DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

"Ammesso che, senza nessun carattere di 'eternità' anche nel senso giuridico, il proletariato giunto al potere di un paese capitalistico a pieno sviluppo debba promulgare una Carta, essa non potrà parlare di Popolo, ma parlerà di Classe. Forse parlerà anche di Diritti nel senso, sempre passeggero, in cui Marx li prevede per il periodo inferiore del socialismo, in cui saranno copia del diritto borghese, come puro espediente di gestione sociale. Ma saranno diritti di classe, legati alla presenza nello Stato di una sola classe, ossia quella dei proletari senza riserva di lembi di proprietà e di capitale, e quindi escludendo i piccoli possessori e produttori, anche se possono cadere sotto le espressioni generiche di lavoratori e di sfruttati, in quanto nella società capitalista ogni piccolo gestore economico è sfruttato dagli strati sovrastanti, ed anche il piccolo dal grande capitalista; e permangono nell'agricoltura quanto nella manifattura forme miste di lavoro, capitale e proprietà, in cui in non pochi casi lo sfruttamento è più intenso che per il salariato puro, e per grandi strati di salariati puri" (1)

 

Grandezza della Costituzione del 1918

Redigere una costituzione del tipo che, coerentemente al marxismo, viene indicato nella citazione precedente non era tuttavia concesso, nel 1918, a una dittatura come quella bolscevica che era bensì politicamente proletaria, ma, esercitando il potere conquistato in un'area capitalisticamente arretrata (anzi, in larga misura precapitalistica), doveva assolvere sul piano economico non i compiti propri di un proletariato vittorioso "in un paese capitalistico a pieno sviluppo", ma quelli che sarebbero stati propri di un proletariato al timone di una "dittatura democratica degli operai e dei contadini" – compiti borghesi anche se svolti "fino in fondo", come mai lo sarebbero stati per forza propria né dalla grande né dalla piccola borghesia. Ma la grandezza della Costituzione del 10 luglio 1918, che Lenin volle fosse preceduta dalla celebre "Dichiarazione del popolo lavoratore e sfruttato", sta nell'essere tutta proiettata nel futuro come dichiarazione di guerra sia al passato feudale-autocratico che l'Ottobre rosso ha distrutto (o che la dittatura bolscevica va distruggendo), sia al presente capitalistico che non può evitar di costruire, ma al cui superamento lavora con audacia ineguagliabile e con sovrana chiarezza teorica; sta nell'essere non tanto una codificazione del divenuto (e mai una sua idealizzazione), quanto la proclamazione di un divenire di cui indicano sin dall'inizio gli scopi massimi e finali.

Certamente, "il diritto non può essere più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale, da essa determinato, della società" (2). Ma la Costituzione del 1918 parla il linguaggio di un Partito che rinnegherebbe se stesso se, come settore (e reparto avanzato) del movimento comunista mondiale, non si proponesse apertamente (punto 3 della "Dichiarazione") "di sopprimere qualsiasi forma di sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo [sfruttamento che dunque non è cessato], di abolire per sempre la divisione della società in classi [divisione che dunque non è stata né poteva essere soppressa], di reprimere senza pietà gli sfruttatori [dei quali dunque non si cela l'esistenza], di instaurare l'organizzazione socialista della società [che dunque è ancora lontana] e di assicurare la vittoria del socialismo in tutti i paesi [vittoria che non c'è; e si tratta di promuoverla col massimo impegno, ben sapendo che solo grazie ad essa si potrà "passare" in senso proprio "al socialismo"]; e se non dedicasse tutte le sue energie di partito rivoluzionario e classista a rendere possibile in futuro l'attuazione di questi compiti di principio, malgrado i limiti oggettivi posti per ora alla sua azione da ben precise e vincolanti condizioni materiali.

Questo partito sa e non nasconde che, "territorialmente, per non dire nazionalmente", la sua lotta per le finalità ultime del comunismo si svolge nel perdurare della divisione della società in classi, del rapporto salariale per il proletariato e di condizioni di sfruttamento per l'esercito immenso di piccoli e piccolissimi produttori agricoli in Russia, e del dominio della borghesia nel resto del mondo, e che "l'organizzazione socialista della società" per la quale si batte avendola dinnanzi come bussola in tutto il suo tormentato cammino ha per presupposto il trionfo, non locale o nazionale, ma internazionale, della rivoluzione proletaria.

