DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Un anno fa, sulle pagine di questo giornale (e in seguito del nostro organo in lingua inglese, The Internationalist), richiamavamo la grave situazione sociale esistente in Gran Bretagna, specie per quanto riguarda la “questione delle abitazioni” e le misure anti-proletarie in atto o in progetto 1. E ciò ben prima che esplodesse sulla scena europea il “caso Brexit”. D'altra parte, nell'editoriale del n.4/2016 sempre di questo giornale 2, sottolineavamo il fatto che il peggioramento prevedibile delle condizioni di vita e lavoro dei proletari britannici (indigeni o immigrati) non sarebbe stato da attribuire all'uscita della Gran Bretagna dall'Europa (cioè, alla “Brexit” in quanto tale), ma al complesso di misure che ogni capitale nazionale è costretto a prendere per cercare di far fronte alla propria crisi – misure fra cui si può annoverare la stessa “Brexit”. Che cosa infatti è cambiato da allora? Non molto in verità, se non nel senso di rendere più acute quelle contraddizioni sociali: lo dimostra anche solo l'insistenza con cui alcune istituzioni locali londinesi (come, tanto per fare un esempio, la biblioteca di quartiere di Tower Hamlets, una delle zone di Londra tradizionalmente proletarie e oggi più colpite dal procedere della speculazione edilizia e finanziaria, la cosiddetta gentrification) tornano sul tema scottante delle abitazioni, con ampie documentazioni sui movimenti di occupazione delle case, particolarmente diffusi e combattivi negli anni '20 e '30 del '900, ma anche successivamente, negli anni '60 e '70.

Intanto, nel panorama inglese, dopo il rimpasto governativo con passaggio di consegne da Cameron a una campionessa del conservatorismo anti-proletario come Theresa May (non a caso, Ministro degli interni nel governo precedente!), dopo la fibrillazione diffusa nella “sinistra” (compresa quella “più estrema”) in vista della “rielezione sì, rielezione no” di quel campione di massimalismo e opportunismo tipicamente laburista che è Jeremy Corbyn, e mentre si susseguono le solite (ma non solo inglesi!) vicende di scandali e scandaletti, è come se la scena fosse congelata, in trepida attesa di ciò che “vorrà davvero dire Brexit”. Ben poche notizie filtrano sui problemi reali del proletariato inglese, se si eccettuano quelle relative a brevi e circoscritti scioperi (rigorosamente a scacchiera) nell’ambito di questo o quel settore – vuoi in questa o quella compagnia ferroviaria, vuoi nella metropolitana londinese.

