DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

16.      La prima guerra mondiale

 

Se in Italia la vivace lotta contro la guerra libica del 1911 aveva costituito un'ottima prova per le forze proletarie, che già avevano una tradizione di battaglia contro le imprese etiopiche della fine del XIX secolo e le gesta del colonialismo, in tutto il quadro mondiale il primo decennio del nuovo secolo si preparava per varie manifestazioni a chiudere il periodo idillico degli ultimi decenni del precedente. Vi erano stati i contrasti per la espansione nel Mediterraneo occidentale, sistemati per il momento alla conferenza di Algesiras, e non pochi periodi di tensione fra Gran Bretagna e Russia in contrasto nel Medio-Oriente e in Asia, a parte la sanguinosa guerra russo-giapponese del 1905 che provocò la prima rivoluzione russa. L'attacco dell'Italia alla Turchia causò la rottura di quell'equilibrio balcanico faticosamente tessuto al Congresso di Berlino dopo la guerra turco-russa del 1878, e vi furono le due guerre balcaniche del 1912: la lega degli Stati soggetti contro la Turchia feudale, che fu vinta, e poi la nuova guerra tra i vincitori per togliere alla Bulgaria la parte del leone.

I fremiti di tutti questi conflitti tenevano in movimento sempre più critico la politica estera delle famose «Grandi Potenze» divise tra due alleanze: la Duplice, franco-russa, e la Triplice fra Germania, Austria e Italia.

Molto complessi erano i contrasti di interessi fra le varie potenze anche tra loro alleate, la cui base era nella conquista dei mercati e nella difficile partizione delle sfere di influenza coloniale, in cui all'avanguardia erano Gran Bretagna e Francia. L'Inghilterra aveva sempre ostentato di stare fuori dalle alleanze fra gli Stati del continente, nella famosa «splendid isolation», ma da vari anni, chiusa l'eco di più antiche contese, africane in ispecie, si era legata alla Francia nella «Entente cordiale». All'inizio del secolo l'Italia, sebbene legata dal trattato della Triplice agli Imperi Centrali, aveva mostrato per l'Intesa una strana simpatia, e questa brillante politica estera prediletta dai partiti popolaristi e massonici veniva presentata ai lettori ingenui (ma valgono forse meglio gli odierni?) della grande stampa come «giri di valzer», leciti anche alle dame che non si spingono ancora fino a cornificare il marito.

L'incubo di una guerra, che si capiva non avrebbe potuto che essere generale, era palese, e lo fu anche ai socialisti dei vari Paesi. Il congresso di Basilea del 1912 (novembre) lanciò il memorabile manifesto contro la guerra prendendo a motivo il divampare di quelle balcaniche, che tenevano in specie Austria e Russia sempre sul piede di guerra. I principi stabiliti a Stoccarda non avevano nemmeno bisogno di esprimere «il divieto che i socialisti appoggiassero la guerra nazionale», ma invitavano la classe operaia e le sezioni dell'Internazionale a compiere ogni sforzo per impedire lo scoppio del conflitto, e, nel caso che esso fosse scoppiato, ad agire per farlo cessare, «approfittando della crisi economica e politica creata dalla guerra per agitare gli strati popolari più profondi e precipitare la caduta della dominazione capitalistica». La nozione della presa del potere politico è qui chiarissima, anche se la formulazione dottrinale potrebbe essere migliore. Non si può abbattere il sistema sociale capitalistico senza rovesciare la dominazione politica della borghesia; e questo è vero in tempo di pace. Il tempo di guerra non solo non fa eccezione ma presenta anche le condizioni migliori per tentar di raggiungere tale risultato rivoluzionario.

Gli stessi concetti erano stati ribaditi non solo nel già ricordato congresso 1912, ma anche in quello di Copenaghen 1910. Lenin nel 1915 sottolineò che il Manifesto di Basilea aveva indicato due esempi storici espliciti: la Comune di Parigi del 1871 e la rivoluzione russa del 1905, nei quali, approfittando dei rovesci dello stato nazionale nella guerra, il proletariato aveva fatto ricorso alla guerra civile insorgendo armato, e nel primo caso conquistando il potere (nozione storica del disfattismo proletario). Nelle mozioni dei congressi mondiali della Seconda Internazionale non era mai potuta prevalere la formula insidiosa della destra - negli scritti di Lenin per sempre condannata come revisionista e opportunista - che l'azione dei partiti socialisti nei paesi in guerra dovesse essere limitata dalla insulsa condizione della simultaneità dai due lati del fronte bellico.

Se ritorniamo per un momento al partito socialista italiano, dovremo ripetere la constatazione negativa che, malgrado la lunga lotta della corrente rivoluzionaria per prevalere contro la destra, non si era mai giunti a una formulazione completa della tattica del partito in caso di guerra, e soprattutto in caso di guerra europea generale. In materia di antimilitarismo, tali questioni erano state negli anni precedenti agitate sempre da anarchici e sindacalisti soreliani con indirizzi di falso estremismo, quali il rifiuto personale di obbedienza, l'obiezione di coscienza e simili, e nemmeno perfetto era stato il lavoro del movimento giovanile socialista, che pure aveva per primo saputo tenersi distinto dai libertari e combattere il riformismo quando ancora nel partito dominava.

Il dramma dell'Europa fu segnato da pochi colpi di rivoltella che sparò a Serajevo, capitale della Bosnia, provincia slava sotto dominio austro-ungarico, il giovane Prinzip il 28 giugno del 1914, uccidendo l'arciduca Francesco Ferdinando, principe ereditario dell'Impero.

Il governo austriaco attribuì l'atto a cospirazione serba favorita dal governo di Belgrado e dalla dinastia antiaustriaca dei Karageorgevic e dopo agitate settimane di vigilia notificò il 23 luglio un ultimatum alla Serbia che imponeva durissime condizioni. Alcune di esse furono rifiutate nella risposta, e la situazione, malgrado tentativi di arbitrato, divenne gravissima. Chi ruppe gli indugi fu lo zar Nicola di Russia che, in sostegno alla Serbia minacciata di invasione, ordinò la mobilitazione generale il 30 luglio; il 31 ne seguì l'esempio il Kaiser, che il 1 agosto dichiarò guerra alla Russia; l'1 agosto mobilitò l'Austria-Ungheria, e le avanguardie delle sue armate valicarono il Danubio. Ovunque le truppe obbedivano, i riservisti si presentavano, partivano e combattevano. Un senso di gelo incombeva sull'Europa. Il 3 agosto la Germania dichiarò guerra alla Francia e intimò al Belgio di lasciar passare le sue forze armate. Il Belgio mobilitò per difendersi. Il 4 agosto è il giorno che rimane nella storia: dichiarò guerra la Gran Bretagna col motivo che era stato violato il trattato che garantiva la neutralità del «piccolo Belgio». Nei suoi passi ipocriti per la pace fino a poche ore prima, Londra aveva dichiarato in pubblico e nel segreto diplomatico che non si sarebbe mossa: se avesse apertamente annunziato di muoversi forse gli altri avrebbero indugiato a fare i primi passi irrevocabili. La lezione della storia è per noi che, perché la guerra scoppi, non occorrono i «provocatori». Ma se si volesse individuarli non si dovrebbe cercare che tra i «pacifisti». Oggi le cose non vanno diversamente da allora, né la cosa cambiò nella tarda estate dell'altro anno maledetto, il 1939.

Tanto nell'una quanto nell'altra estate noialtri osservatori italiani non fummo folgorati ad horas dai telegrammi della mobilitazione, ma invitati a una finestra da cui si osservava l'incendio. Quale ventura! E quale insegnamento è potuto uscirne!

Il 4 agosto fu memorabile anche perché i socialisti toccarono il vertice della vergogna. A Vienna a Berlino a Parigi a Londra, ossia da ambo i lati della folgorante lacerazione a cui gli stessi borghesi ancora non credevano, le unanimità dei partiti socialisti non solo nulla trovarono da dire al proletariato e ai loro aderenti dalla vantata tanto, prima e dopo, tribuna elargita dalla democrazia, ma dissero che gli ordini di guerra dei governi erano giusti, non trovarono una parola di opposizione, e votarono l'approvazione della politica di guerra e i crediti militari. I poteri degli Stati capitalistici ebbero le mani più libere che non avrebbero avuto gli antichi poteri storici assolutistici e non costituzionali, in cui il monarca aveva diritto di dichiarare guerra senza il consenso né il voto di nessuno.

I socialisti parlamentari fecero ancora di più: entrarono nei governi che prendevano il nome ignobile di unione sacra, come il Vandervelde, segretario belga dell'Internazionale, e i francesi, indifferenti all'assassinio del pur destro Jaurès, ucciso il 31 luglio dal nazionalista Villain; il solo che fece in tempo a morire degnamente.

Vi furono poche ma gloriose eccezioni. Tra i vari gruppi alla Duma, quello di sinistra del partito socialdemocratico (i bolscevichi) prese fiera attitudine di opposizione e si dette all'agitazione nel paese: fu tutto mandato in Siberia. Solo una parte peggiore dei destri (menscevichi) e dei social-rivoluzionari e populisti votò i crediti di guerra, gruppi intermedi non si macchiarono di tanto ma tennero una politica ambigua.

In Inghilterra, ove anche i partiti erano diversi, il grosso partito laburista appoggiò in pieno la guerra; meglio si comportò il Partito Socialista Britannico, e coraggiosamente contrario fu il Partito Indipendente del Lavoro (Mac Donald). Vero esempio di internazionalismo conseguente dettero i serbi. In quale paese poteva di più giocare il motivo della difesa nazionale? L'unico compagno deputato, Laptchevitch, il 1° agosto rifiutò il voto ai crediti. All'opposizione si tenne il partito socialista bulgaro.

Nell'accennata tutta speciale situazione dell'Italia, si può dire che tutti i partiti e i gruppi parlamentari si opposero all'intervento in guerra, che in un primo momento era diplomaticamente preteso dagli alleati della Triplice. Il 2 agosto il governo Salandra annunziò che, non ravvisandosi il casus foederis (estremo previsto nel trattato d'alleanza), l'Italia sarebbe rimasta neutrale, e non vi fu alcuna opposizione da parte dei cattolici e dei giolittiani, ma solo da parte del giovane movimento nazionalista, che nei primissimi tempi fu favorevole all'intervento a fianco degli Imperi Centrali e poco dopo richiese a gran voce la guerra contro di essi: il che, sia detto per inciso, dimostra come per il grande capitalismo industriale italiano, che notoriamente finanziava la stampa dai nazionalisti, l'importante era fare la guerra a tutti i costi, non conta da che parte.

A noi interessa dire quello che avvenne nel partito socialista. È del tutto chiaro che al primo delinearsi del pericolo in Europa, che significava in via formale rischio di una guerra a fianco degli Imperi Centrali, sinistri e destri si levarono come un sol uomo contro la guerra, e ciò fin dai giorni della fine di luglio. Per i rivoluzionari, l'opposizione ad ogni guerra era fuori discussione, ma la guerra in Italia sarebbe stata odiosa in modo tanto particolare, che fu risolto in modo radicale anche dai riformisti e «socialisti moderati» il problema che subito si poneva: Come impedire la guerra, se il governo per fedeltà agli impegni la dichiara e ordina la mobilitazione perché, nel caso, si attacchi la Francia sulle Alpi? I destri scelsero la soluzione rivoluzionaria: si sarebbe data la parola dell'insurrezione armata! Turati, teorizzatore mille volte della non cruenta azione proletaria, dichiarò che, sebbene non giovane, avrebbe per primo imbracciato un fucile scendendo in piazza per invitare cittadini e soldati mobilitati all'insurrezione e all'insubordinazione. Presto si vide che di tanto, malgrado la portata e anche l'incontestabile sincerità della sua posizione, non vi sarebbe stato bisogno.

I destri di allora, come del resto quelli di oggi, hanno per divisa: ad ogni situazione concreta una risposta concreta; mai il partito deve porsi il problema inutilmente astratto: Se altra fosse la situazione, quale sarebbe l'altra e diversa risposta? Simili velleità pongono i grandi capi politici in grave disagio; perché disturbarsi ad immaginare che tutte le forze in gioco si spostino sulla scacchiera, cambiando gli amici di un giorno in nemici? Questo muta e guasta tutto, e viene respinto con disdegno: dottrinarismo!

Allora sembrava una domanda a vuoto questa: Se sappiamo che fare nel caso di una guerra contro la Francia, ossia sparare sugli ufficiali italiani, si può sapere che fare nel caso di una guerra contro l'Austria? Quelli che pensano, come noi, che i due casi si equivalgono possono avere il diritto di dare una risposta sola, ma proprio quei signori che vedono tra i due casi enormi differenze pratiche hanno il dovere di aver pronte due risposte, se non vogliono truffare il proprio partito e la propria classe.

Questo non è che un esempio, ed è del passato, ma del tutto concreto; e la questione eterna della tattica sta sempre in questi termini, e sempre vi starà in futuro. Conviene dunque che se ne faccia un bilancio.

Tra l'agosto 1914 e il maggio 1915 tutto infatti ebbe a cambiare nel senso diametralmente opposto, e fu messa in discussione l'altra guerra, la guerra alla rovescia, la guerra a favore dell'Intesa.

Quindi chi primo pose il problema tattico non fece sfoggio di dottrinarismo, ma mostrò solo una migliore visione storica dei fatti pratici.

Se poi vedere i fatti non solo mentre accadono e dopo che sono accaduti, ma anche prima, vi garba chiamarlo dottrinarismo, fate. Tale parola ci piace e ci rallegra.

Dal 26 luglio Mussolini leva dalle colonne dell'«Avanti!» il grido di: Abbasso la guerra! e scrive in tutte lettere: Mobilitate, noi ricorriamo alla forza! Il 29 luglio la Direzione del partito lancia un manifesto ai lavoratori dopo un voto del 27 in unione al gruppo parlamentare: si fa cenno al recente sciopero generale e si invita il proletariato a prepararsi a nuove prove di forza.

Ma, se avesse dovuto giocare il trattato della Triplice, non solo i Mussolini e i Turati avrebbero guidato i ribelli, bensì anche altri capi politici, e tra questi i primi a rivelare tutti i loro intenti furono quelli del partito riformista, uscito dalla scissione del 1912; una corrispondenza di Bissolati con Bonomi del 2 agosto rivela che essi avevano chiesta la neutralità ma miravano alla guerra, si intende contro l'Austria.

Altri gruppi e partiti di cui diremo andavano portandosi su tale terreno, e tra essi non solo repubblicani, radicali, massoni, molti transfughi anche del sindacalismo rivoluzionario e dell'anarchismo, ma perfino in bella combutta con questa genia gli esaltati nazionalisti, anticipatori del posteriore fascismo. Fu evidente che la fermezza del partito socialista nella lotta contro la guerra poteva esser compromessa se tali errori non si chiarivano e se non si discutevano apertamente le due possibili prospettive, tanto più che quella filoaustriaca nei primi giorni di agosto era ormai scesa sotto l'orizzonte.

Vogliamo riportarci a un articolo della tendenza di estrema sinistra del partito, apparso col titolo Al nostro posto nell’«Avanti!» del 16 agosto (1) e scritto dieci giorni dopo lo scoppio della conflagrazione generale, che interessa anche per il «cappello» che vi premise il direttore Mussolini, del quale chiaramente si antivede la crisi futura.

Il giornale infatti si dichiara d'accordo sul contenuto dell'articolo, ma premette una distinzione abbastanza fragile tra socialismo logico e socialismo storico. Il rivoluzionario dovrebbe essere storico anche se non è logico. Il senso di questa palinodia è che è logico dire che anche per l'altra guerra la posizione socialista non dovrà mutare, ma che di fatto l'altra guerra è... un'altra cosa, che la Francia non è la Germania e la difesa non è l'aggressione.

L'articolo era scritto, s'intende, proprio per sostenere il criterio opposto a quello del cappello.

Alcune citazioni basteranno a chiarire l'impostazione delle tesi della Sinistra, in quanto non erano quelle di tutto il partito italiano (benché non naufragato nella rovina degli altri partiti europei) ma solo di una sua ala più chiara e più decisa(2).

Il «sentimento di viva simpatia per la Triplice Intesa» che molti compagni vanno tradendo «non risponde nel campo ideale al principio socialista, e serve nel campo pratico solo a fare il gioco del giorno e della borghesia italiana che freme di intervenire nel conflitto». Dunque, la questione di principio e quella storica erano poste entrambe; ed entrambe correttamente.

È negata la giustificazione delle guerre di difesa con l'esempio della Germania, che, nelle infauste dichiarazioni del deputato socialista Haase, era costretta a difendersi dal pericolo russo. Tutte le patrie sono in realtà in stato di difesa, l'aggressione è un fatto, la offensiva un altro. La violenza bellica (vedi Francia-Germania 1870) fa presto a trasformare un aggressore in un invaso che si difende. È fin da quei giorni lontani negata la teoria della «responsabilità» con le parole: «in realtà la borghesia di tutti i paesi è ugualmente responsabile dello scoppio del conflitto, o meglio ancora ne è responsabile il sistema capitalistico, che per le sue esigenze di espansione economica ha ingenerato il sistema dei grandi armamenti e della pace armata».

È poi svolta la teoria del militarismo borghese contrapposto a quello feudale; è la democrazia elettiva il terreno di coltura del primo. È ricordato contro note tesi polemiche che la Francia aveva sempre studiato di fare con la Svizzera quello che la Germania fece col Belgio, e a proposito di tutto l'informe bagaglio retorico della civiltà contro la barbarie, la presenza della Russia zarista feroce e sanguinaria tra i paladini della libertà...

Si tratta di sensibilità dottrinaria o di un pratico grido di allarme?

«La tendenza [alla guerra all'Austria] cova nell'ombra. Scoppierà nelle piazze se il governo vorrà fare la guerra contro i tedeschi, e forse assisteremo alle scene del settembre 1911 [Tripoli], specie se ci lasceremo disorientare da sentimentalismi francofili... Il governo potrebbe sentirsi le mani libere, inventare una provocazione tedesca, sventolare lo straccetto del pericolo della patria e trascinarci alla guerra sulla frontiera orientale.

