se fosse a sua volta un insieme policromo e discorde di pattuglie operanti non solo in ordine sparso (che può anche essere un aspetto inevitabile e doveroso di una data fase della Iotta), ma nell'assenza del più rigoroso, del più severo, del più esemplare, ordine?

Non siamo per una disciplina purchessia e siamo contro un centralismo asservito a principi non nostri – che per noi significa contrari ai nostri. Ma siamo stati, siamo e saremo per quella centralizzazione nella struttura organizzativa al servizio dei nostri principi, che è solo l'altra faccia della natura globale della nostra dottrina. O le parole hanno un senso, o, quando definiamo il partito una milizia, questo intendiamo: a chi non ama il termine e il suo contenuto resta un'unica via – quella di non avvicinarsi neppure alla nostra non facile porta d'entrata.

Non basta "abbracciare un'idea" come dicevano i nostri nonni, così come non basta, inversamente, abbracciare un movimento organizzato. L'una e l'altra soluzione peccano di idealismo, che poi è la via diritta al peggiore, al più rozzo ed incosciente, dei "materialismi". Non si accettano la teoria, magari i fini, magari il programma, magari (a fettine) i principi, e, paghi del "gran passo", si volgono le terga alla tattica e al suo necessario strumento, l'organizzazione; quasi che queste ultime fossero oggetto di libera scelta da un lato, appendici occasionali di tutto il resto dall'altro. O tutto, al solito, o nulla – il che vale, s'intende, delle prime quattro categorie nei confronti delle due ultime, come di queste nei confronti di quelle.

Quando si pose nel primo dopoguerra il grave problema di tagliare nel corpo dei vecchi partiti socialisti per inquadrare nella nuova organizzazione mondiale del proletariato rivoluzionario le forze sane imprigionate nella morsa di organismi fatti su misura per assolvere funzioni non rivoluzionarie, noi ammonimmo che l'operazione era e doveva essere chirurgica proprio perché organo e funzione non sono termini separabili, ma l'uno condiziona l'altro e tutt'e due condizionano l'esistenza globale del Partito, il suo essere nella totalità dei suoi caratteri distintivi, la sua capacità di guidare la classe nella battaglia finale come nella sua tormentosa preparazione; e che mai più, tagliato il membro infetto, si sarebbe dovuti cader preda – come si ricadde – dell'illusione di ricucirlo per farlo servire ai nostri scopi. "Ogni organismo ha una legge funzionale – scriveva Rassegna Comunista (30 giungo 1921, p.214) – che non ammette violazioni. Una tesi somigliante a quella che dimostra l'impossibilità di prendere l'apparato dello Stato borghese e volgerlo ai fini della classe proletaria e della costruzione socialista, prova, tra le conferme molteplici della realtà, che la struttura dei partiti socialdemocratici dell'anteguerra con le sue funzionalità parlamentaristiche e sindacali non può trasformarsi in struttura del partito rivoluzionario di classe, organo della conquista della dittatura".

Non si poteva dire con maggiore efficacia che la rivoluzione ha bisogno – molto prima di divenire realtà – di un organo speciale, rispondente a funzionalità speciali, operante in conformità a principi speciali. Se così non fosse, butteremmo tra i ferri vecchi, proprio noi!, il Partito.

 

Tattica e organizzazione sono inscindibili dai principi (II)

 

Note:

(1) Questo argomento, come quello del paragrafo successivo, è svolto ampiamente soprattutto nei paragrafi 5-7 del II volume della Storia della Sinistra Comunista, ai quali rinviamo per una trattazione più vasta e completa.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
ARTICOLI GUERRA UCRAINA
RECENT PUBLICATIONS
  • Il proletariato nella seconda guerra mondiale e nella
    Il proletariato nella seconda guerra mondiale e nella "Resistenza" antifascista
      PDF   Quaderno n°4 (nuova edizione 2021)
  • Storia della Sinistra Comunista V
    Storia della Sinistra Comunista V
  • Perchè la Russia non era comunista
    Perchè la Russia non era comunista
      PDF   Quaderno n°10
  • 1917-2017 Ieri Oggi Domani
    1917-2017 Ieri Oggi Domani
      PDF   Quaderno n°9
  • Per la difesa intransigente ...
    Per la difesa intransigente
NOSTRI TESTI SULLA "QUESTIONE ISRAELE-PALESTINA"
  • Israele: In Palestina, il conflitto arabo-ebreo ( Prometeo, n°96,1933)
  • Israele: Note internazionali: Uno sciopero in Palestina, il problema "nazionale" ebreo ( Prometeo, n°105, 1934)
  • I conflitti in Palestina ( Prometeo, n°131,1935)
  • Gli avvenimenti in Palestina (Prometeo, n°132,1935)
  • Israele: Fraternità pelosa ( Il programma comunista, n°21, 1960)
  • Israele: Il conflitto nel Medioriente alla riunione emiliano-romagnola (Il programma comunista, n°17, 1967)
  • Israele: Nel baraccone nazional-comunista: vie nazionali, blocco con la borghesia ( Il programma comunista, n°20, 1967)
  • Israele: Detto in poche righe ( Il programma comunista, n°18, 1968)
  • Israele: Spigolature ( Il programma comunista, n°20, 1968)
  • Israele: Un grosso affare ( Il programma comunista, n°18, 1969)
  • Incrinature nel blocco delle classi in Israele(Il Programma comunista, n°17, 1971)
  • Curdi palestinesi(Il Programma comunista, n°7, 1975 )
  • Dove va la resistenza palestinese? (I)(Il Programma comunista, n°17, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (II)(Il Programma comunista, n°18, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (III)(Il Programma comunista, n°19, 1977)
  • Il lungo calvario della trasformazione dei contadini palestinesi in proletari(Il Programma comunista, n°20-21-22, 1979).
  • In rivolta le indomabili masse sfruttate palestinesi ( E' nuovamente l'ora di Gaza e della Cisgiordania)(Il Programma comunista, n°8, 1982)
  • Cannibalismo dello Stato colonialmercenario di Israele(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Le masse oppresse palestinesi e libanesi sole di fronte ai cannibali dell'ordine borghese internazionale(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • La lotta delle masse oppresse palestinesi e libanesi è anche la nostra lotta- volantino(Il Programma comunista, n°13, 1982)
  • Per lo sbocco proletario e classista della lotta delle masse oppresse palestinesi e di tutto il Medioriente(Il Programma comunista, n°14, 1982)
  • La lotta nazionale dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Sull'oppressione e la discriminazione dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°19, 1982)
  • La lotta nazionale delle masse palerstinesi nel quadro del movimento sociale in Medioriente(Il Programma comunista, n°20, 1982)
  • Il ginepraio del Libano e la sorte delle masse palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1984)
  • La questione palestinese al bivio ( Il programma comunista, n°1, 1988)
  • Il nostro messaggio ai proletari palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1989)
  • Una diversa prospettiva per le masse proletarie (Il programma comunista, n°5, 1993)
  • La questione palestinese e il movimento operaio internazionale ( Il programma comunista, n°9, 2000)
  • Gaza, o delle patrie galere (Il programma comunista, n. 2, 2008)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • A Gaza, macelleria imperialista contro il proletariato ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • Il nemico dei proletari palestinesi è a Gaza City ( Il programma comunista, n°1, 2013)
  • Per uscire dall’insanguinato vicolo cieco mediorientale (Il programma comunista, n° 5, 2014)
  • Guerre e trafficanti d’armi in Medioriente (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • Gaza: un ennesimo macello insanguina il Medioriente-Volantino (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • L’alleanza delle borghesie israeliana e palestinese contro il proletariato (Il programma comunista, n°6, 2014)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario  ( Il programma comunista, n°3, 2021)
  • A fianco dei proletari e delle proletarie palestinesi! ( Il programma comunista, n°5-6, 2023)
  • Il proletariato palestinese nella tagliola infame dei nazionalismi ( Il programma comunista, n°2, 2024)
We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.