Due mobilitazioni sono state invece di un certo interesse, tra fine agosto e metà settembre 2016 3, soprattutto per il significato che rivestono: l’agitazione contro i “contratti a zero ore” e quella dei “medici giovani”. Partiamo da quest’ultima, perché segnala il maturare di un’ennesima frattura all’interno di un settore di classe media finora protetto e privilegiato (è il caso di ricordare come il sistema sanitario, oggi allo sbando, fosse, almeno fino a qualche tempo fa, un fiore all’occhiello del Paese?). I “medici giovani” sono scesi in lotta in maniera decisa contro progetti gravemente penalizzanti (orari più lunghi, paghe ridotte) e sono stati attaccati da ogni parte con l’accusa di “abbandono dei pazienti” e con la minaccia di espulsione dal registro medico nazionale da parte della corporazione di categoria – vecchia storia che si ripete ogni volta (ricordate, negli anni ’70, la lunga stagione delle lotte degli ospedalieri in Italia?). L’agitazione, che ha visto anche una forte contrapposizione fra sindacato di regime e organismi di base, è significativa perché mostra una volta di più come le “mezze classi” (così preferiamo chiamarle, proprio per rimarcare sia la collocazione intermedia di questi strati sociali sia il loro eterno ondeggiare, sul piano materiale e ideologico, fra borghesia e proletariato) vedano sempre più erosi e calpestati i “vecchi” privilegi e sempre più vicino (terrore!) il momento dello scivolamento nelle file proletarie. La seconda mobilitazione, contro i “contratti a zero ore”, ha visto protagonista il variegato universo precario, in tutto e per tutto simile a quello proliferato negli ultimi anni in tutti i paesi sotto la pressione della crisi capitalistica: si tratta sostanzialmente di quei “contratti a chiamata” che pongono i precari alla totale mercé del padronato, senza sicurezza alcuna di continuità e con salari da miseria (è inutile spendere altre parole per ricordare di chi parliamo: in Italia, la recente agitazione dei giovani lavoratori ultra-precari di Foodora li ha per breve tempo portati alla ribalta). Secondo una nota dell’Office for National Statistics (riportata dal Guardian dell’8/9/2016), il numero di lavoratori con “zero-hours contracts” è cresciuto di 100mila unità nei dodici mesi precedenti, superando per la prima volta le 800mila unità; gli stessi dati mostravano che, nel novembre 2015, era operativo circa 1 milione e 700mila di contratti di questo tipo – a riprova del fatto che molti lavoratori sono costretti a firmare più di un “contratto a zero ore” alla volta. E’ bene sottolineare che questa dei “contratti a zero ore” non è una distorsione del mercato del lavoro, come opportunisti di vario pelo e multicolori anime belle si sforzano di sostenere, ma un aspetto fisiologico del lavoro in regime capitalistico, destinato ad aggravarsi in epoca di crisi. E mostra come la nostra parola d’ordine sulla necessità della rinascita di organismi territoriali di lotta sia non solo appropriata, ma carica di drammatica urgenza. Solo un rinato fronte comune di lotta, strutturato sul territorio, che abbracci precari e disoccupati, lavoratori più o meno garantiti e strati in via di proletarizzazione, e si faccia carico anche di tematiche quali la “questione delle abitazioni”, la nocività e gli omicidi sul posto di lavoro, la sperequazione fra settori all’interno del proletariato (uomini/donne, giovani/anziani, “indigeni”/immigrati), e così via, può infatti sperare di sostenere un attacco sempre più selvaggio alle condizioni di vita e di lavoro, che si traduce anche in “guerre fra i poveri”, oltre che in populismi e sciovinismi diffusi – dei quali ultimi, come si può ben capire, è sommamente grato il Capitale.

Il quale, peraltro, non esita a “scorrazzare”, con le sue misure anti-proletarie, in ogni campo della vita sociale. Due esempi significativi. Grande risalto sui mezzi di comunicazione inglesi ha avuto la polemica intorno alla possibilità o meno di reintrodurre o estendere le Grammar Schools, ossia quelle “scuole d’élite” rivolte agli “11-plus” (i bambini oltre gli 11 anni), che preparano a una prospettiva universitaria e il cui accesso è rigidamente controllato da test severi – “scuole d’élite” che, sebbene non del tutto scomparse, negli ultimi anni erano state per lo più soppiantate da Comprehensive Schools socialmente più aperte e con programmi di studio più ampi. La loro (re)introduzione comporterebbe una frattura tra chi se le può permettere e chi no, e fra preparazioni di serie A e di serie B. Ora, è evidente che noi non facciamo differenze tra un tipo di scuola preteso “migliore” e uno “peggiore”, né fra scuole pubbliche e private o via dicendo, poiché sappiamo che la “scuola” è comunque uno dei luoghi e strumenti attraverso cui avvengono la formazione e la diffusione dell’ideologia dominante. Il “caso” è invece interessante, perché – una volta di più – serve demagogicamente alla classe dominante per rassicurare proprio quelle “mezze classi” in debito d’ossigeno, se non altro rafforzandone il senso ideologico di classe, alquanto eroso dalla materialità di una progressiva proletarizzazione.