«Domani, sotto il peso dello stato d'assedio, noi vedremo spargere pel mondo l'altra menzogna ufficiale che anche in Italia non ci sono più partiti, nella unanimità guerrafondaia.

«Al nostro posto dunque, per il socialismo!».

 

(1)      Cfr. il testo 16, nella seconda parte.

(2)      Si tratta del resto soltanto del primo di una serie di articoli, usciti fra l'agosto 1914 e il maggio 1915 ed oltre, e riprodotti nella seconda parte di questo volume, in cui le correnti giustificazioni dell'appoggio proletario alla guerra sono sistematicamente e una per una demolite (testi 15-33).

 

 

17.             Dibattiti socialisti nel tempo di guerra

 

Non è ovviamente possibile trattare qui della lotta tra i due schieramenti di partiti in Italia che si definirono, come sempre avviene, con etichette di moda: «neutralisti» e «interventisti». Ben presto sparì dalla circolazione ogni interventismo triplicista e rimase in ballo quello massonico, a cui i nazionalisti subito si adeguarono, passando anzi in testa. Ma il pubblico grosso vedeva nei fautori della neutralità detta assoluta un preteso blocco di socialisti (allora: ufficiali), cattolici e liberali giolittiani, tutti contrari alla guerra contro gli Imperi Centrali.

Qual'era l'esatta posizione dei rivoluzionari, come la ribadivano vari settimanali di sinistra delle federazioni (tra cui «Il Socialista» di Napoli)?

Il soggetto della proposta neutralità o del proposto intervento bellico era l'Italia, lo Stato italiano. Per i bolsi democratici, pari a quelli che oggi frodando la delega del proletariato e riempiono gli scanni della Camera italiana, ogni azione e posizione politica si riduce a un'indicazione di quello che debba fare lo Stato, quasi che noi ne fossimo parte. Ma il partito di classe è la controparte, il nemico dello Stato borghese, che solo con la sua pressione e in estremi casi storici con le armi può piegare, ed anzi può distruggere. Noi dunque allora, socialisti italiani antiborghesi antibellici ed antistatali, non eravamo neutralisti dello Stato, ma interventisti della lotta di classe e domani della guerra civile, che sola avrebbe potuto impedire la guerra. Erano loro, i guerrafondai, gli interventisti, i patrioti, gli sciovinisti, a meritare il nome giusto di neutralisti della lotta di classe, di disarmatori dell'opposizione rivoluzionaria.

Dicevamo dunque allora che non avremmo tollerato un blocco politico, come lo si caldeggiava, d'accordo con Giolitti e i cattolici, solo perché andando al potere questi non avrebbero fatta la guerra. Se il nostro gruppo parlamentare avesse dato un tale appoggio lo avremmo sconfessato per gli stessi motivi per cui deploravamo francesi, tedeschi, ecc. Coloro non avrebbero opposto la guerra altro che con mezzi legali (come quello in articulo mortis dei trecento biglietti da visita al portone di Giolitti nel maggio radioso che venne nel 1915), giammai con l'azione delle masse.

Ma il problema importante era quello entro il nostro partito. Ben pochi giungevano ad ammettere il disfattismo, quale Lenin lo teorizzò e non solo per la Russia assolutista, bensì per ogni Stato imperialista borghese. Meno che mai la destra turatiana, che aveva a sua volta minacciato l'azione di sabotaggio della mobilitazione ove il reuccio avesse dato l'ordine di partire (mentre sfidò l'ira di Guglielmone, che gli avrebbe telegrafato: Vinto o vincitore, mi ricorderò dì te).

Nel centro si ondeggiava alle ventate del tempo difficile e si andava elaborando quella tattica castrata di Costantino Lazzari, uomo dai tanti meriti e dai tantissimi errori, che venne sintetizzata nella frase: «né aderire né sabotare». Forse sarebbe meglio la divisa sicura dei carognoni di oggi 1963: «in caso di guerra o aderire o sabotare». La brutta formula di Lazzari significava che dopo avere scongiurato la borghesia in tutti i modi di non far la guerra, partite le prime colonne si doveva dire: Bene, abbiamo fatto il nostro dovere, ora non possiamo tagliare i garretti all'esercito nazionale perché faremmo il gioco (torna sempre buono questo famoso fare il gioco) delle armate nemiche pronte a invadere e devastare - diamoci dunque ad un'opera di Crocerossa civile, di incerottamento delle ferite.

La consegna della sinistra era questa: All'ordine di mobilitazione rispondere con lo sciopero generale nazionale.

Nessun congresso o riunione poté discutere queste gravi alternative. Il partito nel complesso difese in tutti i modi e in tutte le occasioni la sua consegna di opposizione alla guerra, ad ogni guerra. Quando vennero in Italia socialisti filobellici degli Imperi Centrali e della Intesa, furono debitamente redarguiti e invitati a tornarsene indietro con le loro proposte corruttrici (Sudekum tedesco, Lorand e Destrée belgo-francesi).

La più grave minaccia di crisi la portò Mussolini, che invano gli elementi di sinistra tentavano di trattenere da errori fatali. Esiste una sua lettera autografa (oh, non si vende!) che dice: «Dovreste essere voi al mio posto... Tutti i foruncoli sentimentali vengono a suppurazione? Ricevo ogni giorno lettere che mi dicono: lascerete sgozzare la Francia?»

E aggiungeva che non avrebbe piegato. «Per me una guerra all'Austria sarebbe una catastrofe socialista e nazionale». Giurato male, dicemmo: non sarebbe (né fu, catastrofe nazionale, ma di questo che ci frega? Noi siamo qui per arginare la catastrofe socialista.

Ma non erano foruncoli: era un bubbone, e scoppiò, anche se dapprima ne fummo smarriti. Il 18 ottobre del 1914 l’«Avanti!» uscì con l'articolo: Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante. Era il preludio alla tesi della guerra.

Nemmeno una sezione del partito vacillò. Un bell'esempio, e specie per la frazione di sinistra, di nessun attaccamento personale a un capo anche brillante. La sezione di Milano espulse Mussolini per indegnità, si diceva allora, politica e morale. Morale per i soldi dell'intesa portati da Cachin, con cui pochi giorni dopo usciva il quotidiano interventista «Il Popolo d'Italia».

La Direzione confermò, e nominò una nuova direzione del giornale: Lazzari, Bacci e Serrati. Infine fu il solo Serrati, uomo di indubbia energia.

Non si formò nemmeno una piccola frazione. Così andrebbero liquidati i traditori sub specie aeternitatis. Vi furono compagni e compagne che si offrirono di andarlo a revolverare...

Non ci è possibile ritenere compresa nel nostro tema la storia di tutta la contesa politica in Italia tra l'agosto del 1914 e il maggio del 1915 al fine di ottenere che il governo del paese seguisse la linea della neutralità o accettasse la suggestione dell'intervento a favore dell'Intesa. Le varie correnti politiche tradizionali entrarono quasi tutte in crisi e molte si divisero in due campi opposti. Noi dobbiamo principalmente seguire la vicenda in seno al partito socialista italiano, che non ebbe una crisi interna manifesta in quel periodo, mentre abbiamo già detto del distacco di Mussolini, evento che con parola alla moda fu spettacolare, ma non profondo.

La caratteristica del movimento interventista dei famosi «Fasci di combattimento» di cui poi Mussolini conservò il nome nel suo movimento del dopoguerra, fu di uscire dal campo di una semplice pressione parlamentare e legalitaria per risolvere il punto con una pressione sul governo dello Stato e sulla monarchia, e fare deciso appello a un moto di popolo, di massa, che avrebbe, anche con metodi di violenza, forzato la mano a Roma. La guerra è violenza ma è una violenza legale e statale, i fautori della guerra ebbero facile gioco nel mimetizzare la loro conversione nella formula della «guerra rivoluzionaria» non proclamata dai poteri dello Stato o dal re, come la costituzione voleva, ma imposta dal popolo sceso in un agone di tipo insurrezionale.

Fu facile a tale genia trattare i socialisti neutralisti da pacifisti di principio, e all'ingiuria di guerrafondai fu agevole opporre quella, classica allora, di «panciafichisti».

Qualcuno degli scialbi storiografi di quel periodo italiano ha rilevato, in tono di piagnisteo, che quello fu il primo esempio di violentazione della libertà del parlamento, e preparò l'estremo oltraggio che avrebbe dato apertura nel dopoguerra al ventennio della dittatura fascista.

Tuttavia non mancano negli attuali eredi confessi del movimento di liberazione nazionale ed antifascista quelli che non deprecano la violenza nazionalista del maggio radioso, e sono pronti a dirla in regola con le carte della migliore ideologia democratica, nello stesso tempo che sono giunti nel lungo cammino degenerante a condannare la violenza quando serva non ad ottenere una guerra, ma ad abbattere il potere del capitalismo, che invece dovrebbe cadere con processi costituzionali ed incruenti!

Le due idee, quella dell’apologia dell’intervento 1915 e quella della condanna della marcia su Roma 1922, stanno insieme, per dare un solo esempio, nella scatola cranica (dura per suo buon pro) di un Pietro Nenni, stanno insieme come giudizi dati dopo un corso di mezzo secolo nel quale simili soggetti hanno percorso tutta la gamma delle posizioni.

Ma già nel Partito Socialista prima del maggio 1915 vi era chi poneva nei giusti termini storici questo punto della violenza di Stato e della violenza di classe. Una breve nota del «Socialista» di Napoli (1) che fece il giro dei settimanali del partito, svolgeva la critica del termine neutralisti. Noi non eravamo né neutralisti né pacifisti, né credevamo possibile come punto di arrivo programmatico la pace permanente fra gli Stati. Noi deploravamo il disarmo della lotta di classe, della guerra di classe, per far largo alla guerra nazionale. La nostra alternativa non era: non sospendere la lotta di classe legalitaria, ma: combattere nella direzione della guerra rivoluzionaria proletaria che sola avrebbe un giorno ucciso le radici delle guerre tra i popoli. Noi eravamo i veri interventisti di classe, interventisti della rivoluzione.

Tutt'altra era naturalmente la posizione della destra del partito, oramai minoranza. Ma a parte che questa destra controllava il Gruppo parlamentare e la Confederazione del Lavoro, e aveva solo dovuto lasciare la Direzione del partito politico, era ben altra anche la posizione della direzione stessa, che passava per espressione della frazione rivoluzionaria intransigente di Modena, Reggio Emilia ed Ancona.

Tuttavia la destra e quello che possiamo ormai chiamare centro erano sul terreno di escludere ogni appoggio a un governo di guerra, ogni voto di crediti militari, ogni dichiarazione che il partito in caso di guerra avrebbe «sospesa» la sua opposizione. Ma questo era poco, molto poco, era una specie di politica delle mani nette, degna sì di pacifisti e neutralisti, non certo di rivoluzionari classisti. Venuta la guerra avremmo detto: Abbiamo fatto il nostro dovere e messo al sicuro le nostre responsabilità. Si disse in quei mesi: Abbiamo salvato l'anima!

 

(1)      Cfr. il testo 25, nella seconda parte.

 

 

18.             Maggio 1915: il convegno di Bologna

 

Il 19 maggio 1915 poiché gli eventi precipitavano fu convocato a Bologna un convegno tra Direzione del partito, Gruppo parlamentare, Confederazione del Lavoro e delegazioni periferiche del partito (Reggio Emilia, Roma, Torino, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Pisa, Venezia, Napoli, Parma, Modena, Ravenna). I deputati erano 20, i membri della Direzione 9, i confederali 8.

Non ci é dato sapere se di questa riunione e di altre che seguirono in tempo di guerra, esistano presso qualcuno i verbali. Alla data del 16 maggio non vi era ancora la censura, ma il resoconto dell'«Avanti!» è del tutto scolorito. Il voto pubblicato è debole e non esce dal tono della «separata responsabilità»; è vero che proclama «l'avversione incrollabile del proletariato... all'intervento in guerra» e dichiara per sempre impegnativa la decisione di votare contro qualunque richiesta di crediti di guerra, ma si limita a chiamare i proletari a manifestazioni e comizi improntati a un «carattere di disciplina, di dignità e di imponenza», finiti i quali i socialisti, consci «di non poter oggi essere arbitri del mondo capitalista, sicuri di aver fatto per sé, per il Paese e per la storia, di fronte all'Italia ed all'Internazionale, il loro dovere, avranno diviso e manterranno separate le loro responsabilità da quelle delle classi dirigenti». Anche in articoli dell'«Avanti!» e nel famoso discorso di Turati alla Camera per negare i pieni poteri chiesti dal governo Salandra alla vigilia della dichiarazione di guerra all'Austria, ricorre una frase infelice: Faccia la borghesia italiana la sua guerra! La borghesia faceva sì la sua guerra, ma con la pelle dei proletari italiani mandati a scannare quelli austriaci.

Secondo i destri e centristi storiografi di quei tempi, dalla riunione di Bologna sarebbe nata la celebre frase di Costantino Lazzari: né aderire né sabotare, che quel vecchio socialista avrebbe fatto meglio a non inventare. La frase e l'imbelle politica che essa esprimeva fin dal primo momento trovarono nel partito una viva opposizione; lo stesso Serrati, direttore dell'«Avanti!», non la condivideva, sebbene le varie decisioni di guerra della Direzione siano state tutte deboli ed esitanti. Gli apologisti di Lazzari dissero che egli si dedicò a salvare l'unità del partito, e il suo «onore» di non aver aderito al massacro.

Alla riunione di Bologna, vari esponenti della frazione rivoluzionaria intransigente, tra cui qualche membro della stessa direzione, e gli inviati di varie federazioni, presero una posizione del tutto opposta non solo a quella dei parlamentari e dei capi confederali, ma anche alle esitazioni della Direzione.

Possiamo ricostruire la posizione che presero alcuni delegati della Lombardia, del Piemonte, della Romagna e del Mezzogiorno, sebbene a distanza di tanti anni non vi siano testi disponibili(1).

Anzitutto fu sollevata la questione che il problema squisitamente politico dell'azione da svolgere contro la guerra doveva essere affrontato dagli organi del partito, e accettato come tale dai compagni con mandati di funzioni parlamentari e sindacali. Questa eccezione si ripresenterà in tutto il corso delle lotte e fino a quando non si giungerà alla scissione di Livorno.

Uno scontro diretto si svolse fra chi parlava per la sinistra del partito da un lato e i deputati e i capi sindacali dall'altro. I deputati vedevano la questione sul piano parlamentare. Si sapeva che la maggioranza dei deputati era neutralistica, come era provato dai trecento biglietti da visita lasciati al portone di Giolitti quando il re aveva chiamato Salandra. Giolittiani, cattolici e socialisti avrebbero potuto «mettere la guerra in minoranza alla Camera». La sinistra si scagliò contro questa prospettiva che purtroppo traspare dalla mozione votata, secondo la quale la pressione degli interventisti dello scoglio di Quarto «era incostituzionale». Fin da allora facemmo l'ovvia osservazione: Che di meglio? andiamo contro la costituzione borghese noi per i primi!

La discussione coi confederali non fu meno tesa. Essi si affannavano a dire che lo sciopero generale contro la mobilitazione «non sarebbe riuscito» e sfidavano esponenti di Camere del Lavoro e federazioni di mestiere a dare assicurazioni disfattiste. Dicemmo loro sul viso: Voi non temete che lo sciopero non riesca, voi temete che riesca. Sapete che gli operai sono inferociti contro la guerra, ma non osate dare la parola di sciopero per impedire la mobilitazione. Non che temiate le conseguenze della repressione; non è di viltà che vi accusiamo, ma temete di macchiarvi di tradimento della patria. I vostri pregiudizi borghesi sono tali, che pensate ché anche nel caso di squisita guerra non di difesa del territorio, ma di aggressione e di vera conquista, in cui ci troviamo, il socialista abbia il dovere di non danneggiare le operazioni militari della patria. Inutile dire che la volontà di guerra del popolo italiano è una ignobile mistificazione, quando contro il passaggio della guerra tanto mostruosa si considera colpevole alzare la mano!

Quando Turati prese la parola per rispondere con sarcasmi da par suo alle dichiarazioni dei «rivoluzionari» della Direzione, premise che la posizione degli estremi sinistri era nella sua logica coerente e rispettabile, ed egli, pur non condividendola teoricamente, prendeva atto della sua consequenzialità.

I commentatori castrati osano oggi dire che in Italia nessuno prese la posizione di Lenin per il sabotaggio di qualunque guerra, anche di difesa, mentre tale posizione, come da articoli dei giornali «Avanti!» e «L'Avanguardia» e da proposte fatte nei convegni di partito, fu, prima che fossero note le tesi di Lenin, presa dalla estrema sinistra italiana: e noi lo documentiamo nella seconda parte, dove apparirà chiaro come, fra il 1914 e il 1918, malgrado l'assenza di legami internazionali, la sinistra rivoluzionaria sviluppò in una martellante successione sulla stampa di partito gli stessi temi fondamentali della battaglia leninista contro le suggestioni della propaganda guerrafondaia (tanto più insidiosa quanto più rivestita di orpelli democratici) nelle file del movimento operaio. Ed è un fatto (in anni recenti ricordato da uno storico non sospetto di simpatie per la nostra corrente) che dalla Sinistra venne sull'«Avanti!», proprio alla vigilia della dichiarazione di guerra, l'unica parola inequivocabilmente classista ed internazionalista:

«Ancora una volta, o trepidi servitori del fatto compiuto, che vorreste farci leccare la mano che ci ha abbattuti ma non fiaccati, le due vie opposte si tracciano nette e precise:

«O fuori o dentro dal preconcetto nazionale e dagli scrupoli patriottici. O verso uno pseudo socialismo nazionalista o verso una nuova Internazionale. La posizione di chi nell'avversare la guerra non nascondeva una doppiezza miserabile non può essere che una, oggi che la guerra è un «fatto compiuto»: contro la guerra, per il socialismo antimilitarista «internazionale».