Sa e non nasconde che il proletariato russo, esclusa dai diritti politici la classe ancora esistente ed economicamente operante degli sfruttatori, non ha come obiettivo immediato di "instaurare il socialismo", ma di costruirne le premesse materiali promuovendo il passaggio del paese, a marce forzate e su scala generale, da modi di produzione precapitalistici o addirittura patriarcali al capitalismo pieno – controllato e diretto, ma pur sempre capitalismo – nelle città e nelle campagne. Sa e non nasconde che la sua dittatura poggia necessariamente su due classi, anche se assegna alla seconda un peso politico nettamente inferiore alla prima (inferiorità ben espressa dal "voto plurimo" dell'operaio in confronto al contadino): sa quindi di dover anche promulgare un corpus juris, alcuni dei cui articoli vanno oltre le esigenze di tutela delle condizioni di vita e di lavoro dei salariati, per invadere la sfera di quei diritti personali che sono inseparabili dall'esistenza della proprietà privata o, quanto meno, dalla gestione aziendale privata dei mezzi di produzione e, su un'area immensa del territorio, dall'esistenza dell'appropriazione privata dei prodotti; retaggi, questi, del persistere di altre classi, "trascinata dietro di sé" dal proletariato la classe contadina, "repressa senza pietà" la classe degli sfruttatori. Ma considera questa situazione come transitoria, una realtà che non si può far a meno di subire ma alla quale non ci si arrende, trattandosi di superarla – cosa possibile solo internazionalmente – prima sciogliendo il binomio operai-contadini e trasformando tutti i suoi componenti in proletari puri, poi riducendo i proletari alla semplice condizione di produttori, membri di una "società di specie", e non "persone private". Lungi dall'istituzionalizzare lo stato di fatto eternandolo in una moderna "tavola della legge", la Costituzione del 1918 ne scavalca dunque i confini necessariamente angusti; non lo proclama stabile e duraturo, meno che mai lo erige a "socialista".

Rivoluzionaria sia nelle formulazioni di principio sia nella codificazione di compiti centrali e diritti periferici (gli uni e gli altri transeunti) e redatta in assoluta coerenza con la dottrina marxista, essa, non potendo ancora avere per soggetto una classe, ha per soggetto il popolo, il che la apparenta formalmente alle costituzioni borghesi classiche; ma, a differenza di queste, il suo non è "il popolo in generale", bensì "il popolo lavoratore e sfruttato", doppia qualifica che sola conferisce cittadinanza piena nella Repubblica dei Soviet, mentre la nega a chi sfrutti il lavoro altrui. Consapevole che l'emancipazione reale e definitiva del lavoro e, con esso, del genere umano ha per presupposto indispensabile la soppressione di ogni rapporto di sfruttamento sia del salariato puro sia del contadino povero, e non solo la fusione di quest'ultima figura sociale nella prima, ma il superamento della stessa figura di salariato, essa stabilisce, in funzione della lotta per realizzarla, una serie di "diritti" – provvisori, come è provvisoria la prima fase di una rivoluzione duplice, e pubblici, come ribadirà Lenin, anche se formalmente privati. E ne fa partecipi in varia misura soltanto i protagonisti, nelle città e nelle campagne, di questa storica lotta.

Nei suoi paragrafi, non accade mai che venga presentato come socialismo in atto l'insieme di "interventi dispotici" nei rapporti di proprietà e nell'economia che la dittatura rossa ha preso o si dispone a prendere – la nazionalizzazione della terra, delle grandi industrie, delle aziende agricole a lavoro associato, del sistema bancario ecc., il controllo delle imprese ancora in mano a privati e così via. Queste misure sono altrettanti strumenti dell'azione politica, a raggio e respiro internazionale, della dittatura esercitata dal partito comunista, e altrettante condizioni materiali del futuro passaggio al socialismo; ma non si pretende che vadano oltre il modo di produzione capitalistico, di cui anzi sono l'espressione allo stato puro e completo. Anche in ciò è la sua grandezza; perciò noi marxisti, che neghiamo a qualunque costituzione la capacità di determinare il destino delle classi e, a maggior ragione, dell'umanità, vi andiamo a reperire l'immagine riflessa – ma fedele – del cammino della marxista "rivoluzione in permanenza" rigorosamente seguito passo per passo nell'area che prima la vide realizzarsi nella storia.