L’altro esempio è ancor più eloquente. Nel nostro articolo di un anno fa, citato sopra, ricordavamo come la classe dominante si stesse sempre più attrezzando per far fronte a scenari possibili di conflitti sociali, grazie all’introduzione di misure ancor più repressive in ambito sindacale, volte a imbrigliare le lotte che dovessero svilupparsi e di conseguenza le organizzazioni spontanee del proletariato. Di nuovo, una prassi comune a tutti gli Stati. Una recente misura, che riguarda la “dotazione” della polizia metropolitana londinese (un progetto-pilota, che potrebbe essere esteso all’intera forza di polizia nazionale), ha suscitato scalpore: l’introduzione degli spit hoods, cappucci bianchi di materiale traspirante, da infilare sul capo di fermati o sospetti per… evitare che sputino addosso ai poveri agenti (così esposti alle… intemperanze) o cerchino di morsicarli! Gli spit hoods vanno dunque ad aggiungersi ai manganelli, alle manette, agli strumenti di contenimento per braccia e gambe, agli spray al peperoncino, nell’armamentario poliziesco: a quando l’incaprettamento? Il Guardian edizione on-line del 29 agosto riporta che nel mezzo anno precedente sono stati 513 casi di ricorso (sperimentale!) agli spit hoods, riguardanti anche ragazzini intorno ai 13 anni (alcuni dei quali portatori di handicap) o ultra-70enni…

Intanto, sempre più drammatica si fa la situazione dei senzatetto, e in particolare delle fasce più deboli ed esposte come madri single e bambini: mentre infatti le aree centrali delle principali città sembrano un cantiere a cielo aperto con le più mirabolanti e orripilanti architetture di lusso, risulta sempre più contratto il numero di nuove “social rent” homes (appartamenti “ad affitto sociale”) finanziate dal governo, sceso nell’anno trascorso a meno di 10mila, vale a dire il 70% in meno rispetto a cinque anni prima (The Observer, 18/9/2016)); contemporaneamente, sono aumentati gli affitti nelle case ad “affordable rent” (ad affitto accessibile), e i due “fenomeni” combinati insieme stanno producendo un’autentica ghettizzazione per fasce d’età, con gli over 50 via via espulsi verso la periferia o in aree rurali e i più giovani a cercare di sbarcare il lunario in case con affitti sempre più alti (+5,2% rispetto al 2015, fino a cifre record intorno alle 900 sterline al mese, in Inghilterra e Galles: The Guardian, 9/9/2016). C’è poi la situazione davvero drammatica delle famiglie costrette a vivere in “temporary accomodation” (sistemazioni temporanee): nella sola Londra, si parla di quasi 52mila nuclei familiari, con un totale di 90mila bambini: nuclei familiari per lo più composti, come si diceva sopra, da madri single e/o incinte. Le linee-guida al riguardo indicano che nessun nucleo dovrebbe risiedere per più di sei mesi in queste “sistemazioni temporanee” (che spesso i comuni appaltano a privati privi di scrupoli, con i prevedibili risvolti di sovraffollamento, pessime condizioni igieniche, scarsa se non inesistente manutenzione, ecc.). La realtà è ben diversa, specie in grandi metropoli come Londra, dove risulta che più della metà dei nuclei familiari vi rimane per periodi che vanno fino ai due anni. Le conseguenze sono facili da immaginare!

***

Sì, c’è sempre più del marcio in Gran Bretagna, e occorrerà una robusta ramazza per spazzarlo via. Ma a impugnarla, quella ramazza, dovrà essere il partito rivoluzionario, che da troppo tempo manca in Gran Bretagna come altrove: è questa una necessità urgente di cui le avanguardie di lotta e i proletari più coscienti dovranno farsi carico senza indugio.

 

1 Cfr. “C’è del marcio in Gran Bretagna. Appunti sulla situazione sociale”, il programma comunista, n.6/2015; “Something Is Rotten in the United Kingdom. Notes on the Social Situation”, The Internationalist, n.3/2016.

2 Cfr. “Sempre più allo sbando il mondo del capitale”, Il programma comunista, n.4/2016.

3 Dati e informazioni che seguono sono tratti dalla stampa inglese di settembre 2016, e in particolare da The Guardian, The Observer e The Financial Times.

 

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