(Il «fatto compiuto», 25 maggio 1915; cfr. più oltre, p. 284).

 

Il vigore della pressione della sinistra deriva dal fatto che, mentre si deliberò di tenere il 19 maggio, domenica, comizi proletari per scongiurare la dichiarazione di guerra, il malcontento di molte zone rappresentate al convegno impose la decisione, non proposta dai veri marxisti di sinistra, di lasciar libera l'iniziativa dello sciopero alle organizzazioni locali. Lo avevano chiesto gli inviati di Torino, dove le masse proletarie erano in fermento. Come in tante occasioni, vi furono i «fatti di Torino» proprio il 19, con abbandono di tutte le fabbriche, violente dimostrazioni e scontri nelle piazze. Il prefetto dette i poteri alle forze militari, e la sede della A.G.O. (Camera del lavoro, di direttive di sinistra) fu bestialmente saccheggiata, mentre la soldataglia faceva saltare il collo a migliaia di bottiglie prelibate della cantina della famosa Alleanza Cooperativa Torinese.

Ancora una volta furono dimostrati il coraggio e la decisione dei proletari di Torino, e anche il buono spirito rivoluzionario di quei compagni; ma pure in quella occasione fu commesso un errore di natura «ciclica». Torino si muove sempre con un errore di fase, ossia è dura ad imparare che certe decisioni di lotta di classe devono essere nazionali e non locali. Con una confederazione e un partito italiano che non vanno, non si fa nulla anche con una Torino dalle potenti organizzazioni e cooperative; inutile quel buon vino, in tanta acqua marcia dei pompieri. Quanto è stato difficile far capire questo ai compagni torinesi, anche ai migliori estremi-sinistri! Torino è stata la capitale del Regno, ma non può fare la Comune.

L'andamento dello scontro fu quello di sempre. Gli operai delle fabbriche disertano compatti il lavoro e occupano le strade e le piazze. Qualche barricata si forma e la popolazione dalle case appoggia la dimostrazione e la lotta. Capi socialisti sindacali e parlamentari si adoperano a «calmare gli animi». Prefetto e Ministero degli Interni scambiano alcuni telegrammi e la forza armata interviene. Viene occupata la sede operaia e socialista di Corso Siccardi. Un operaio ucciso; molti feriti, molti arresti, anche dei dirigenti, poi processo e condanna in assise. È vero che la sede di Corso Siccardi devastata viene restituita il 25 maggio, ma intanto, schiacciati gli operai dalla forza dello Stato centrale, i nazionalisti interventisti, rari a Torino, han potuto girare la città inneggiando alla radiosa guerra... Un primo schema di quello che sarà il dopoguerra, l'illegalismo borghese del fascismo, l'errore fatale della classe operaia di rispondere con la formula sciocca: A difesa della legalità ci siamo noi; anziché RILEVARE LA SFIDA, la migliore delle occasioni storiche.

Torino dette una prova generale di simili mosse disfattiste. Gramsci giovanissimo, come uno dei suoi racconta, teorizzò la cosa. Non sapeva ancora se essere neutralista o interventista, idealista o marxista (e questo era perdonabile) ma lo accecava l'ammirazione di figlio della pastorale Sardegna per la metropoli industrialissima. Scrisse: «Torino rappresenta in piccolo un vero organismo statale». L'osservazione è svolta acutamente «in concreto», ma immette su una strada non marxista: organismo statale è quello che poggia su Sassari e Torino, e il problema da porre non è comunale, è supernazionale, europeo, mondiale. Non lo vede chi ha sguardo «immediatista».

La tremenda guerra italiana del 1915, vero carnaio di cui la seconda guerra, malgrado il tormento delle popolazioni non combattenti, è stata una scialba ripetizione, coi seicentomila morti ufficiali sul campo e le dieci battaglie sull'Isonzo, esasperava l'odio del proletariato per la classe dirigente, che si abbeverò di sangue quando alzava la bandiera democratica assai più che quando poi alzò, con militarismo in sordina, quella nazi-fascista.

Il Partito Socialista mantenne la sua opposizione, ma erano all'ordine del giorno frasi infelici (poco male per poche frasi; ma era la posizione di tutta una parte del movimento, sotto il coperto di un'unità che anche prima del maggio 1915 noi deprecammo apertamente), come quella per cui i sinistri di Torino (poi dettisi i rigidi) stigmatizzarono il destrissimo Casalini: «il gruppo socialista consiliare [solita ambizione di pilotare «sotto la Mole» la politica italiana] dinanzi all'irrevocabile si propone di adoperare le sue forze perché non si indebolisca moralmente o materialmente l'Italia di fronte al nemico» e chiudeva col doppio grido: Viva il socialismo, Viva l'Italia! Ma oggi questo grido, perfino nella forma: Viva il comunismo, Viva l'Italia!, non scandalizza nemmeno più. Non ci sono più rigidi; mosci soltanto.

Tuttavia il partito nel suo complesso tenne miglior via, almeno nel campo della ripresa dei rapporti internazionali. Fu a Zimmerwald (5-8 settembre '15) e a Kienthal (24-30 aprile '16). Non possiamo fare qui la storia di questi e altri meno notevoli incontri internazionali, ma va rilevato che le delegazioni italiane, composte, per ragioni intuibili, quasi soltanto di deputati tra cui vi erano pacifisti convinti ma non veri marxisti rivoluzionari, non poterono rispecchiare le posizioni della vigorosa sinistra del partito.

Ecco perché il manifesto della Sinistra di Zimmerwald con la firma di Lenin e Zinovieff non reca firme italiane; in effetti, per le cause di guerra, un collegamento organizzato che non passasse per la Direzione del partito i sinistri italiani degli anni 1915 e 1916 non lo possedettero. Le firme italiane del manifesto generale di Zimmerwald sono quelle di Modigliani e Lazzari. Lenin, come è noto, firmò anche quel testo, apertamente antibellico e di condanna esplicita al social-patriottismo, considerandolo un buon «passo avanti verso la lotta reale contro l'opportunismo, verso la rottura e la scissione»; esso era stato scritto notoriamente da Trotskij e rifletteva bene anche la posizione degli spartachisti tedeschi, degli eroici Liebknecht e Luxemburg.

Più avanti(2), il lettore può comunque trovare, alla data appunto del 1916, un esempio caratteristico della battaglia condotta dalla sinistra per «la più feroce intransigenza» nella conservazione e nella difesa delle «frontiere ideologiche» del Partito contro ogni posizione intermedia e fiancheggiatrice, la classica, insidiosa posizione degli «indipendenti» così aspramente fustigata da Lenin.

 

(1)            Sarebbe interessante seguire sulla stampa regionale e provinciale socialista nei mesi di aprile e maggio le reazioni del Partito alla prospettiva sempre più immediata dell'intervento italiano nel conflitto europeo e alla cauta politica della direzione. Ai nostri fini può essere interessante segnalare fra le tante la mozione votata all'VIII congresso delle sezioni socialiste della provincia di Forlì, 11 aprile 1915: «Il Congresso Provinciale Socialista Forlivese, riconoscendo che l'affermazione della neutralità é oggi divenuta insufficiente, lamentando che la Direzione del Partito non abbia saputo escogitare il mezzo efficace d'opposizione alla guerra, afferma la necessità dello sciopero generale per impedire che il proletariato nell'interesse della borghesia sia lanciato nell'orrendo macello». (Da «La lotta di classe», 17-4-1915). Va notato che, come risulta dallo stesso settimanale, la sinistra, soprattutto giovanile, aveva svolto nel periodo successivo all'agosto 1914 e, in specie, alla defezione mussoliniana un'attivissima propaganda nelle sezioni e nelle città romagnole fra il vociare del repubblicanesimo interventista e guerrafondaio. Per la mozione votata nello stesso mese e nello stesso senso dalla Federazione Giovanile socialista, si veda più oltre il cap. 22.

(2)      Cfr, soprattutto i testi 28 e 33.

 

 

19.      Il convegno di Roma, febbraio 1917, e altre manifestazioni della sinistra.

 

In tempo di guerra non fu possibile convocare il congresso nazionale del partito, ma si riuscì a tenere a Roma (non clandestinamente) un convegno che si riunì il 25 e 26 febbraio del 1917. Anche di tale riunione non esistono tutti i documenti: tuttavia essa dimostrò che nel partito vi erano due posizioni apertamente contrastanti.

Furono discussi tre punti. Il primo riguardava la relazione della Direzione del partito e del Gruppo parlamentare. Quest'ultimo fu oggetto di molte critiche, e si disse da tutte le parti che la responsabilità era della Direzione in base al fondamentale principio che il gruppo, come la dirigenza confederale, non potevano avere il diritto di fare una politica propria che non fosse in tutto quella del partito. Ma, dopo due anni di guerra, il partito era odiato e bersagliato da ogni parte e prevalse il motivo sentimentale di non dividersi nel voto sul suo operato. Trozzi, di Sulmona, che era un sinistro, presentò un o.d.g. di plauso alla direzione; l'altra sinistra Zanetta, di Milano, un simile o.d.g. di semplice approvazione. Il primo ebbe 23.841 voti, il secondo 6.295. La cosa oggi non sembra chiara: il fatto è che i destri, cioè i riformisti contrari alla direzione, non si vollero contare se non nel numero di 2.690 astenuti.

Un secondo punto fu quello di una riunione dei partiti socialisti delle nazioni dell'Intesa (tra cui ormai l'Italia) indetta a Parigi. Sarebbe stato giusto non andarvi in ogni caso; invece si discusse sul fatto secondario che il partito francese di suo arbitrio aveva spartito i voti internazionali italiani fra il nostro partito e quello ultrainterventista dei riformisti bissolatiani. Dall'estrema sinistra non si mancò di osservare che la II Internazionale e il partito francese erano ben morti, ma si votò su due ordini del giorno quasi simili di Bombacci e Modigliani, che, a forze pari, in linea di principio non dicevano nulla. In ogni modo non si andò a Parigi; ma l'argomento dei voti era barbino.

Sul vitale terzo punto si ebbe, invece, una netta divisione; la sinistra ottenne oltre 14 mila voti contro i 17 mila del centro-destra. Circa la mozione presentata dalla sinistra e sconosciuta agli «esperti» di storiografia del movimento operaio, l’«Avanti!» poté solo accennare che essa «sviluppava una direttiva teorica intransigente circa i criteri del partito socialista per la pace e il dopoguerra»; ma, nella sentenza per il processo di Torino, un anno dopo, l'aver votato quell'ordine del giorno «propugnante un'azione rivoluzionaria per far cessare la guerra» figurerà come una delle aggravanti a carico dell’imputato Rabezzana.

I pochi storici a cui qualche volta abbiamo accennato si limitano, ignorando il testo della mozione, a esprimere stupore per il fatto che la sinistra raccolse - si badi, senza astenuti, ossia contro le forze della destra e del centro (Direzione) - una votazione così forte. I maniaci del principio vano della conta delle teste storcono maledettamente il muso quando questo principio, debitamente applicato, li mette dalla parte del torto.

Daremo su questo punto i pochi lumi che sono in nostro possesso. Si noti che il testo della mozione Rossi (centro-destra), approvata, non dice nulla, limitandosi a ripetere che si approva la linea di condotta del segretario del Partito, alla quale l'ulteriore azione del Partito stesso dovrà uniformarsi. Il dibattito fu invece molto profondo. La guerra - si disse - è venuta, anche per l'Italia, e non si è potuto impedirla (per molti, non si è osato o voluto tentare). Ma la guerra finirà pure un giorno, e verrà la pace. Che dirà il partito? e quale sarà nel tempo futuro di pace, e nel «dopoguerra» di cui già si parlava, la politica e l'azione del partito?

L'ala pacifista, mai smentita, sosteneva solo certi vani principi d'ordine democratico borghese sulle caratteristiche della pace che i governi nazionali avrebbero tra loro conclusa, e si pascevano di note formule: pace senza annessioni (cosa ben sciocca in Italia quando la guerra era giustificata dal fine di annettere Trieste e Trento e qualche altra cosa) e senza indennità (ricordo di quelle imposte da Bismarck ai francesi); diritto dei popoli a disporre di se stessi e Società delle Nazioni (il bagaglio di quello che poi fu l'esoso wilsonismo; ma l'America doveva prima fare la guerra e poi mettersi a governare la pace). Naturalmente nel campo interno si sarebbe chiesta la smobilitazione (bella forza!), il ripristino delle libertà popolari, e chi più ne ha più ne metta.

Le tesi sostenute dalla Sinistra gettarono all'aria tutto questo bolso ideologismo ultra-borghese. La nostra tesi era chiara; la guerra è venuta perché in regime capitalista non poteva non venire (Zimmerwald lo aveva ribadito) e la questione non è crogiolarsi in una nuova fase storica di pace, ma porsi il problema di non far venire altre guerre. Quale mezzo a disposizione ha il proletariato? Uno solo: rovesciare il capitalismo; quindi, se il programma di oggi (1917) non ha saputo essere quello di fermare la guerra col disfattismo, il programma del dopoguerra dovrà essere quello della presa del potere da parte del proletariato e della rivoluzione sociale. Il proletariato italiano, duramente provato dalla disastrosa guerra (in quel tempo ancora vittoriosa, malgrado il lento procedere dei fronti), avrebbe accolto quest'appello del partito per strappare con mezzi rivoluzionari il potere alla borghesia guerrafondaia; e non avrebbe avanzato la rivendicazione imbelle che divenisse pacifista.

Traguardo socialista dopo la guerra non sarà la forma della pace, ma la rivoluzione di classe: questo si disse a Roma e questa la rivendicazione della Sinistra, di cui i mozzorecchi odierni hanno tutto detto quando la definiscono «teorica». È proprio perché voi non siete «teorici», che siete divenuti dei putridi traditori! E la prova migliore è il vostro pacifismo, dilagante fino e soprattutto a Mosca.

Nel voluminoso fascicolo degli atti del già citato processo di Torino ora all'Archivio di Stato torinese - al quale si è potuto felicemente attingere grazie al lavoro collettivo del nostro movimento -, si trova fra l'altro un opuscoletto clandestino intitolato «Memoria al Partito Socialista della Federazione giovanile italiana», del 24-5-1917, nel quale è inclusa la mozione di sinistra rimasta per poco in minoranza a Roma, e che in tutta la stampa del partito erra stata censurata.

Il testo della mozione può apparire piuttosto debole rispetto alle idee sostenute dalla sinistra rivoluzionaria a Roma, che abbiamo sopra esposto. Tuttavia questa cronaca supplementare starà a mostrare che i concetti dell'estrema sinistra del Partito erano quelli; e deve anche tenersi conto che, indipendentemente dalla firma personale o dalle firme che la mozione recava, essa fu indubbiamente il risultato di un accordo tra elementi più decisi ed altri forse non completamente intonati, come dimostra l'elevata votazione di 14.000 voti contro 17.000. Bisogna pure rilevare che, nella speranza che la mozione potesse essere pubblicata sull'«Avanti!» senza incorrere nelle ire del censore, dal punto di vista puramente formale, convenne forse attutirne la fraseggiatura. Ecco dunque il testo quale fu inserito nel piccolo memoriale dei giovani e che non è sicuro fosse totalmente fedele all’originale:

«Il Convegno Nazionale Socialista si sente sicuro interprete del proletariato italiano e mondiale nell'invocare la fine della presente micidiale guerra, la cui continuazione è in antitesi con gli intenti e le aspirazioni delle classi lavoratrici.

Al disopra delle contingenti situazioni militari e politiche degli Stati in conflitto, il Convegno pensa che il Partito Socialista debba indirizzare tutti i suoi sforzi alla cessazione della guerra, rivelatasi incapace di raggiungere una soluzione dallo stesso punto di vista militare.

Ritenuto poi che il malcontento che va diffondendosi per le luttuose conseguenze della guerra deve essere preso in seria considerazione, e che il Partito deve prefiggersi di incanalarlo in una cosciente e generosa azione di solidarietà con le vittime della presente situazione, illuminata dalle ragioni socialiste dell'avversione proletaria alla guerra;

Riponendo ogni speranza circa la durata della pace e l'auspicata impossibilità di nuovi conflitti armati nell'energica azione di classe del proletariato internazionale, al di fuori delle pastoie dei pregiudizi borghesi, fa voti che l'azione per la pace del Partito Socialista si concreti nei seguenti provvedimenti:

Intensificazione dell'attività di propaganda e di organizzazione del Partito nelle singole Sezioni, nelle Federazioni provinciali e regionali e nei rapporti tra questi organismi e la Direzione centrale, giusta il piano di funzionamento interno di cui demanda lo studio alla Direzione, onde il Partito stesso sia pronto ad assolvere il suo compito in ogni eventualità;

Intensificazione del movimento femminile e giovanile socialista e dei rapporti con le organizzazioni di mestiere sulla base delle tendenze antiborghesi e antibelliche dei lavoratori organizzati;

Energico lavoro di ripresa internazionale col movimento socialista contro la guerra degli altri paesi, giusta le deliberazioni già votate;

Azione parlamentare che sia l'eco sincera ed esplicita del pensiero socialista e riaffermi in tutte le occasioni l'invocazione alla pace con sicura intransigenza e senza contatti con le correnti pacifiste borghesi.

Il Convegno fa appello a tutti i compagni e a tutti gli organi del Partito, perché contro gli allettamenti e le minacce avversarie sappiano compiere intero il loro dovere in nome della solidarietà internazionale dei lavoratori e per l'avvento immancabile del socialismo».

 

Poco dopo il convegno di Roma, la Direzione del partito seguitò ad attenersi alla politica esitante ed incolore che aveva sostenuta incontrando forti resistenze nel convegno di febbraio. Erano frattanto giunte le notizie di due importanti avvenimenti: la prima Rivoluzione in Russia e l'intervento in guerra degli Stati Uniti. La destra del partito tendeva a sfruttarli nel senso opposto alla decisa opposizione di classe alla guerra, in quanto il fronte dell'Intesa sembrava avere accentuato la sua colorazione democratica per la presenza della Confederazione americana e per quella di una Russia da feudale divenuta democratica, che allora i borghesi si illudevano avrebbe continuato attivamente la guerra antitedesca. La Sinistra del partito non mancò di reagire a questo equivoco indirizzo, ribadendo le posizioni internazionaliste (si veda, fra l'altro, il testo 33).