 

Vergogne della Costituzione del 1936

La costituzione del 1936 (3) sta a quella del 1918 come la notte al giorno, cioè come lo stalinismo al "leninismo". E "la differenza dialettica fra i due testi è che nel 1918 il socialismo è lo scopo che deve essere raggiunto dallo Stato proletario; ed è questa la costituzione della dittatura, la costituzione veramente rivoluzionaria; nel 1936, il 'socialismo' è dato come conquista realizzata, la costituzione diviene un fatto statico, si dichiara stabilmente democratica, ed è, all'opposto [del 1918], l'espressione storica e giuridica di una situazione conservatrice" (4).

Questo triplice carattere di staticità, di affermata stabilità demopopolare, di conservazione dello status quo, da una parte, e l'etichetta menzognera di "socialismo" su un ordine economico e sociale inequivocabilmente borghese, dall'altra, fanno della Costituzione del 1936 l'involucro sovrastrutturale tagliato su misura della controrivoluzione staliniana, con tutto ciò che di grossolanamente mistificatorio le appartiene in proprio.

Fra gli obiettivi che nel 1918 il Partito annunziava in modo tutt'altro che retorico d'essere deciso a perseguire, e "allo scopo fondamentale di raggiungere i quali" definiva negli articoli della "Legge fondamentale dell'RFSSR" le misure economiche immediate della dittatura, la struttura del potere centrale e locale, i diritti politici, civili e sociali dei cittadini della Repubblica dei Soviet in quanto membri del "popolo lavoratore e sfruttato" ecc., scompare dall'orizzonte della Costituzione del 1936 quello di "assicurare la vittoria del socialismo in tutti i paesi" – logica conseguenza della nuovissima dottrina varata da Stalin, secondo cui il "socialismo" è edificabile "in un solo paese" avanzato o arretrato, e i destini della "patria socialista" non dipendono più dalle sorti del movimento comunista e operaio mondiale, ma le sorti di questo dipendono dai destini di quella. A rendere sorpassati gli altri obiettivi provvedono a loro volta quelle che l'art. 4 chiama "liquidazione del sistema capitalista nell'economia" ed "eliminazione dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo" – due formule che, se le parole conservano un senso pur nel più orribile pasticcio ideologico, equivalgono a decretare già varcate le soglie almeno del "comunismo inferiore" secondo Marx, ma che non impediscono ai Padri Costituenti di proclamare nell'art. 1: "L'URSS è uno Stato socialista degli operai e dei contadini", non curandosi affatto dell'assurdo teorico di parlare di società socialista, e 1) ammettere che sia composta almeno di due classi, anche formalmente (ma vedremo che lo sono pure essenzialmente) distinte; 2) dichiarare compatibile con essa – ma è l'altra faccia di una sola medaglia – l'esistenza di una macchina politica coercitiva, lo Stato. Essi annunziano l'avvenuto sviluppo e consolidamento dei "soviet dei deputati dei lavoratori" in seguito "all'abbattimento del potere dei proprietari fondiari e dei capitalisti e alla vittoria della dittatura del proletariato" (art. 2); un lettore sprovveduto potrebbe dedurne che la "dittatura del proletariato" abbia politicamente vinto, rafforzando le conquiste dell'Ottobre, in attesa di poter completare il suo ciclo come transizione dal capitalismo al socialismo. Senonché, ad ulteriore conferma che nel "socialismo inferiore" si sarebbe già entrati, l'articolo 4 proclama: "La base economica dell'URSS è costituita dal sistema socialista dell'economia", non curandosi affatto di conciliare questa formula non meglio specificata con l'esistenza nell'URSS della caratteristica che, secondo Marx, basta da sola a definire il modo di produzione capitalista: il fatto che i prodotti siano, su scala generale, prodotti come merci e che, merce essendo la stessa forza lavoro, sussista il lavoro salariato (5).

Non è nelle forme giuridiche che il marxismo cerca i protagonisti, le forze agenti e determinanti, del passaggio da un modo di produzione all'altro: "sono i rapporti economici regolati da concetti giuridici – ammonisce Marx – oppure non derivano, al contrario, i rapporti giuridici da quelli economici?” (6). Nella loro strapotenza, i ronds de cuir (gli impiegati, i travet) della felice era staliniana hanno un bell'affibbiare alla "proprietà dei mezzi e strumenti di produzione" il marchio "socialista": il passaggio al socialismo non è questione di bolli, e su di esso le forme di proprietà non dicono nulla finché non si risponde al quesito sulla natura di rapporti economici che ne costituiscono la base. Non lo direbbero neppure se risultasse esistente in Russia, su scala generale (il che non è), la statizzazione o nazionalizzazione o, per usare la terminologia mistificata di lor signori, la socializzazione dei mezzi di produzione, perché è vero che non esiste socialismo senza preventiva avocazione allo Stato (poi alla società) della terra e dei mezzi di produzione in genere, ma non è vera la reciproca, cioè che la loro nazionalizzazione significhi ipso facto socialismo (non ci ha forse abituati il capitalismo a vederlo nazionalizzare o statizzare a tutto spiano, non solo senza cambiar pelle, ma rafforzando il suo giogo sulla classe operaia?); e, finché i prodotti hanno la forma di merci e il lavoro ha la forma di lavoro salariato, niente comunismo, nemmeno "inferiore".