La Direzione seguitò nel malvezzo di trattare gli argomenti in convegni misti col Gruppo parlamentare e con la dirigenza della Confederazione del Lavoro. Un primo convegno ebbe luogo il 9 e 10 aprile 1917 e naturalmente, non essendo rappresentate organizzazioni di base, non si ha notizia di contrapposte posizioni. Il comunicato fa cenno ai nuovi avvenimenti che abbiamo indicati con frasi incerte come queste: «Si prospettarono... le diverse situazioni nelle quali potrebbe trovarsi il PSI sia durante che dopo la guerra, e sì ventilarono nei diversi casi i diversi atteggiamenti che il Partito dovrebbe tenere per conservare alla propria azione la sua schietta caratteristica di classe, pur tentando di giovarsi di tutti gli elementi di fatto per agire concordemente agli interessi del proletariato». Si fa cenno quindi alla necessità di sventare le insidie di altri partiti desiderosi di rifarsi una verginità politica, con chiaro riferimento allo sfruttamento elettorale nei dopoguerra dei meriti del Partito Socialista; ma, per raggiungere evidentemente la solita unanimità, si continua: «Senza però rifiutarsi di far leva su tutte le forze favorevoli nel paese perché le aspirazioni del Partito [censura] giungano a sicura meta».

Il 25 aprile vi fu una riunione del consiglio della Confederazione del Lavoro che salutò il popolo russo, auspicò la pace, propose alcune misure per il dopoguerra di carattere economico, previdenziale e riformistico, e invitò «il proletariato ad invigilare perché la borghesia non sfrutti l'anormale stato di cose per stroncare quelle rivendicazioni alle quali la guerra gli ha dato incoercibile diritto».

Altra riunione simile fu tenuta l’8 maggio a Milano con la sola rappresentanza delle sezioni di Milano e di Torino. All'archivio di Stato di Torino è stata trovata una circolare del 20 maggio che riproduce i due ordini del giorno votati per intero, cioè anche per la parte censurata sull'«Avanti!». Si accenna allo sforzo del proletariato internazionale per conseguire la pace e ai caratteri democratici di questa quali erano stati invocati dai socialisti russi (si trattava in quell'epoca dei menscevichi e populisti prevalenti nel Soviet). Un secondo o.d.g. si riferisce alle manifestazioni che si svolgevano in varie parti d'Italia contro la guerra e si esprime in maniera che è poco dire equivoca: «Avverte tutto il carattere spontaneo, fatale ed umano di tali movimenti e mette in guardia il governo contro ogni azione che intendesse non apprezzarne tutto il significato profondo ed ammonitore; dichiara che è dovere dei socialisti assistere il proletariato anche (sic!) in tali frangenti, e li impegna fin da ora in questa fraterna difesa, ma nel tempo stesso, cosciente della delicatezza della situazione (!?) e di fronte a tentativi evidentemente diretti a riversare sul Partito Socialista responsabilità che non sono sue, avverte organizzazioni e singoli: 1° che più che mai debbono sentire il valore materiale e morale della disciplina... 2° che solo agli organi direttivi del Partito spetta e deve spettare l'iniziativa di agitazioni di carattere politico generale; invita quindi le organizzazioni e i singoli a non assumere iniziative isolate e frammentarie, le quali potrebbero compromettere quella forza politica che, indubbiamente, al Partito Socialista è venuta dal suo atteggiamento di fronte alla guerra, e che varrà al momento opportuno a realizzare quel programma politico e sociale che il P.S. si appresta a difendere strenuamente».

A seguito di questa riunione, il 16 maggio fu pubblicato un manifesto dei tre organismi intitolato: «Per la pace e per il dopoguerra; le rivendicazioni immediate del P.S.I. Il manifesto richiama i principi di Zimmerwald e si addentra nelle caratteristiche democratiche della pace. Passa quindi ad un elenco di rivendicazioni proprie dell'Italia, che sono quelle di cui si abuserà largamente nel dopoguerra: Repubblica, suffragio popolare illimitato, politica estera non segreta, sviluppo delle autonomie comunali e regionali e generale decentramento (!), riforma della burocrazia e della giustizia, politica di lavoro, repressione dell'emigrazione, bonifiche, nazionalizzazioni, ecc. Non manca la frase abusata: riconoscimento effettivo a tutti i lavoratori del diritto ad un'esistenza dignitosa ed umana, con i soliti riferimenti agli antichi riformisti di sempre. Per la terra si chiede timidamente la socializzazione, partendo dalle opere pie (!) e dalla espropriazione delle terre incolte, poi si introduce la formula: le terre lasciate esclusivamente a chi direttamente le coltiva; e così via, con altre formulette economiche che non val la pena di riportare.

Frattanto l'atmosfera sociale italiana andava diventando incandescente e da tutte le parti le deliberazioni del convegno ed il manifesto pubblicato dall'«Avanti!» suscitarono vivaci reazioni. Vivacissima fu quella dei giovani che facevano propria la mozione di minoranza del convegno di febbraio, e moltissime sezioni fecero voti analoghi: gli atti processuali ricordano le sezioni e federazioni di Vercelli, Novara, Alessandria e, soprattutto, Torino, che respinge il proposito di non promuovere agitazioni per ottenere la fine del conflitto ed afferma: «Principalissimo compito del P.S. è di guidare il proletariato ad imporre la pace usando tutti i mezzi che possano offrirgli le circostanze, e di predisporre ed organizzare a questo scopo le forze della classe operaia» (mozione del 1-2 luglio).

Ma il documento più significativo di questo insorgere di tutto il Partito contro la fiacchezza degli organi centrali deve ravvisarsi nell'o.d.g. votato dalla sezione di Napoli il 18 maggio 1917 e fatto circolare nel partito, che può ritenersi espressivo della posizione politica della sinistra, e che per la sua importanza e sistematicità riportiamo per esteso nella seconda parte (testo 32).

Tale testo, riaffermata la relazione di principio tra capitalismo mondiale e guerra, nega tutte le modalità della pace che si pretende possano assicurarne la perpetuità prima che il sistema borghese sia rovesciato. Indica che il programma del dopoguerra non può essere che l'assalto ai governi borghesi per rovesciarli; rileva l'insofferenza delle masse ed afferma che debba essere incoraggiata ed inquadrata nel Partito; deplora l'andazzo col quale la Direzione del partito subordina le sue decisioni al Gruppo parlamentare e alla Confederazione del Lavoro, che dovrebbero invece ricevere dal centro del partito il loro indirizzo, e fa voti affinché il partito sappia compiere il suo dovere ponendosi all'avanguardia del proletariato in lotta - appunto le tesi sostenute e nel dibattito al convegno di Roma e qui espresse con estrema lucidità.

Questo voto, evidentemente censurato dalla prima all'ultima parola, lo dobbiamo alle fruttuose ricerche fatte nel dossier del processo di Torino, che ci permettono di inserirlo nella serie delle manifestazioni più espressive dell'indirizzo della Sinistra rivoluzionaria.

 

 

20.             Caporetto e la riunione di Firenze.

 

Nell'estate 1917 la guerra si svolgeva ancora nel logorante ritmo delle trincee; a Claudio Treves toccò il celebre 'infortunio' della frase: «quest’altro inverno non più in trincea». La frase non era estremista sebbene decisa; essa, in fondo, esprimeva il vecchio concetto riformista secondo cui la pressione del proletariato avrebbe indotto le classi dominanti a trovare la via della pace. La sinistra poneva invece chiaramente l'altra soluzione: porre fine alla guerra attraverso il rovesciamento della borghesia e del suo dominio. Treves voleva realmente la fine del conflitto, ma proprio per evitare che sboccasse in guerra civile.

Vi era stata altra riunione della Direzione il 23-27 luglio 1917, la quale deliberò di partecipare al convegno dei socialisti dell'ala zimmerwaldista indetto a Stoccolma per il 10 agosto in previsione dell'altro convegno di tutti i partiti socialisti della II Internazionale indetto dai socialisti russi, per il quale gli zimmerwaldisti non avevano gradito che i russi (allora sempre di destra) avessero invitato i socialisti colpevoli dell'appoggio alla guerra. Queste riunioni a Stoccolma non ebbero poi luogo, come è noto, e si svolsero invece varie altre convocazioni nel campo equivoco della II Internazionale.

Probabilmente questa riunione della Direzione, le manifestazioni che la seguirono, e la tensione generale italiana, in cui si delineava una violenta reazione contro il partito, provocarono la costituzione a Firenze di un comitato della frazione di sinistra del quale non siamo in grado di dare documenti di costituzione ma solo di riprodurre un'importante circolare del 23 agosto 1917 che si riferisce alla convocazione del XV Congresso Nazionale Socialista (poi rinviato all'autunno dell'anno seguente), ed annunzia che in occasione dell'ultima riunione della Direzione alcune sezioni e federazioni, «di Milano, Torino, Firenze, Napoli ed altre minori, decisero di costituire il primo nucleo della frazione intransigente rivoluzionaria».

Riprodurremo nella seconda parte (testo 36) anche il testo di questa circolare che, pur non avendo forse una precisa impostazione teorica, esprime bene un indirizzo del tutto contrapposto a quello insoddisfacente della Direzione del partito.

Nei moti dell'agosto 1917, ancora una volta furono gli operai di Torino a condurre una viva e vera azione di guerra di classe. La gravità della repressione e la violenza dei processo avanti un tribunale militare contro tutti i capi locali del partito, compreso lo stesso Serrati coraggiosamente accorso, dato che la censura imbiancava tutto il giornale, oltre alle vivacissime discussioni che seguirono in seno al partito e alla coincidenza storica del rovescio di Caporetto avvenuto poco dopo, formarono intorno a questi moti quasi una leggenda. L'abile marxista Treves poté condannare l'errore di «localismo», mentre i torinesi giustamente rampognavano il partito di averli lasciati soli, e nella polemica non seppero dire che il moto locale era causato dal fatto che, sotto la pressione dei Treves e della loro tradizione, appunto perché non ignobile, la proposta di moto «nazionale simultaneo» e non locale sarebbe dovuta passare sui corpi dei Turati e Treves prima di trionfare, come da tutto il resto d'Italia noi sinistri rispondemmo alla «Critica Sociale» ponendo apertamente l'esigenza della scissione del partito come condizione alla presa delle armi in un'azione rivoluzionaria.

Da varie parti si deformava la verità sui moti di Torino, anche a favore degli operai e della vigoria della dirigenza socialista di semisinistra, dal che i borghesi costruivano il sogno di una repressione nazionale dei «disfattisti» che poi il fascismo attuò. Esagerazione quella delle centinaia di morti e migliaia di feriti, ma sta di fatto che una cinquantina di morti ci furono di cui solo tre o quattro tra le forze dell'ordine; che si partì da una protesta per la mancanza di pane e poi si proclamò, dalle folle e dalle organizzazioni, la maledizione alla guerra; che gli operai presero le armi che poterono e i soldati ne consegnarono loro alcune delle proprie; che le donne assalirono le autoblindo, e occorse uno spiegamento di forze enorme, arresti a migliaia di dimostranti e di militanti socialisti, e pressione morale inaudita sui parlamentari e capi sindacali di parte operaia, per disarmare il moto come solita invasione di rito in Corso Siccardi e poi il clamoroso processo con enormi condanne.

Va rilevato che proprio agli operai di Torino il pane non poteva mancare più che altrove e la trincea non faceva paura, perché erano esonerati delle fabbriche di produzione bellica; anzi, sfidarono la pena d'esser rimandati al fronte perdendo l'ambito «bracciale azzurro». Come negare che fu fatto politico e non economico quello che spinse alla lotta una tale avanguardia operaia?

A veri militanti rivoluzionari fu facile mostrare, senza nulla smentire, ch'era falsa l'accusa di aver fatto muovere Torino per lavorare alla vittoria degli austriaci. Se Torino operaia da sola avesse potuto vincere, sarebbe stato l'invito migliore ai lavoratori di Vienna e ai combattenti del fronte austriaco, perché insorgessero. Vana quindi la campagna della più lurida borghesia d'Europa per provare che il «complotto» di Torino preparò la frana militare di Caporetto, più che non la avesse provocata la citata frase di Treves.

Torino dette con eroismo di classe un vivo, alto esempio, che segnò una tappa sulla via della preparazione del movimento comunista italiano, fino ad altri eventi contrari che troveremo sul nostro cammino.

La disfatta militare, che lasciò agli austriaci buona parte del Veneto, creò un'incandescente situazione interna. Gli interventisti si gettarono sui nuovi estremi della «difesa del territorio nazionale» sperando di far crollare la posizione dei proletari e dei socialisti per giungere anche in Italia alla unione sacra e concordia nazionale totale, e si calcolò che il gruppo socialista alla Camera si prestasse al gioco. A tanto, per la verità, mancò pochissimo; se la Direzione del partito non avesse avuto una certa buona resipiscenza, e tutto il partito, malgrado le difficoltà della situazione, non si fosse mobilitato per sostenerla, sarebbe avvenuto il «fattaccio». Negli anni seguenti, a non poche tappe prima e dopo la scissione, ci dovemmo chiedere se non sarebbe stato meglio!

Ma in quelle ore, mentre i veri italiani facevano (molto platonicamente) argine dei loro petti alle «orde» austriache, molti di noi militanti del partito correvamo a Roma per far argine al tradimento dei nostri deputati, e ne potemmo scongiurare la piena effettuazione col trattenerli quasi fisicamente sulla via del Quirinale, ove, si disse, Turati si era già vestito per andare. (Se in giacca o meno, questo non ci fregava per nulla). Senza fare i soliti nomi può avere eloquenza un episodio. Un buon compagno della sinistra (prima e dopo: inutile dire quando, se no si capisce tutto, a parte che è morto) giunge trafelato alla Direzione del Partito, dove un gruppo della Federazione giovanile esorta e scongiura il bravo Lazzari a tener duro: quello, fresco di notizie di sala-stampa, ansima; pare che li fermino al Piave senza arretrare di più! Noi avevamo la testa a fermare il partito sulla via della disfatta di classe e lo guardammo sbalorditi: in lui parlava già il complesso della difesa della Patria e delle bandierine tricolori sulla carta topografica; nelle nostre teste e nei nostri cuori era tutt'altro, e vedevamo, forse ingenui, una rossa bandiera fin allora salva trascinata nel fango. Glielo gridammo sul viso.

Durante l'ottobre e il novembre (la «rotta» famosa e il getto delle armi avvennero il 24 ottobre 1917) continuò nel partito questa vera colluttazione, che servì nel seguito a conferire un indebito merito ai nostri vacillanti destri per non essersi disonorati. Il fatto è che noi fummo tanto decisi e attivi, che essi non poterono liberarsi del loro... onore!

Lazzari e la Direzione in quel momento erano fermamente decisi ad impedire quello che la forte maggioranza dei deputati voleva fare: se non proprio entrare in un gabinetto di «difesa nazionale», per lo meno non negare il voto a un tale ministero e ai crediti per la difesa. Era un risultato che sembrò ai giovani dell'estrema ala marxista importante, e per un momento tacque la divergenza sul sabotaggio della guerra che Lazzari aveva sconfessato. In pratica i proletari soldati avevano applicato sia pure in modo insufficiente il disfattismo, disertando il fronte. Avevano gettato le armi invece di tenerle per azioni di classe, come nello stesso tempo avveniva sui fronti russi; se non avevano sparato sui loro ufficiali, era perché gli ufficiali erano scappati con loro anziché impugnare le storiche pistole dell'Amba Alagi 1897 (altra grande tappa italiana) nel tentativo di arrestare la fuga.

Le masse avevano capito quanto possono capire, finché non fa maggior luce il partito rivoluzionario.

Ora si trattava d'impedire che il partito socialista si unisse al grido: Riprendete le armi e tornate contro il nemico!

In tal frangente non fu la sinistra della frazione intransigente, ma tutta la frazione, che si riunì per lottare (abbiamo già premesso che forse era meglio già allora rompere la stessa frazione; ma tali furono gli eventi). La Direzione aderì al movimento di frazione e la convocò quando noi lo proponemmo, senza convocare tutto il partito, ì deputati e i confederali. Era una prima» nostra vittoria. La riunione fu tenuta illegalmente (poiché era stata vietata dalla polizia) a Firenze la notte sul 18 novembre 1917. Essa era apertamente diretta contro gli atteggiamenti della destra del partito, ossia parlamentari, capi sindacali, e sindaci di alcuni comuni come Milano e Bologna, che tutti gravemente vacillavano. Anche di questa riunione non si hanno i verbali, ma solo il testo del voto che, per le dette ragioni, doveva essere unanime. Non fu dunque possibile prepararlo in modo che i collitorti gridassero al «teoricismo», ma fu concordato. Gramsci (contro i tentativi di ricostruzione) non tenne alcun discorso. Ascoltò solo con lo sguardo sfavillante dei buoni momenti. Le qualità personali, per noi, non importano mai tanto, ma si può dire che un uomo notevole può essere di maggior rilievo quando apprende che quando insegna. Oggi siamo ammorbati da troppi che insegnano senza aver mai nulla imparato; e pensiamo, si capisce, non alla scuola, ma alla vita, alla storia.

La mozione è molto breve: notare la frase che «l'atteggiamento politico del Partito Socialista non può farsi dipendere dalle alterne vicende delle operazioni militari». Segue la recisa condanna di ogni manifestazione che abbia il senso «di aderire alla guerra o concedere tregua alla classe borghese o comunque modificare l'indirizzo dell'azione proletaria». Tali manifestazioni sono colpite per incoerenza, indisciplina, e rifiuto di responsabilità che tutto il partito aveva già assunte e da cui non poteva spogliarsi. Si ribadisce infine la resistenza ad ogni «adescamento di ideologie borghesi» e l’«irriducibile opposizione alla guerra» alla quale tutti gli iscritti, «e in modo speciale quelli ché coprono cariche rappresentative», sono energicamente chiamati a tener fede.

Non vi è di più, in questo testo; nemmeno l'ingiunzione ai vacillanti di lasciar le nostre file, ma la riunione segnò un punto importante e raggiunse lo scopo, che allora sembrò preminente, di frenare le mosse equivoche dei destri e togliere alla canaglia patriottica la soddisfazione della concordia nazionale. La prospettiva del futuro e quella che le carognette chiamano visione teorica vi fu nei discorsi, di cui alcuni testimoni tutt'altro che morti da estremi sinistri hanno riferito; e lasciò per le lotte dell'avvenire le sue tracce indelebili.

Da quel momento, il gruppo dei più decisi, strettosi in quella riunione, si organizzò sempre meglio - come vedremo in capitoli successivi - e si delineò la piattaforma propria della «sinistra italiana» che non era la stessa cosa della vecchia frazione intransigente, ma molto di più.

Le ripercussioni di questa decisa impennata si ebbero d'altronde negli stessi organi direttivi: dal novembre al gennaio si susseguono le «circolari» che verranno poi contestate in sede processuale a Lazzari e che miravano a rintuzzare l'azione indipendente di deputati e confederali (il 1° novembre Rigola aveva scritto che «il popolo italiano deve raccogliersi in un supremo sforzo di volontà per respingere l'aggressore»!) e mantenere tutto il partito, senza eccezioni, sulla linea stabilita centralmente, nella più rigorosa «fedeltà alla disciplina socialista».

Nel periodo successivo la classe dominante italiana e il governo, certi che il gioco di avere la solidarietà del partito socialista non sarebbe mai riuscito, si dettero alla più aspra repressione di ogni critica alla guerra e di ogni movimento e agitazione operaia. Il 24 gennaio del 1918 la polizia arresta il segretario Lazzari e il vicesegretario Bombacci e monta un processo per complotto e disfattismo. Vi fu la minaccia di sopprimere tutta la stampa del partito, già soffocata dalla censura di guerra. Alla Camera i deputati reagirono in nome della democrazia violata, ma proprio allora Turati pronunciò il discorso del 23 febbraio in cui è la frase : Anche per i socialisti la patria è sul Grappa, in quanto sulla linea del Grappa si consolidava il fronte di arresto dell'esercito italiano. Ma la sinistra del partito, malgrado l'arresto di tanti dirigenti, seppe di nuovo sollevarsi e protestare contro la deviazione dalla politica di opposizione alla guerra; forte del suo appoggio, in maggio la Direzione poté intervenire con energia contro i deliberati del Gruppo parlamentare e della Confederazione (quest'ultima poi sconfessata in luglio, sebbene con formula ambigua, dal suo Consiglio Nazionale) di aderire all'invito del governo di partecipare alle costituende commissioni per lo studio dei provvedimenti atti a rendere agevole, a suo tempo, il passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace, e in giugno sconfessare apertamente il discorso con cui Turati, meritandosi l'abbraccio di Bissolati, aveva salutato la resistenza italiana sul Piave; richiamando tutto il gruppo al rispetto dei criteri fissati nel convegno del novembre 1917 (si noti che lo stesso Turati era stato l'unico a rifiutarsi di dimettersi dalla «commissionissima» governativa). L'ordine del giorno 17 giugno della Direzione è, in effetti, un'esplicita riaffermazione delle tesi di Zimmerwald e di Kienthal.

Nel maggio 1918 si arresta anche Serrati e nel luglio lo si processa coi compagni di Torino: le condanne giungono fino a sei anni di reclusione, per Barberis.

 

 

21.      Il XV congresso socialista: Roma 1-5 settembre 1918.

 

La borghesia italiana stava ancora giocando la propria sorte al fronte e nelle vergognose schermaglie tra i futuri vincitori, nell'eventualità che le cose andassero loro bene. Essa faceva al partito socialista l'onore di temere che, provocandolo, sapesse far nascere un'altra Caporetto. Aveva paura di noi, e per frenare la collera rivoluzionaria faceva assegnamento, come fa adesso, più sull'illusione democratica che sulle legnate. Permise la convocazione a Roma del congresso del Partito, che nel 1917 aveva proibito: fra arrestati e militanti sotto le armi, le nostre file erano diradate e seriamente provate; e gli avversari speravano nell'azione dei destri parlamentari e sindacali perché mettessero acqua nel vino. Ma, in Italia, della guerra tutti ne avevano abbastanza, perfino i destri, i quali pensavano che, se la guerra non finiva, anche i sassi sarebbero passati all'estrema sinistra, loro bestia nera.

Il congresso deluse tutti coloro. Ben 365 sezioni vi erano rappresentate. Il Partito era forte appunto per il buon effetto della dura lotta contro la guerra, e al dibattito portarono un acceso contributo diversi militanti proletari del Nord e del Sud, tanto rudi e sbrigativi quanto insofferenti - con mille ragioni! - delle manovre e delle pastette della destra parlamentare e confederale, e sdegnati sia della difesa turatiana del principio che «l'indipendenza nazionale! è sacra», che dei sottili e cattedratici «distinguo» di Graziadei.

Repossi, vecchio sinistro, tenne il più deciso discorso per Lenin e per la dittatura proletaria (significativamente, i destri avevano evitato il minimo accenno alla rivoluzione bolscevica, i cui bagliori accendevano gli entusiasmi dei congressisti), e per la messa in stato di accusa del re e del governo: «Più nessuna blandizie - egli concludeva - Classe contro classe: da una parte la borghesia, tutta insieme, contro di noi; dall'altra noi, soli, contro tutto il mondo: questo il compito dei socialisti».

La tesi dell'estrema sinistra fu svolta dall'avvocato Salvatori, di Livorno, che era stato a Bologna 1915 e Firenze 1917, e deprecò che, fin dall'inizio della guerra, non ci fosse stata rottura aperta fra le due ali estreme e che il partito si fosse adagiato nella formula non aderire né sabotare: «Voi - disse rivolto ai destri, - dovevate aderire alla guerra; noi dovevamo sabotarla fin dal principio immediato». Da lui e da Trozzi fu preparata la mozione estremista. Ancora una volta vi campeggiava la questione della politica del momento, e non solo si sconfessava il Gruppo parlamentare, ma si deplorava la debolezza della stessa Direzione del partito. La discussione fu deviata da un burrascoso incidente: Modigliani si alzò per dire che, se una tale mozione era votata, tutti i deputati avrebbero presentato le dimissioni. Allora Trozzi ebbe la debolezza di ritirare la sua firma, e solo dopo lunghi dibattiti il Lo Sardo, uomo abile ma mai troppo diritto, escogitò una formula attenuata che anche Modigliani gradi. Va detto che da lui si erano staccati i deputati Maffi, Caroti, Di Giovanni, Bernardini e Morgari.

Messe ai voti, la mozione Salvatori ne ebbe 14.015, la centrista di Tiraboschi 2.507, e quella di Modigliani 2.505. La mozione vittoriosa dice:

«Il XV Congresso socialista italiano:

1) plaude all'opera della Direzione del Partito sul terreno della politica internazionale e ne approva insieme gli atteggiamenti politici interni, pur rilevando di essa Direzione, per amore dell'unità di tutte le forze socialiste, l'eccessiva tolleranza verso gruppi, organizzazioni e persone;

2) giudicando dell'«Avanti!» che ha segnato in questo periodo di guerra una pagina gloriosa di classismo, specialmente per aver gettato l'allarme contro la possibilità collaborazionista mobilitando intorno a sé tutte le energie socialiste, lo addita alla riconoscenza del proletariato;

3) nei riguardi del gruppo parlamentare socialista... , mentre prende atto della sua opera fino al Convegno di Roma del febbraio 1917, dichiara che malgrado i richiami ad una più energica opposizione alla guerra, e ad un maggior contatto con le masse, il Gruppo, sia per manifestazioni di singoli, sia per deliberazioni della sua maggioranza, non ha corrisposto alle deliberazioni del convegno suddetto e alle direttive segnate dai Congressi di Reggio e di Ancona, richiamate dalla Direzione del Partito e dalle masse organizzate, e ciò più specialmente coll'ultimo discorso Turati e col susseguente voto di solidarietà del Gruppo; invita il Gruppo Parlamentare ad attenersi rigidamente alla volontà del Partito ed alla direttiva segnata dagli organi responsabili dello stesso;

4)... riafferma che il Gruppo parlamentare socialista debba in ogni sua pubblica manifestazione politica essere disciplinato alle deliberazioni della Direzione, alla quale spetta la responsabilità delle direttive del Partito; ed in questo concetto, modificando opportunamente lo Statuto, affida alla Direzione stessa il mandato di disciplinare tale rapporto con tutte le modalità del caso, anche nei riguardi delle situazioni parlamentari improvvise e con le conseguenti sanzioni fino all'espulsione. Il possibile ricorso del colpito da espulsione, da presentarsi alla Direzione, sarà esaminato a referendum dalle Sezioni, o dal Congresso se già stato indetto».

 

Abbiamo riportato la mozione così attenuata per mostrare come, ancora una volta, l'affermazione di principi validi e sempre ribaditi dalla sinistra non fosse qui tradotta in un taglio netto e radicale nella pratica, e lo scrupolo dell'unità portasse ad una sanatoria di fatto se non di principio del passato. Basteranno pochi mesi - e lo vedremo perché il Gruppo parlamentare torni a fare di testa propria, e la Direzione... lasci correre.

La verità è che il congresso aveva eluso le questioni di fondo per concentrarsi su una schermaglia di accuse e contro-accuse su atti singoli. Un anno prima, quando per la prima volta si era parlato di congresso, l'estrema sinistra aveva chiesto che il dibattito fosse esauriente e non si evitassero i tanto temuti dibattiti «teorici» per paura di dissensi suscettibili di compromettere l'unità del Partito. Era proprio sul terreno della pratica che il dibattito sull'azione da svolgere nel paese e sui metodi da seguire nei rapporti internazionali si delineava, e, dato il dissenso pratico circa quello che si diceva «andare a destra o andare a sinistra», il modo migliore di inasprirlo era di lasciarlo sospeso «affidandone la soluzione al caso, ai signori Avvenimenti, alle eccellentissime signore Situazioni e al criterio della S. S. Opportunità. Il modo sincero, onesto e virile di risolvere la questione è, invece, quello di decidere se l'una o l'altra delle tendenze è nella linea del programma del partito e corrisponde alle finalità che esso si propone» -, dunque, questione pratica non risolvibile fuori dalla questione teorica. (Per una discussione esauriente, nell'«Avanti!» del 13-10-1917; cfr. nella seconda parte: testi 38 e 40).

Allo stato dei fatti, la nuova direzione uscita dal congresso di Roma non potrà non perpetuare, proprio per il mancato chiarimento delle questioni di fondo e il conseguente mancato raddrizzamento organizzativo, le titubanze e gli smarrimenti del passato, a maggiore scorno dei «praticisti», dei «concretisti» e dei «contingentisti», oltre che degli unitari ad ogni costo.

Si vuole che da questo congresso nascesse il poi detto massimalismo. I più accaniti sarebbero stati Gennari e Bombacci: il merito maggiore dell'orientamento delle «assise» di Roma spetta al vero rivoluzionario Salvatori, che non merita certo la taccia di aver tenuto a battesimo il massimalismo. L'ordine del giorno sulla situazione nazionale e internazionale, di Gennari, diceva che nel socialismo il concetto di patria è superato, e che si doveva nell'azione pratica affrettare la pace e incanalare il malcontento generale verso il programma massimo dell'espropriazione capitalistica borghese. Solo più tardi si poterono sottoporre a un miglior vaglio alla luce del marxismo frasi di questo genere, - anche se sincere come nel Gennari di allora - quando il «massimalismo» rivelò la pochezza del suo contenuto e della sua valutazione del trapasso storico del dopoguerra.

La guerra intanto volgeva alla fine, sia pure con la vittoria tanto magnificata dalla borghesia italiana della battaglia di Vittorio Veneto e l'ingresso nelle terre e città «liberate». Ma si levavano in tutta la loro asprezza i tanto attesi problemi «del dopoguerra».

 

 

22.      I giovani socialisti in tempo di guerra.

 

Prima di passare al periodo posteriore alla fine della I guerra mondiale, sarà utile tornare brevemente sulle vicende del movimento giovanile socialista, di cui abbiamo ricordato il notevole appoggio all'ala sinistra rivoluzionaria del partito fino alla vigilia del conflitto 1914-18.

La Federazione giovanile, che dall'agosto 1914 aveva accolto lo scoppio del conflitto europeo prendendo la stessa decisa posizione contro il tradimento social-nazionale che la sinistra del partito subito assunse, e che abbiamo documentata con riferimenti ad articoli fondamentali dell'«Avanti!», purtroppo non sfuggì ad una lieve crisi allorquando Mussolini, nell’ottobre 1914, compì la sua vergognosa defezione.

Il giornale «L'Avanguardia» era allora affidato a Lido Caiani, il quale purtroppo seguì il futuro duce e non mancò di recare un certo scompiglio nelle file dell'organizzazione giovanile. Fu riunito d'urgenza un convegno del Comitato nazionale a Bologna il 25 ottobre, ossia pochi giorni dopo il famoso articolo del voltafaccia mussoliniano, e fu votato un risoluto ordine del giorno che poneva fine ad ogni esitazione interventista, presente anche il transfuga Caiani che, pochi giorni dopo, doveva passare armi e bagagli dalla parte dei traditori senza peraltro essere seguito nemmeno da un'infima minoranza dei giovani, e pubblicare un giornalucolo dissidente cui dette il titolo del famoso articolo di fondo del 1° numero del «Popolo d'Italia» (Audacia) abbracciando sfrontatamente la tesi dell'immediato intervento. Ecco il testo dell'ordine del giorno votato a Bologna, come lo riporta «L'Avanguardia» dell'8-11-1914, n. 361:

«Il Comitato Nazionale dei giovani socialisti italiani, discutendo in merito all'attuale situazione politica internazionale e all'atteggiamento assunto al riguardo dall'«Avanguardia»;

ritenendo che il movimento giovanile debba seguitare ad ispirarsi alle direttive di avversione ideale e pratica ad ogni guerra, perché dai gravissimi e vastissimi avvenimenti attuali e proprio dall'insuccesso dell'opera dei socialisti negli Stati belligeranti scaturisce l'insegnamento che ogni concessione dei socialisti alle finzioni dei militarismo statale si presta solo a far trarre il proletariato nell'inganno sanguinoso delle guerre fratricide, le quali sono conseguenza fatale dell'intima struttura economica e sociale del moderno capitalismo, di cui il socialismo é antitesi teorica ed operante, e delle quali guerre la motivazione, l'iniziativa e lo svolgimento sono del tutto sottratti al controllo ed alla influenza del proletariato, costituendo il monopolio unilaterale dei moderni Stati, anche se retti a democrazia;

decide che la Federazione Giovanile debba esplicare la sua azione politica d'accordo col Partito socialista italiano e con tutti gli organismi del proletariato, facendo appello in caso di guerra alle masse operaie perché esplichino la più recisa opposizione, e disapprova l'intonazione riserbata da «L'Avanguardia» di fronte alla guerra con manifesti giudizi parziali e prematuri di socialisti esteri, con simpatie sentimentalistiche per una delle parti belligeranti e inopportuni propositi bellicosi in particolari circostanze dello sviluppo del conflitto, esorbitanti dalla sana concezione socialista come dalla socialistica valutazione dei fatti... ».

 

Dopo questa decisione, fu completamente raddrizzato l'indirizzo della «Avanguardia», che prese posizione per la linea più radicale in materia di azione contro la guerra. Importantissima conferma se ne ebbe al congresso della Federazione giovanile tenuto a Reggio Emilia il 10 e 11 maggio 1915, ossia alla vigilia dell'intervento dell'Italia in guerra, il cui voto, importantissimo perché contiene il principio disfattista dello sciopero generale in caso di guerra, fu quindi propugnato (come abbiamo esposto) dai delegati della estrema sinistra e della Federazione giovanile stessa al convegno del 16 maggio 1915 a Bologna degli organismi del partito. Erano presenti 107 delegati e 305 sezioni con circa 10.000 iscritti. Sulla relazione del Comitato centrale e del giornale fu approvato quest'ordine del giorno:

«Il Congresso, constatato come il C.C. e la direzione dell'«Avanguardia», dopo il richiamo del Convegno nazionale tenuto a Bologna il 25 ottobre 1914, hanno seguito una linea di condotta confacente alle aspirazioni del movimento giovanile, ne approva l'operato e passa all'ordine del giorno».

 

Sull'azione contro la guerra fu approvato a grande maggioranza l'ordine del giorno che segue:

«I giovani socialisti italiani, mentre affermano che sia necessario rendere sempre più sensibile in questo momento il distacco fra borghesia e proletariato e credono e sperano che lo sciopero generale in caso di guerra sarebbe il segno veramente efficace di questo distacco, danno mandato di sostenere le loro convinzioni, e la loro volontà di affermare con qualunque sacrificio il proposito di salvaguardare gli ideali e gli interessi della classe lavoratrice, ai rappresentanti che si recheranno al convegno nazionale di Bologna».

 

Il giornale prese un indirizzo di sinistra subito dopo che il partito ebbe respinto la proposta di sciopero generale, e un articolo che daremo in appendice, dell'ottobre 1916, sviluppa le stesse idee, le stesse direttive che (come si è detto) l'estrema sinistra affermò con forze notevolissime al convegno di Roma del febbraio 1917. In previsione delle manifestazioni per il 1° maggio 1917 la Federazione giovanile si rivolse al partito per ottenere che la manifestazione stessa fosse informata a direttive più nette ed energiche di quelle di cui si era contentata la maggioranza del convegno di febbraio con la vaga formula: «Uniformare l'azione ulteriore del Partito all'azione finora svolta». In un articolo successivo, del luglio 1917, dal titolo Ancora più avanti, l'organo dei giovani manifesta decisamente l'idea che l'Internazionale socialista dopo la guerra debba essere scissa in due, e gli antichi capi, che nel 1914 hanno tradito, vadano respinti al di là di un vero abisso che separi i marxisti rivoluzionari da tutti i transfughi in campo socialpatriottico (cfr. i testi 31, 34 e 37).