Poiché tuttavia le forme di proprietà sono un derivato, e da esse si può risalire a ciò da cui derivano, fate che la sovrastruttura giuridica parli il suo linguaggio, ed essa narrerà il romanzo, sia pure "in cifra", anche della struttura economica russa. Ascoltiamola.

 

Quale struttura economica sta dietro la sovrastruttura giuridica?

Socialista (allo stadio sia "inferiore" che "superiore" del comunismo) è un modo di produzione sociale unitario nelle città e nelle campagne – la divisione e, a maggior ragione, l'antagonismo fra esse è infatti cessato – , cui corrispondono un'unica forma di disposizione sociale (come meglio si tradurrebbe il termine "proprietà sociale") dei mezzi di produzione e un'unica forma di appropriazione e distribuzione dei prodotti. Il modo di produzione vigente in Russia si riflette per contro in due forme diverse di proprietà dei mezzi di produzione e di appropriazione dei prodotti; l'una corrisponde all'area urbana, l'altra all'enorme maggioranza dell'area rurale, due aree diverse e, lo si vedrà, contrapposte; l'una è pubblica – per usare la terminologia dell'art. 5, è "proprietà statale (bene pubblico)" – , l'altra non è pubblica, quindi è privata; per usare la stessa terminologia, è "proprietà cooperativa e kolchoziana (proprietà dei singoli kolchoz, proprietà delle associazioni cooperative)", dunque proprietà di "persone giuridiche", del tutto simili alle società anonime del buon tempo borghese. A questa si affianca, solo nelle campagne ovviamente, una terza forma di proprietà, anch'essa privata, e non più anonima ma personale o familiare:  la "proprietà personale dell'azienda ausiliaria relativa all'appezzamento di terreno attinente alla casa che ogni nucleo familiare kolchoziano ha in godimento personale, della casa di abitazione, del bestiame di produzione, degli animali da cortile e dei piccoli attrezzi agricoli" (art. 7). I "beni" e "servizi" forniti dalle fabbriche, dalle miniere, dalle officine, dai mezzi di comunicazione e trasporto e dalle (minoritarie) grandi aziende agricole a lavoro associato (7) – beni e servizi che, ricordiamolo, hanno forma di merci e sono prodotti di lavoro salariato – appartengono non alla società, come nel socialismo (in cui d'altra parte non sarebbero merci, e non sarebbe merce pagata in salario la forza-lavoro), ma allo Stato; quelli forniti dalle aziende agricole kolchoziane appartengono in proprio  "ai singoli kolchoz", (8) che ne dispongono come meglio piace loro, in parte consumandoli, in parte offrendoli sul mercato; quelli forniti dai "piccoli appezzamenti in godimento personale" e relativa azienda sussidiaria appartengono alle singole famiglie contadine, che li consumano o li scambiano con prodotti (merci) del settore statale, o contro la merce-equivalente generale, il denaro.

La terra, in teoria, appartiene integralmente allo Stato, ed è "bene pubblico" (art. 6),cosa che, per Marx, è perfettamente compatibile con un modo di produzione capitalistico, è anzi l'ideale dei borghesi-imprenditori. Ma, statale nelle città e nell'area minoritaria dei sovkhoz, non lo è più nella stragrande maggioranza del territorio agricolo, dove è assegnata ai kolchoz e, rispettivamente, ai nuclei familiari che li compongono "in godimento gratuito e per una durata illimitata, cioè in perpetuo" (che delizia, per i grandi e piccoli borghesi, una proprietà che non si chiama tale ma che, in compenso, non conosce canoni d'affitto, livelli, censi, ipoteche e simili, e non c'è il rischio che si estingua perché il diritto sovietico, e lo Stato suo esecutore, ne garantisce la perpetuità!). Non solo dunque non si è in regime economico e sociale socialista, perché sulla terra si producono merci, e alla sua salvaguardia veglia non la società ma lo Stato; non si è neppur più in regime di dittatura del proletariato, essendo svanita una della grandi conquiste dell'Ottobre, la nazionalizzazione integrale del suolo.