Delle prese di posizione dei giovani nel cruciale periodo febbraio-giugno 1917 informa tuttavia più dettagliatamente la già citata «Memoria al Partito socialista della Federazione giovanile socialista italiana», in data Roma 24-5-1917 e a firma dell'allora segretario Nicola Cilla, un elemento di sinistra. Essa è una vivace critica degli organi direttivi del partito che non hanno mantenuto la promessa di prendere in seria considerazione l'o.d.g. presentato dalla sinistra al convegno di febbraio, e che, nei convegni dell'aprile e del maggio a Milano, hanno tenuto un atteggiamento sostanzialmente pacifista e gradualista. Vi sono riportate due proposte di aggiunte - o meglio chiarimenti - della Federazione giovanile all'o.d.g. della sinistra al convegno di Roma; la prima chiede di

«imporre alla Confederazione generale del lavoro un indirizzo nettamente classista; in tutte le occasioni adatte (ricorrenze straordinarie, processi politici, crisi parlamentari, provocazioni internazionali, ecc., ecc.) proclamare lo sciopero generale e convocare comizi, affermandosi in quest'unico programma: «la pace, non la vittoria»; tener deste e pronte le forze proletarie e, qualora queste scoppiassero al di fuori della nostra iniziativa, intervenire illuminandole e difendendole dalla reazione borghese»

 

La seconda invita

«il CC a tenersi maggiormente affiatato col movimento giovanile socialista internazionale, per accordarsi in merito ad eventuali futuri movimenti, e per tener viva e desta quell'unione internazionale che é gran parte della nostra forza».

 

Dallo stesso fascicoletto risulta che, in vista del già ricordato convegno del 9-10 aprile a Milano, la Federazione giovanile aveva inviato alla Direzione il seguente appello:

«Ritenuto che sarebbe impolitico e fuori della realtà non tener conto del malcontento popolare che è fatale conseguenza della guerra, o affidarsi a una vaga formula di «uniformare l'azione ulteriore del Partito all'azione finora svolta», - considerato che il malcontento popolare presente sta per essere sfruttato come tavola di salvezza dell'interventismo pseudo democratico e repubblicano ai finì di indirizzarlo verso un'azione insurrezionale non socialista, anzi antisocialista, che condurrebbe l'Italia a una concretazione di programmi essenzialmente repubblicano-borghesi, - fa voti perché la Direzione del partito - ispirandosi agli avvenimenti di Russia e d'America e allo stato d'animo creato dalla guerra - concreti una linea di condotta che diriga, coordini, unifichi lo spirito e l'azione del proletariato italiano».

 

Il 23/24-9-1917, la Federazione giovanile socialista italiana riesce a tenere un altro congresso, a Firenze, con ben 150 delegati in rappresentanza di 300 sezioni con circa 9.000 iscritti. Sull'indirizzo politico viene data adesione alla circolare della frazione intransigente rivoluzionaria, costituitasi per reagire al troppo debole indirizzo centrista della direzione, e tuttavia sorreggere quest'ultima contro la minaccia socialpatriottica di una defezione del gruppo parlamentare.

Dell'ordine del giorno sull'Internazionale, riportiamo la parte più notevole.

«Il Congresso della gioventù socialista italiana,

visto come gli avvenimenti storici in Russia confermino brillantemente la ragionevolezza dei principi della lotta di classe da noi propagati, saluta fraternamente la Russia rivoluzionaria e intravede nel suo trionfo il trionfo delle idee rivoluzionarie;

considerato che, come la rivoluzione russa può raggiungere il suo trionfo pienamente socialista [siamo a un mese circa dalla rivoluzione di ottobre], soltanto attraverso la lotta contro il governo borghese e contro il socialpatriottismo, così anche in tutti gli altri paesi può trionfare la tattica rivoluzionaria solo attraverso la lotta più aspra contro il socialpatriottismo del proprio paese;

delibera che uno dei compiti della Gioventù socialista é di operare in seno al movimento proletario infuocando la lotta rivoluzionaria per il trionfo dei nostri principi».

 

In questo congresso, fu pure vivamente deplorata l'incertezza del partito adulto e il suo tentativo di false unanimità, ricordando che al convegno di Roma del febbraio 1917 si erano voluti mostrare armonici i due ordini del giorno di forza quasi pari che «invece si dividevano per un'antitesi irreconciliabile». Alle critiche volle rispondere lo stesso Lazzari il quale rivendicò il rispetto al concetto di patria; tuttavia, il voto dette più di 7.000 aderenti all'indirizzo estremista contro 700 dei soli gruppi del Reggiano che tolleravano la scialba posizione del segretario del partito.

Nel periodo successivo del 1917, l'organo della Federazione giovanile mostra un'immediata e vibrante sensibilità alle notizie della rivoluzione russa e della vittoria di Ottobre. Una serie di note dai titoli Mentre Lenin trionfa, La luce viene dall'Oriente e simili, sottolinea con validissima prontezza la collimanza completa fra l'opera dei bolscevichi e i dettami fondamentali del marxismo. Si comincia pure ad agitare in maniera sempre più decisa il problema di una nuova Internazionale, come si può, fra i numerosi altri scritti, desumere da un articolo del maggio 1918 intitolato Le direttive marxiste della nuova Internazionale. Malgrado le mutilazioni della censura bellica, questo articolo imposta chiaramente le questioni della conquista rivoluzionaria del potere, della condanna della democrazia parlamentare, e della centralizzazione dell'azione comunista.

Fino alla fine della guerra, malgrado la caleidoscopica rotazione tra i dirigenti e nella redazione dell'«Avanguardia», dovuta agli incessanti richiami alle armi dei militanti più giovani, il movimento giovanile si orienta con esplicite manifestazioni verso la futura battaglia tra l’ala sinistra del partita socialista e le forze residue tuttavia annidate nelle sue file, da cui dovrà essere sgombrato il terreno. Parlino, a conferma, le pagine da noi riprodotte nella seconda parte per il periodo 1917-18.

 

 

23.      La grande riscossa proletaria postbellica: episodi a Napoli.

 

Nel corso logico della nostra esposizione, dovrebbe qui trovar posto la critica alle prime manifestazioni del partito socialista e del suo centro dopo la fine della guerra (4 novembre 1918) e la presentazione delle immediate prese di posizione dell'ala rivoluzionaria estrema.

Consideriamo tuttavia utile soffermarci, prima, su una serie di eventi che si prestano, nella loro rievocazione storica, a dare l'esatta formulazione dei rapporti tra movimento operaio sindacale e movimento politico socialista, problema che anche oggi ha peso non solo in dottrina, bensì nella nostra azione pratica, ma che i primi anni del dopoguerra in Italia (1919-1922) fecero vivere nella lotta storica più vibrante, con insegnamenti che non si possono dimenticare malgrado non tanto le sconfitte, quanto la posteriore gravissima degenerazione del movimento italiano e internazionale.

Uscendo dalle sofferenze di guerra la classe operaia fu subito assillata dal disagio economico acuito dal fatto stesso della smobilitazione dei lavoratori in casacca militare che ritornavano sul mercato della manodopera. La lotta economica sindacale, in cui il proletariato italiano aveva tradizioni poderose, si riaccese ovunque senza indugio, ma non sarebbe spiegabile la vivacità con la quale essa esplodeva se non si tenesse conto del fattore politico costituito dalla vivacissima opposizione che il proletariato tutto, anche più energicamente del suo partito, di cui abbiamo lumeggiato le incertezze e le esitazioni, aveva condotto contro la guerra, e dalla sua decisione di addebitarne le conseguenze alla classe dominante con uno slancio molto più vasto che non fosse la semplice rivendicazione di concessioni riformistiche alla scala immediata. Era, in verità, tutta la classe lavoratrice a sentire che si sarebbe posto in pieno, dileguato il fantasma bellico, l'ansito di mutare fin dalle basi il sottofondo sociale e le masse si trovarono di fatto sul terreno su cui, tra infinite difficoltà, si era saputa portare l'ala più decisa della sua organizzazione politica. Il loro moto fu spontaneo, intonato da un capo all'altro del paese, dalle città alle campagne, e la borghesia di tutti i gradi ebbe a tremare dell'avanzata che il proletariato iniziava.

Se, invece della sola storia della corrente di sinistra, qui si dovesse fare la storia della lotta di classe in Italia subito dopo la fine della prima guerra mondiale, immenso sarebbe il quadro da dipingere, tanto vasti, numerosi e frequenti furono i moti, impazienti e frequenti le conquiste, le ondate delle forze in contesa, il riaccendersi della battaglia dopo ogni pausa. Non si gridò solo: Pane o giustizia economica, ma si gridò: Abbasso la guerra, e rovina alla borghesia che l'ha voluta, in tutti gli episodi anche a sfondo ristretto, locale, o, come sguaiatamente dicono oggi, settoriale.

Possiamo introdurre questo argomento sul piano storico dei fatti, prendendo lo spunto da una pubblicazione dal tema ristretto, su Napoli tra dopoguerra e fascismo, di R. Colapietra (Milano, Ist. Feltrinelli, 1962), che è più che altro un centone, ma ha utilmente attinto materiali dovunque, cosicché ve ne troviamo molti ben calzanti alla nostra tesi.

L'autore di detto libro ha soprattutto seguito le collezioni dei giornali di Napoli del tempo, ma fra le altre - di tutti i colori politici - è stato in possesso di quella del settimanale socialista «Il Soviet» che, come è noto, fu poi l'organo della Frazione Comunista Astensionista del partito, organizzata in molte parti d'Italia. Il settimanale uscì subito dopo la fine della guerra, e precisamente il 22 dicembre del 1918. Il vecchio settimanale della federazione era, come abbiamo avuto occasione di riferire, «Il Socialista», ma si era alla ricerca di un titolo più espressivo dell'adesione di tutto il movimento di Napoli alle tesi della tendenza rivoluzionaria, quando tra gli applausi generali un compagno (che non fu poi della frazione estrema) esclamò: «Come esitare?: Il Soviet!».

Precedentemente alla storia del tempo di guerra, abbiamo già parlato del movimento socialista a Napoli, e della vivacissima lotta nel suo seno contro la grave magagna della corrente ultraopportunista dei «bloccardi» e filomassoni. Questi erano stati battuti al congresso di Ancona nel 1914; ma, come abbiamo notato, il blocco del quale facevano parte i socialisti fuorusciti dal partito aveva vinto clamorosamente le elezioni comunali contro «il fascio» dei clericomoderati, e non è il caso di tornare sulla sua complessa storia di guerra e la divisione della sua frazione «socialista» in interventisti e rari neutralisti. Il volume di cui ci avvaliamo ricorda anche quei precedenti, e in nota cita un articolo del nostro «Soviet» dal titolo: Il degenere socialismo bloccardo, apparso nel numero inaugurale. Ringraziando della citazione, la ricopiamo:

«Si lasciò credere che il socialismo si compendii nella buona amministrazione di un comune o di una provincia; nella soluzione di mille piccoli problemi concreti, nella difesa dell'onestà misurata alla stregua del codice borghese, e nella lotta contro i ladri. Questa mania delle questioni morali [qui il peregrino storico di oggi mette un sic, quasi a mostrare il suo stupore che ogni questione morale non sia ineccepibile!] condusse ad accreditare il metodo della collaborazione con i borghesi onesti, quasi che questi non fossero sfruttatori parimenti autentici del proletariato... Un tratto caratteristico della situazione napoletana fu però sempre questo: che, mentre altrove i riformisti non fecero mai mistero della loro tendenza, qui da noi la transigenza più sfacciata non si scompagnò mai dalla messa in scena rivoluzionaria per tutto quanto riguardava la esuberanza esteriore del temperamento e del gesto... Il blocco partenopeo ha dunque per noi il valore di un istruttivo episodio».

 

Ed infatti la tregenda opportunista a Napoli prima della guerra servì alla lotta fino al 1914 per ricondurre il partito socialista su posizioni di classe che ne evitarono la totale rovina quando la seconda Internazionale si dissolse nel socialsciovinismo; e gli esempi ricordati in questo passo vecchio di 45 anni possono servire a guardarsi dai buffoncelli, che ogni tanto riaffiorano, di tipo «falso sinistro», mentre la giusta impostazione del problema sindacale in una fase di fervida attività quale fu per l'Italia il 1919 riesce utile ancor oggi per liquidare alcune deviazioni dal marxismo così come, allora, la giusta via fu trovata facendo tesoro delle lotte precedenti contro il sindacalismo apartitico e «immediatista».

Nella cronistoria di cui ci serviamo come utile lavoro di testimonianza documentale è notevole rilevare che l'autore, palesemente un tipo «centrista» e «antisinistro» - e, appunto perciò, storico non «sospetto» -, pur facendo posto a riferimenti alla critica mossa allora e dopo al movimento del «Soviet» e della sinistra (che alcuni sciocchi amano chiamare napoletana) come incapace di uscire dalla astratta teoria per avvicinarsi alle masse in movimento, riconosce tuttavia che quel moto nel 1919 dette vita ad «un massiccio schieramento sindacale», anzi lo definisce sua opera esclusiva. Egli ricorda che la sede del «Soviet» era alla Camera del lavoro (più esattamente presso la Federazione metallurgica, attorno a cui sorse la Camera confederale sulle rovine della sindacalista e bloccarda «Borsa del Lavoro») e passa in rassegna le leghe di mestiere e i nomi dei loro organizzatori, che politicamente stavano appunto intorno al forte gruppo politico del «Soviet». Fu quindi del tutto naturale l'accettazione in Italia e nelle file più rivoluzionarie della giusta tattica sindacale dei russi e di Lenin (con cui non si aveva ancora nessun legame), secondo la quale si doveva lavorare nella Confederazione e non scinderla, anche se era diretta da riformisti e se la parte tecnica degli scioperi era tenuta in mano dai Buozzi e Colombino, coi quali nel partito ogni giorno si colluttava.

Il nostro narratore non manca, è vero, di far colpa al gruppo del «Soviet» della sconfitta sindacale del memorabile sciopero metallurgico della primavera 1919, senza vedere che la tradizione di quei 50 giorni di lotta accanita resta una pagina gloriosa ed una conferma di tutto quanto la sinistra comunista sosteneva circa la necessità della scissione del partito e della fondazione del partito comunista per cui si lottò fino a Livorno 1921.

Ma a noi premeva qui di citare il riferimento alla vasta attività che il gruppo del «Soviet», mentre si poneva all'avanguardia del partito rivoluzionario, condusse dal primo giorno nel campo della lotta economica proletaria. Il Colapietra fa una sua critica del metodo della sinistra, dicendo da un lato giustamente che per essa si tende a disporre di un partito severamente selezionato che faccia da avanguardia e da stato maggiore della rivoluzione, ma dall'altro obiettando che non si chiarisce come si faccia a fare la rivoluzione. È vero: ancora oggi ammettiamo di non possedere una ricetta per farla, anzi nemmeno per costruire un tale partito; è giusto che la rivoluzione è un risultato della crisi del sistema capitalistico e «l'importante è che questo risultato non colga impreparato il partito politico». Sta di fatto che, nel primo dopoguerra, il partito era impreparato e dopo la seconda guerra era addirittura scomparso, o agente in senso controrivoluzionario. Se questo prova che i sinistri erano fessi, ebbene preferiamo accettare questo aggettivo piuttosto che metterci anche noi a caccia di ricette (primissima il riconoscere i propri errori) per acciuffare il successo che ci ha volto le spalle.

Il signor Colapietra ci vorrà scusare se lo prendiamo come testimonio storico e lo lasciamo da ora in poi andare come critico. Gli dobbiamo però ulteriore ringraziamento per altra citazione, sempre dal primo numero del «Soviet». Essa vale a stabilire la nostra posizione contro quella di Bombacci per l'assemblea costituente, che già i bolscevichi avevano da tempo giustiziata. Ecco il passo:

«La rivoluzione socialista si realizzerà quando il potere politico sarà nelle mani dei lavoratori, non solo perché i lavoratori sono la maggioranza ma perché alla minoranza borghese verrà tolta ogni ingerenza nella formazione degli organi del potere».

 

Il testo narra poi di un vasto convegno meridionale cui lo stesso Bombacci intervenne. I compagni del «Soviet» presentano (29 dicembre 1918) un ordine del giorno - sul quale torneremo più avanti - per l'astensione assoluta dalle lotte elettorali; esso, malgrado i pochi che appoggiano Bombacci, passa all'unanimità meno la sola sezione di Avellino. Segue nel «Soviet» una serie di articoli dai titoli: Equivoci ed insidie del riformismo; L'illusione elezionista; L'inutilità del Parlamento. Il 17 marzo 1919 la sezione di Napoli prende decisa posizione perché un congresso del partito deliberi l'astensione dalla lotta elettorale per consacrare tutte le sue forze alla propaganda. Il nostro testo dice che la formula è debole, ma ne dà una spiegazione non malvagia. Era prevedibile che la nuova prassi astensionista sollevasse le obiezioni di anarchismo, di sindacalismo, di economicismo. Vi era la polemica del periodico confederale ultradestro «Battaglie sindacali», e al solito la Confederazione tentava di sopraffare il partito. Ma il gruppo del «Soviet», se è contro le elezioni, é per la politicizzazione e per il potenziamento del partito. E qui un'altra utile citazione:

«Abbattere il potere borghese non si può senza abbattere i suoi organi, tra cui primissimo l'assemblea legislativa. Tra conquista rivoluzionaria del potere da parte del proletariato, mediante l'azione del suo organismo politico, che è il partito socialista, e funzione elettorale, vi è irriducibile antitesi: l'una esclude l'altra».

 

Non siamo al punto della storia della frazione astensionista, ma quello che ora ci preme mostrare è che i sinistri e astensionisti erano in prima fila nella lotta sindacale sulla migliore linea marxista e anche «leninista». Rileviamo solo un altro dato sulla questione delle elezioni: congresso regionale socialista del 20 aprile 1919, che richiamò la generale attenzione della stampa borghese (compiaciuta, secondo il nostro bravo cronista): 274 per la mozione astensionista, 81 per l'ordine del giorno puro e semplice, 58 astenuti.

Più interessante è che il nostro autore colleghi l'ostilità del «Soviet» verso gli economisti (o sindacalisti riformisti) di «Battaglie sindacali» ad un rilievo sagace sul dissenso, già da allora chiaro, con l'«Ordine Nuovo» di Torino. (Altra volta abbiamo ricordato e ricorderemo ancora il molto riservato «saluto» del «Soviet» all'uscita dell'«Ordine Nuovo» e il monito contro la mania dei «problemi concreti», antica Circe del riformismo peggiore). Ma ecco un'altra buona citazione:

«Il Sovietismo non é un guazzabuglio di sindacati. - dice il «Soviet» del 15 aprile 1919 - Nel periodo rivoluzionario e nell'assetto comunista, il sindacato ha la sua parte, tutt'altro che preminente; ma il carattere dell'organismo è politico... Lo svolgimento rivoluzionario scarta le vedute dell'operaismo riformista come del sindacalismo. Ed affida all'azione politica della classe operaia la prassi della rivoluzione».

 

In quel tempo in Italia pochi avevano capito che cosa fossero i Soviet russi; o li scambiavano per una nuova formula miracolosa di organizzazione, ricadendo nel vieto errore circolante ancor oggi in certi fogliucoli immediatisti di credere che la lotta di classe sia fatto economico e non politico.

Noi stiamo qui mostrando con una serie di fatti della cronaca storica, che è utile ci vengano da altri testimoniati, alcune estreme tesi dialettiche che nella formulazione teorica possono non riuscire subito digeribili: Partito più rivoluzionario del sindacato. Partito politico più vicino alla classe che il sindacato. Partito vero organo della dittatura del proletariato, e non il sindacato, o altro organismo economico, e non il Soviet, che potrebbe cadere in preda agli opportunisti piccolo borghesi, e allora gli si dovrebbe negare il potere (Lenin).

Scissione dei partiti socialisti tradizionali per formare il partito comunista atto alla dittatura. E - in tutta coerenza - lavoro nei sindacati in ogni situazione come primo dovere del partito. Non postulato di scindere i sindacati, ma lavoro anche in quelli dominati da riformisti e traditori. Partecipazione attiva agli scioperi, parlando ogni giorno alle masse di politica, di presa del potere, di dittatura, di abbattimento del parlamentarismo borghese. In questo, Lenin non dissentì da noi, solo che voleva farci lavorare nel Parlamento per mandare alla rovina il Parlamento. Dicemmo a Lenin che non lo capivamo: se ciò dipese dal fatto che eravamo fessi, ebbene venga fuori non chi lo ha capito, ma chi lo ha fatto ed applicato, e ci mostri questi Parlamenti fatti a brandelli!

Seguiremo per poco la nostra fonte per mostrare che le relazioni dialettiche tra questo gruppo di proposizioni o tesi testé allineate camminano bene e calzano, coi signori fatti, a perfezione. Tuttavia ci piace un'altra citazione dal «Soviet» in tema, ci si perdoni, di politica pura. Scrive un compagno ancora nostro decano, e ciò vale a mostrare da quanto tempo detestiamo cordialmente il più fetido dei capitalismi, quello degli Stati Uniti. La stampa del 1919 già soffiava sul fuoco di una rivalità tra Italia e Jugoslavia, come del resto in questo più recente dopoguerra fecero persino i «comunisti» filorussi, all'ultima ora poi in fase di amori con Belgrado. Ecco il passo:

«La questione adriatica non è se non un conflitto d'appetiti tra la borghesia italiana e quella jugoslava... Per noi la questione nazionale non ha alcun significato e alcuna importanza... Il proletariato non doveva interessarsi di questo individuo [il Presidente americano Wilson] se non in quanto egli fosse, quale autentico rappresentante della più autentica borghesia, un avversario da combattere e per giunta un avversario pericoloso».

 

Parole che possono suonare come un ceffone sul viso dei semigiovani e semivecchi che nella seconda guerra idolatrarono la capitalista America, poi la vituperarono, e a poco a poco si avviano a fraternizzare degnamente con essa fino a uno schiocco di baci tra i «K. K.», presto trasmesso via Telstar o per «filo diretto».

Ma veniamo ai grandi scioperi. In una prima grande prova di forza dei metallurgici dal 18 gennaio al 2 marzo gli industriali avevano dovuto capitolare, con qualche vantaggio materiale per gli stramalpagati operai napoletani. Ma sono da rilevare gli episodi politici.

Il 23 gennaio una grande assemblea al teatro San Ferdinando commemora i morti proletari in guerra. Gli oratori del «Soviet» propongono un voto per la repubblica socialista e la dittatura del proletariato. La folla acclama, e, riversatasi per le strade, si scontra con la polizia. A Torre Annunziata scoppia lo sciopero generale; a Napoli un comizio di protesta riunisce 15 mila metallurgici. La stampa borghese sprizza veleno; i padroni il 10 marzo attuano la serrata, ma l'11, dopo uno dei colossali comizi nella vecchia piazza di Santo Aniello, Buozzi va dal prefetto e la serrata è rimangiata.

Nel maggio del 1919 il colossale nuovo sciopero di 40.000 metallurgici si inizia dall'ILVA di Pozzuoli, e le richieste sono le solite: minimi salariali, regolamenti interni, ritiro dei licenziamenti.

Il 19 maggio viene Buozzi, ma la massa lo fischia. Riparte per Roma e firma un compromesso con l'ILVA. Il 29 maggio altro immenso comizio a Sant'Aniello. Su proposta di quelli del «Soviet» il compromesso Buozzi è respinto. Il 2 giugno i metallurgici in quattro grandi comizi votano lo sciopero generale, ma la Camera del lavoro lo sospende perché la ditta Armstrong si dichiara disposta a trattare. Nel referendum sulla prosecuzione dello sciopero, su 13.000 votanti solo una cinquantina votano contro!

Il 12 giugno, in una situazione sfavorevole per le condizioni di crisi dell'industria che mancava di carbone e minerali di ferro, dopo 45 glomi di lotta all'ILVA, 36 di tutti i metallurgici, 6 di sciopero generale e dopo che, come di norma, i deputati opportunisti, prima fischiati via, erano potuti comparire nei comizi ad offrire la loro mediazione, Buozzi doveva sudare sette camicie per rendere meno rovinoso il concordato. I giornali borghesi potevano ironizzare sui tre milioni di giornate perdute, ma gli operai non rimasero avviliti, perché si convinsero maggiormente che la lotta doveva divenire generale e politica. Vi furono per il crescente carovita moti e disordini a Napoli e centri vicini (come in tutta Italia) nel mese di luglio. Il moto fu violento ma disordinato, e gli opportunisti tentarono di prenderlo in mano; il 13 luglio cercarono di strapparci la Camera del Lavoro, ma furono battuti con soli 436 voti contro 5.687 ai socialisti.

Il nostro cronista trova vano in questa fase un commento del «Soviet»: «La soluzione della attuale gravissima crisi economica non può essere data dai presenti istituti politici, ma soltanto e direttamente dalla classe lavoratrice mediante la presa del potere politico». Questo sarebbe vaneggiare astensionistico! Frattanto lo sciopero pro Russia del 20 e 21 luglio 1919 aveva in tutta Italia ed Europa non molto successo, e non è strano che noi sinistri ne deducessimo che il proletariato aveva bisogno di un ben più maturo organo di direzione; il che voleva dire chiedere la scissione del partito socialista.

Si va frattanto verso il congresso socialista di Bologna dell'ottobre 1919, del quale dovremo trattare molto espressamente. Il congresso regionale di Napoli si tenne il 14 settembre. Gli astensionisti vinsero, ma il nostro testo si compiace di dire che vi fu una fortissima opposizione (non dà le cifre) ed è molto zelante nel cercar di mostrare che nel «Soviet» non si parlava di scissione del partito, ma solo di astensionismo. Proveremo che non è vero (lo sapeva per conoscenza diretta del periodico persino Lenin) ma non possiamo non cogliere questa preziosa ammissione: quella fortissima opposizione che si dichiarò «elezionista», per battersi contro noi del «Soviet» aveva accettato la pregiudiziale di «proporre al congresso l'incompatibilità col partito di coloro che negano l'uso della violenza e la dittatura proletaria». Come in altro punto proveremo, la frazione astensionista a Bologna dette alla scissione del partito importanza anche maggiore della tattica astensionista; ma i famosi «massimalisti elezionisti» da questo orecchio non ci vollero sentire («Ordine Nuovo» incluso).

Una tesi preferita dal raccoglitore di tutti questi testi é che il gruppo del «Soviet» in materia di tattica non accumulasse che errori marchiani, ma che le sue enunciazioni mostrassero una giusta e potente visione storica. Possono forse i fessi avere una profetica visione del futuro storico? Se così è abbiamo trovato un'altra ragione per star bene schierati tra i fessi.

Comunque ci serviremo di una citazione ancora. Il 4 gennaio 1920, a breve distanza dalle elezioni generali e dalla apparizione sulle scene del nuovo partito popolare (prima cattolico o clericale, poi democrazia cristiana), il «Soviet» scrive:

«Il potere potrà passare nelle mani di un vasto partito o aggregato social-riformista, formato, più che dagli avanzi impotenti del partito radicale e del socialismo autonomo, dal partito popolare - che è una nuova democrazia lontana le mille miglia dal programma antidiluviano di una restaurazione teocratica - e da una parte delle forze inquadrate proprio dal nostro partito. Questo è l'avversario di domani».

 

Il testo di cronaca attribuisce un alto senso storico agli scrittori del «Soviet», e rileva pure che l'accenno a «una parte del nostro partito» si può riferire al gruppo «Ordine Nuovo»; ma non è suo il raffronto che ora tentiamo. Non vi è in quel giudizio di 43 anni fa sul partito cattolico una profezia della vergogna di questo 1963, della politica della «apertura a sinistra» in cui convergono democristiani, socialisti riformisti, e parti degenerate del movimento comunista del primo dopoguerra?

Il cronista riporta pure in che criticavamo l'«Ordine Nuovo»:

«Sostenere che i consigli operai, prima ancora della caduta della borghesia, siano già organi, non solo di lotta politica, ma di allestimento economico-tecnico del sistema comunista, è un puro e semplice ritorno al gradualismo socialista. Questo, si chiami riformismo o sindacalismo, é definito dall'errore che il proletariato possa emanciparsi guadagnando terreno nei rapporti economici mentre ancora il capitalismo detiene, con lo Stato, il potere politico».

 

D'altra parte:

«Solo fino a un certo punto si può vedere il germe dei Soviet nelle commissioni interne di fabbrica. O meglio, noi pensiamo che queste siano destinate a germinare i consigli di fabbrica incaricati di attribuzioni tecniche e disciplinari durante e dopo la socializzazione della fabbrica stessa, restando chiaro che il Soviet politico cittadino potrà essere eletto dove tornerà più comodo e probabilmente in riunioni non diverse dagli attuali seggi elettorali».

 

I passi sono citati a proposito della polemica con Misiano. Questi ci interessa nella fattispecie solo in quanto, reduce dalla Germania, aveva portato le notizie della scissione tra partito comunista e partito comunista operaio, e la condanna di Lenin a quest'ultimo, che non voleva né le elezioni al Parlamento né il lavoro nei sindacati «gialli». Noi sinistri chiarimmo che i due punti non avevano lo stesso peso, e il tedesco K.A.P.D, sbagliava nella questione sindacale contro i principi marxisti. Non era quindi giusto che Misiano e nemmeno Lenin affiancassero noi sinistri italiani coi kaapedisti e coi tribunisti olandesi. Qui il nostro narratore é efficace. Misiano enuncia quello che (a suo dire) è un postulato fondamentale:

«La tattica varia a seconda delle contingenti peculiari situazioni». E il «Soviet» scatta: «Tale è stato l'errore della seconda internazionale, ma non deve esserlo della terza. Per i comunisti, principi e tattica formano tutt'uno».

Oggi, 1963, non è difficile tirare le somme. La terza Internazionale ha fatto la fine della seconda. Con ciò non esauriamo il tema di tattica e principi, che abbiamo spesso ampiamente svolto. Il partito deve impegnare tutti i suoi membri tanto alle tesi di principio quanto a quelle di tattica, e né le une né le altre debbono essere improvvisate sotto il pretesto di nuove svolte.

Dato che di Russia, Germania e III Internazionale molto dovremo dire, converrà qui tornare a Napoli con qualche altro episodio che lumeggi le dinamica dell'azione sindacale comunista. Prendiamo atto di altro complimento alla solidità dello sguardo storico della sinistra, dalla citazione: «In Italia la tradizione parlamentare è saldamente costituita da molto tempo e radicata nelle coscienze e nelle abitudini dello stesso proletariato, a differenza della Russia dove è stato possibile convocare elezioni per la Costituente e sciogliere quest'ultima con la forza. Qui da noi la preparazione deve essere assai più lunga e complessa». Era una relazione a Mosca, e mancava alla data del 1920 quest'altra buona ragione: nemmeno un ventennio di Mussolini ha sradicato il vizio fetente dell'elezionismo...

Nuovi moti sindacali si ebbero nel principio del 1920. Alle officine Miani e Silvestri il 24 marzo 1920 corse il sangue per espellere gli operai che tenevano in possesso la fabbrica avendo inalberata la bandiera rossa. Con un vile stratagemma, dopo di aver lasciato passare dei parlamentari con salvacondotto e una barella con un ferito grave, i carabinieri irruppero e portarono fuori di peso i ribelli tra cordoni di soldati dietro i quali imprecavano, trattenute dalle baionette, le donne proletarie. La sera alla Camera del Lavoro si fremeva di sdegno. Il nostro cronista deride come dottrinario e inopportuno un ordine del giorno dei sinistri giovanili e adulti, perché diceva: «Auspichiamo prossima la conquista degli strumenti di produzione da parte del proletariato attraverso la conquista della sua dittatura politica ed il sistema Soviettista». Ma non era questa la lezione del tragico fatto, la illusione di prendere la fabbrica senza aver preso, per spezzarlo, lo Stato dei carabinieri e dei soldati ai servizio della tirannia padronale?

Il vero episodio di quella sera fu un altro, e chiude bene il nostro tema del come il partito agisce nel sindacato. La massa di migliaia di lavoratori urlava: Sciopero generale! Si obiettò che non erano presenti i membri del Consiglio generale delle leghe e nemmeno della commissione esecutiva. E con ciò?, noi rispondemmo. Non ci sono forse i militanti rivoluzionari membri del partito socialista? Non siamo qui operai di tutte le categorie e di tutte le fabbriche? Decidiamo lo sciopero e distribuiamo i nostri picchetti.

La mattina dopo, sia pure con una non completa costituzionalità, Napoli era tutta ferma!

Dottrinarismo, o metodo pratico di combattere ponendo il partito al suo posto: alla testa del proletariato?

Erano passati trent'anni, e allo stesso luogo dove allora fummo di picchetto chiedemmo a un ferroviere: Oggi scioperate? Quello alzò le braccia: Si attendono disposizioni, disse. Frase degna del tempo fascista, e del fatto che il fascismo, col «nuovo risorgimento» dei rinnegati, si è consolidato al potere.

 

24.             Scoppia il «dopoguerra italiano».

 

Chiusa questa che possiamo chiamare non digressione, ma anticipazione non inutile, veniamo al tema del dopoguerra in Italia.

Alla data «fatidica» del 4 novembre 1918, veniva firmato l'armistizio con l'Austria e le ostilità cessavano sul fronte italiano.

Ovviamente, per vari mesi le bardature di guerra restarono in piedi, e tra esse la censura politico-militare sulla stampa; tuttavia il movimento della classe operaia e del suo partito socialista, che già si era dovuto occupare secondo le sue possibilità delle prospettive del dopoguerra e dei famosi problemi della pace, entrò subito in fervida attività, pur mostrando non lievi incertezze e contraddizioni. La nostra corrente dell'estrema sinistra del partito aveva sui compiti di quell'ora vedute ben nette e chiare e le aveva in ogni occasione (si ripensi a quanto riferito sul convegno di Roma del febbraio 1917) svolte e contrapposte a tutte le posizioni banali per cui la data della pace era solo quella di una grande gioia e di una grande festa. Di feste in feste del genere fino a quella della caduta del fascismo è intessuto il cammino della presente rovina e vergogna del proletariato italiano.

Certo le piazze tripudiarono nei primi di novembre, e non in quanto si inneggiasse alla vittoria nazionale borghese, ma in quanto noi proletari e socialisti scendemmo nelle piazze illuminate per guardare sul viso ai fautori e beneficiari della guerra che l'ora della resa dei conti era suonata.

La destra nazionalista e borghese ricambiava il nostro odio e temeva di noi, anche se per un momento tacque la sua insolenza. Due forze nemiche, due armate di classe, si misuravano per la guerra sociale che tutti sentivano incombere. Per i rivoluzionari non da burla, non si trattava di tripudiare e deridere l'avversario, ma di ben studiare e valutare i colpi da vibrargli nell'intento di lasciarlo al suolo finito, come egli augurava a noi.

Questo non è certo un pesante diario, ma la prima data e nota che abbiamo sott'occhio è una mossa del campo nemico, e una meritevole risposta del nostro, di critica che andremo svolgendo per tutto il corso; critica che non è postuma e comoda a tanti anni di distanza, ma che riferiremo come nel vivo di quegli eventi l'andavamo formulando.

13 novembre del 1918. Gli antisocialisti, ossia i fautori dell'intervento e della guerra, che avevano in date fasi tremato della sconfitta, ma che ora non potevano rinunziare allo sfruttamento del successo, organizzarono una campagna contro certe amministrazioni locali di colore socialista, quali i comuni di Milano e di Bologna. Il lettore che ha seguito il nostro racconto sommario ma sicuro, ricorderà che quegli organi erano nelle mani della destra del partito; che non avevano peccato di eccessivo antibellicismo, e che noi più volte li avevamo rampognati per aver usato indulgenza e perfino steso mano amica alla borghesia nel lenire le sue ferite di guerra, e peggio l'esasperazione delle ferite che la sua guerra aveva recato alle carni proletarie.

Ma la borghesia dominante e politicante, specie quando è partita in campagna per la democrazia mondiale, non sa che cosa sia gratitudine, ed avrebbe volentieri stritolato i suoi ingenui servitori.

Essa covava già le incursioni, le spedizioni punitive alla stampa, agli organi e alle sedi rosse, ed eravamo pochi allora a dire che il solo rimedio alle sue malvagie brame era non l'invocare libertà ma il preparare noi spedizioni punitive ed incursioni in armi per prostrarla al suolo: e non per vendicare seicentomila proletari trucidati nella guerra, ma per salvare le generazioni e l'umanità future da altre guerre capitalistiche. La rivoluzione è un mezzo serio; la vendetta un fine stolto.

È un manifesto, quello che citiamo, lanciato dopo le dimostrazioni operaie contro gli interventisti che ci avevano «provocato» con la campagna contro i comuni socialisti. Naturalmente, già in quelle prime manifestazioni fu facile alla stampa gialla cominciare la denunzia delle nostre provocazioni: infatti, quando le masse che protestavano incontravano giovani patrioti che esibivano il distintivo di guerra, e magari qualche medaglia, erano fischi e sberleffi, e qualche buon calloso ceffone trovava la guancia di eroi veri o fasulli. Cominciò la stupida storia di chi aveva provocato; e non è ancora chiusa. La tattica marxista in materia è limpida: meglio essere i provocatori che i provocati.

Il manifesto è firmato da Caldara sindaco di Milano, Mariani per la Camera del lavoro, Interlenghi per la sezione socialista, Repossi per la Direzione del partito, d'Aragona per la Confederazione, Turati ed altri per il Gruppo parlamentare. Il breve prologo fa appello alle forme civili di lotta (ossia a quelle che rinnegano la guerra civile, che si doveva essere ansiosi di surrogare alla guerra militare); fa invito alla «serietà, consapevolezza e forza organizzata» fuori da «inutili violenze», e, mentre saluta i primi sintomi di sviluppo dei «germi gettati in mezzo secolo dai maestri del socialismo», riecheggia i temi della propaganda intesista parlando del crollo in Europa delle «sopravvivenze imperiali, feudali, autoritarie e reazionarie».

Ma già le firme giustificano una nostra critica di base, fatta prima, durante e dopo la guerra. È il partito, e il partito solo, che deve condurre questi atti di lotta politica: onorevoli e bonzi confederali devono non dare ma ricevere consegne di azione.

Comunque, il testo che abbiamo non è puramente difensivo nel senso piagnone; anzi, è il primo tentativo di redigere un elenco dì conquiste per cui il proletariato, finita la guerra, è invitato a lottare.

In qualche ulteriore documento che subito vedremo, si tenta di classificare le rivendicazioni tra «massime» e «minime», pur non sapendo dir bene quali siano «immediate». Qui troviamo formule che vogliono esser di principio, e sono improprie, come: «a chi lavora il frutto integrale del suo lavoro» - altre di carattere contingente post-bellico come: restaurazione di tutte le libertà; abolizione della censura, amnistia - altre pacifiste: disarmo totale e permanente, autodecisione dei popoli, ritiro delle spedizioni contro la Russia, soppressione delle barriere doganali - altre di economia interna molto vaghe, come controllo operaio sulle fabbriche, terra e lavori pubblici affidati a cooperative - di politica interna non poco confuse: abolizione di ogni potere arbitrario nella direzione suprema dello Stato (la monarchia?), suffragio universale, ecc. Non elenchiamo in ordine, e facciamo grazia delle otto ore, della imposta progressiva, della confisca dei profitti bellici.

Non si pensò ad una formula semplice: alla guerra segue uno scontro tra le forze politiche borghesi e proletarie - da questo scontro si uscirà bene se si organizzerà la lotta violenta, senza dimenticare che la sola difensiva è l'offensiva. Il guazzabuglio in queste cose viene dal desiderio di conciliare formule che piacciano al buon rivoluzionario di partito (a Milano non ne mancavano), al deputato e all'organizzatore destro. La prima entrave tra i piedi della classe operaia italiana era la falsa unità del partito, che qui non vanta nemmeno la sua totale opposizione alla recente guerra e alla concordia nazionale.

Alle manifestazioni del partito, sempre in sede ibrida, precede quella dell'occhiuta Confederazione del Lavoro. Questa infatti si riunisce in consiglio direttivo il 30 novembre. Non ci risulta l'invito o la presenza del partito o di altri suoi organi. Il cappello, prima di richiamarsi ai principi della lotta di classe e del socialismo internazionale, richiama… le larghe promesse fatte dalle classi dominanti al proletariato per indurlo al grave sacrificio, sicché la lotta di classe si riduce a un affitto di sangue proletario, che del resto la «nazione» aveva preteso come suo sacro diritto, e gratis. Indi, si invita il proletariato a vigilare e premere per ottenere un programma di immediate riforme. L'elenco non è diverso da quello di Milano: non si tratta dunque di rivoluzione, ma di riforme radicali e immediate.

In testa ve ne é una buona! Convocazione della Costituente!

Poi viene la famosa abolizione di ogni potere arbitrario, per dire questione istituzionale o repubblica; ma la parola repubblica era traditrice: socialista o borghese?

Alla disordinata elencazione che prima abbiamo esposto, si aggiunge un accapo davvero brillante. In recente occasione abbiamo definito questa rivendicazione social-riformista del 1919 pari a quelle fasciste-hitleriane del 1922 e 1933, e kruscioviane del 1962. Uditela e deliziatevi:

«Trasferimento, dal Parlamento ai corpi consultivi sindacali, debitamente trasformati, dei poteri deliberativi per la parte tecnica delle leggi sociali e relativi regolamenti».

In coda è un vecchio arnese dei programmi minimi anche di anteguerra: scuola laica al proletariato. Oggi, 1963, passati 45 anni, con l'apertura a sinistra facciamo un bel passo avanti: scuola al proletariato della democrazia cattolica.

Abbiamo quel po' po' di partiti progressivi al lavoro. E la Costituente ci ha già beneficati di un ordine moderno e civile, nonché miracoloso!

Pare che il manifesto di cui ora parleremo sia stato steso il 7 novembre, e quindi prima del testo appena esaminato. Ma si poté renderlo pubblico solo il 7 dicembre, e quindi dopo. Esso emana dalla Direzione del P.S.I. che si aggrega la Confederazione del Lavoro, il Gruppo parlamentare e la Lega delle Cooperative! La conclusione è davvero sconcertante. «La libertà è il presupposto per un dopoguerra che non sia di esclusivo (?) sfruttamento della classe padronale. Quelli che hanno sfruttato la guerra vogliono sfruttare la pace e tentano di accaparrarsi il dominio dello Stato...». Infatti, tentavano di tenere quello che sempre avevano avuto. «Voi lavoratori non potete stare con le mani legate. Avete un programma immediato che le vostre organizzazioni hanno in precedenza preparato. In piedi dunque! La guerra è finita. Riprendiamo il lavoro».

Bene. Il partito mette il polverino a quello che le organizzazioni hanno fatto senza di lui. Non dice nemmeno che «il frutto del lavoro» debba avere una nuova destinazione, come quelle, sia pure vagamente, avevano detto.

È solo nell'«Avanti!» del 14 dicembre 1918 che si ha un resoconto, non ampio, della riunione della Direzione del partito nei giorni dal 7 all'11. Si deve tener conto che ancora vigeva la censura sulla stampa e vi è traccia di 11 righe censurate. Parte notevole della discussione si riferisce ai rapporti internazionali. Non appare soddisfacente quella riguardante i rapporti coi partiti della seconda Internazionale, come il francese, macchiato del più grave tradimento, e col Bureau International di Bruxelles, da tempo squalificato dai socialisti rivoluzionai non solo di Russia ma d'Italia. Sono invece notevoli la risoluta opposizione alla annessione all'Italia di territori dell'impero ex austriaco di nazionalità slava, e il resoconto di contatti con socialisti di quelle regioni per una comune protesta contro gli effetti del famigerato patto segreto di Londra sulla spartizione dell'Impero Austro-Ungarico in caso di vittoria. In questi primi tempi, il partito italiano rifiuta tali annessioni, allora reclamate dai nazionalisti estremi che poi si svolsero nel fascismo; ma non passerà molto tempo e avrà notorietà, in materia di atteggiamenti verso l'imminente congresso della Pace, la frase di Filippo Turati che respingeva la cosiddetta «pace cogliona». È qui un altro sintomo della frattura nel partito, se anche la Direzione in questi primi voti si mostra debole sul problema della ricostituzione dell'Internazionale quando si era a pochi mesi dal primo congresso della terza a Mosca, che Lenin aveva già annunziata nelle tesi d'aprile del 1917.

È quasi flebile l'ordine del giorno politico. Sembra che il suo obiettivo sia solo di adottare il programma «di azione politica immediata» per far proprie le rivendicazioni nelle quali il partito si è lasciato precedere dalle altre organizzazioni. A titolo di premessa a questo tema, si introduce la richiesta della Repubblica socialista e della Dittatura proletaria, precisandone, in modo per nulla felice, gli «scopi» in quattro punti, dai quali subito si ripassa agli altri quattro del programma immediato, o minimo che sia. Questa la prima voce ufficiale del decantato «massimalismo», parola non felice che anche noi in un primo tempo usammo nel senso che si considerava di essere in uno svolto storico in cui la lotta aveva per oggetto le conquiste massime, ossia la presa rivoluzionaria del potere, lasciando da parte le minime che potevano ottenersi anche dal potere borghese tradizionale prima della sua caduta.

È bene riportare il molto debole documento:

«La Direzione, nel deliberare un programma di azione politica immediata, constata anzitutto come ormai gli elementi responsabili della presente situazione cerchino rifarsi la perduta reputazione cogliendo dal patrimonio delle rivendicazioni proletarie alcuni postulati più noti, che oggi ritiene non più sufficienti a soddisfare le ardenti aspirazioni del proletariato colpito dai mali della guerra e anelante all'emancipazione internazionale della propria classe, nonché a rispondere al dovere di solidarietà coi socialisti di Russia e di Germania;

dichiara quindi che il Partito Socialista, pronto a sostenere quelle rivendicazioni che le circostanze imporranno e saranno reclamate dalle organizzazioni proletarie, si propone come primo obiettivo l'istituzione della Repubblica Socialista e la Dittatura del proletariato coi seguenti scopi:

1)        - Socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio (terra, miniere, industria, ferrovie, piroscafi) con la gestione diretta dei contadini, operai, minatori, ferrovieri e marinai;

2)        - Distribuzione dei prodotti eseguita esclusivamente dalla collettività a mezzo degli enti cooperativi e comunali;

3)        - Abolizione della coscrizione militare e disarmo universale in seguito all'unione di tutte le Repubbliche proletarie nell'Internazionale Socialista;

4)        - Municipalizzazione delle abitazioni civili e del servizio ospedaliero; trasformazione della burocrazia, affidata alla gestione diretta degli impiegati».

 

Ed ecco il programma immediato:

1.            Immediata smobilitazione dell'esercito;

2.        Ritiro immediato dei soldati dalla Russia rivoluzionaria;

3.            Diritto delle libertà fondamentali della vita civile;

4.            Amnistia per tutti i condannati per reati politici e militari.

 

Non è il caso di dedicare commenti ai quattro punti minimalisti, ma solo ai quattro indicati come «scopi» della dittatura proletaria.

Nel primo la «socializzazione», che è giusto porre dopo la conquista del potere, è presentata con formula non marxista ma corporativa e «immediatista», ossia come consegna dei mezzi di produzione in gestione alle categorie economiche, fino ai quasi farseschi ferrovieri e marinai. Vanamente da decenni e decenni Marx aveva indicato, perfino per i lavoratori della terra, il pericolo dei ricatti di una parte della società sulla società come un tutto.

Nel secondo punto si fa appello per la funzione di distribuzione ad enti già esistenti e nelle mani dei più volgari riformisti. Verrà più oltre la distinzione fra programmi economici immediati e finali della dittatura; per ora, la confusione delle idee è totale circa la successione di tempi dei programmi. In un programma massimo, è in primo luogo la dottrina che dev'essere salva, e va detto che, in un paese completamente borghesizzato, scopo della dittatura in materia dì distribuzione dei beni é l'abolizione del mercantilismo e del monetarismo. Tuttavia, la misura contingente potrebb'essere ammessa facendo salvo il controllo supremo del partito e dei consigli politici (Soviet) - di cui, come mostreremo, nulla o quasi si era ancora capito.

Il terzo punto comportava il problema della conquista internazionale del potere, in cui andava detto che la conquista dev'essere di tutti i paesi per passare in pieno alla socializzazione economica; ma, nelle fasi successive, prima del disarmo universale viene l'armamento militare del proletariato.

Il quarto punto nella prima parte è di un certo radicalismo per quanto riguarda la proprietà immobiliare urbana (tema non semplice), ma bambinesco addirittura in tema di riforma della burocrazia: la dittatura dei tipi in colletto duro e culo di cuoio, peste del tempo borghese!

Il partito, ufficialmente diretto dai rivoluzionari, finita la guerra parla tardi, e parla debole e stonato.

 

INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
ARTICOLI GUERRA UCRAINA
RECENT PUBLICATIONS
  • Il proletariato nella seconda guerra mondiale e nella
    Il proletariato nella seconda guerra mondiale e nella "Resistenza" antifascista
      PDF   Quaderno n°4 (nuova edizione 2021)
  • Storia della Sinistra Comunista V
    Storia della Sinistra Comunista V
  • Perchè la Russia non era comunista
    Perchè la Russia non era comunista
      PDF   Quaderno n°10
  • 1917-2017 Ieri Oggi Domani
    1917-2017 Ieri Oggi Domani
      PDF   Quaderno n°9
  • Per la difesa intransigente ...
    Per la difesa intransigente
NOSTRI TESTI SULLA "QUESTIONE ISRAELE-PALESTINA"
  • Israele: In Palestina, il conflitto arabo-ebreo ( Prometeo, n°96,1933)
  • Israele: Note internazionali: Uno sciopero in Palestina, il problema "nazionale" ebreo ( Prometeo, n°105, 1934)
  • I conflitti in Palestina ( Prometeo, n°131,1935)
  • Gli avvenimenti in Palestina (Prometeo, n°132,1935)
  • Israele: Fraternità pelosa ( Il programma comunista, n°21, 1960)
  • Israele: Il conflitto nel Medioriente alla riunione emiliano-romagnola (Il programma comunista, n°17, 1967)
  • Israele: Nel baraccone nazional-comunista: vie nazionali, blocco con la borghesia ( Il programma comunista, n°20, 1967)
  • Israele: Detto in poche righe ( Il programma comunista, n°18, 1968)
  • Israele: Spigolature ( Il programma comunista, n°20, 1968)
  • Israele: Un grosso affare ( Il programma comunista, n°18, 1969)
  • Incrinature nel blocco delle classi in Israele(Il Programma comunista, n°17, 1971)
  • Curdi palestinesi(Il Programma comunista, n°7, 1975 )
  • Dove va la resistenza palestinese? (I)(Il Programma comunista, n°17, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (II)(Il Programma comunista, n°18, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (III)(Il Programma comunista, n°19, 1977)
  • Il lungo calvario della trasformazione dei contadini palestinesi in proletari(Il Programma comunista, n°20-21-22, 1979).
  • In rivolta le indomabili masse sfruttate palestinesi ( E' nuovamente l'ora di Gaza e della Cisgiordania)(Il Programma comunista, n°8, 1982)
  • Cannibalismo dello Stato colonialmercenario di Israele(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Le masse oppresse palestinesi e libanesi sole di fronte ai cannibali dell'ordine borghese internazionale(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • La lotta delle masse oppresse palestinesi e libanesi è anche la nostra lotta- volantino(Il Programma comunista, n°13, 1982)
  • Per lo sbocco proletario e classista della lotta delle masse oppresse palestinesi e di tutto il Medioriente(Il Programma comunista, n°14, 1982)
  • La lotta nazionale dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Sull'oppressione e la discriminazione dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°19, 1982)
  • La lotta nazionale delle masse palerstinesi nel quadro del movimento sociale in Medioriente(Il Programma comunista, n°20, 1982)
  • Il ginepraio del Libano e la sorte delle masse palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1984)
  • La questione palestinese al bivio ( Il programma comunista, n°1, 1988)
  • Il nostro messaggio ai proletari palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1989)
  • Una diversa prospettiva per le masse proletarie (Il programma comunista, n°5, 1993)
  • La questione palestinese e il movimento operaio internazionale ( Il programma comunista, n°9, 2000)
  • Gaza, o delle patrie galere (Il programma comunista, n. 2, 2008)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • A Gaza, macelleria imperialista contro il proletariato ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • Il nemico dei proletari palestinesi è a Gaza City ( Il programma comunista, n°1, 2013)
  • Per uscire dall’insanguinato vicolo cieco mediorientale (Il programma comunista, n° 5, 2014)
  • Guerre e trafficanti d’armi in Medioriente (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • Gaza: un ennesimo macello insanguina il Medioriente-Volantino (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • L’alleanza delle borghesie israeliana e palestinese contro il proletariato (Il programma comunista, n°6, 2014)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario  ( Il programma comunista, n°3, 2021)
  • A fianco dei proletari e delle proletarie palestinesi! ( Il programma comunista, n°5-6, 2023)
  • Il proletariato palestinese nella tagliola infame dei nazionalismi ( Il programma comunista, n°2, 2024)
We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.