Nel "comunismo inferiore" secondo Marx, appartengono alla società tutti i mezzi e strumenti di produzione e le appartengono tutti i prodotti del lavoro: beni sociali i primi (l'aggettivo "pubblico" non ha più senso), beni sociali i secondi. A disposizione (meglio che "in proprietà") personale dei singoli – in base al tempo di lavoro erogato per la società nel comunismo inferiore, secondo i bisogni nel comunismo pieno – restano i soli "beni di consumo"; ed essi infatti li consumano, punto e basta. Nello strano “socialismo sovietico”, i mezzi di produzione e lo stesso suolo sono invece proprietà  o  dello Stato, o di aziende "collettive" agricole, o di aziende rurali personali e familiari; i prodotti usciti come merci dalla loro combinazione con forza-lavoro salariata appartengono allo Stato o alle suddette aziende, che ne dispongono a piacere; i "cittadini" ottengono bensì in "proprietà personale" i loro beni "di consumo e comodo" (9), ma attraverso lo scambio sul mercato e contro denaro: tutelati dalla legge sono il loro diritto "sui proventi del proprio lavoro e sui propri risparmi" (ve lo immaginate, lo "scontrino" di Marx che si deposita in banca e frutta interessi?) e il loro "diritto di eredità" (ve la immaginate, la trasmissione ereditaria degli scontrini sotto il comunismo inferiore, del pane o delle scarpe sotto il comunismo pieno?) (10).

Gli stessi "cittadini dell'URSS" si suddividono infine, come il territorio economico è diviso in città e campagna, in salariati "nei centri industriali" e nelle "grandi aziende agricole organizzate dallo Stato", e in salariati-azionisti-proprietari nel mosaico sterminato dei kolchoz, giacché i membri di questi ultimi ricevono: 1) un salario per il tempo di lavoro erogato sui fondi comuni, 2) una quota sugli utili annui dell'azienda "collettiva", 3) il frutto integrale della terra in godimento personale da essi lavorata e dell'azienda in proprietà personale costruita su di essa. Cioè, riassumono in una le tre figure classiche dell'economia capitalistica.

Tutte le categorie della società borghese sono dunque presenti; nessuna di quelle proprie della società socialista (11). Ciò non impedisce ai Soloni dell'era staliniana, tergendosi il sudore per la fatica sostenuta nel redigere i primi articoli della Costituzione dell'URSS, di proclamare instaurato il comunismo inferiore in Russia tramite il 12° lapidario articolo: "Nell'URSS si attua il principio del socialismo: 'Da ciascuno le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro'"!

Summa summarum: anche secondo la Costituzione 1936, i cittadini dell'URSS non risultano uniformemente equiparati né come semplici produttori in una società di specie grazie all'avvento di un socialismo non soltanto di etichetta, né come proletari grazie all'avvento di una dittatura del proletariato in grado di portare a termine i propri compiti economici e sociali; risultano divisi in classi distinte e contrapposte conformemente ad una diversa collocazione nel processo produttivo. Sfruttato, come lavoratore, dal grande capitale industriale concentrato nello Stato; truffato e ricattato, come consumatore, dalle aziende collettive e cooperative e dalle aziende familiari agricole dalle quali provengono i suoi mezzi di sussistenza quotidiani; sommerso nella gelatina informe del popolo in cui si pretende che ogni individuo sia eguale all'altro; soprattuto defraudato delle finalità programmatiche, internazionali e comuniste, che di lui facevano per decreto storico il becchino del capitalismo, il proletariato russo 1936 non è più né il protagonista di una dittatura proletaria pura, né la "guida" e la "classe egemone" di una dittatura democratica degli operai e dei contadini nel senso previsto da Lenin: è l'ultima ruota del carro di un modo di produzione capitalistico, la classe senza riserve di una società grande-e-piccolo borghese. Alla gelosa e feroce conservazione di quest'ordine antisocialista e controrivoluzionario non può non presiedere un gigantesco apparato oppressivo e repressivo, lo Stato: la sua difesa è tutto ciò che si propone il partito falsamente comunista dell'URSS, e chiede di proporsi – "nel rispetto della loro sovranità e autonomia" – ai non meno falsi “partiti fratelli" in tutto il mondo.

In piena coerenza, ma col pretesto dell'alto grado raggiunto dalla trasformazione sociale, dell'avvenuta abolizione dello sfruttamento, della cessata divisione della società in classi, ecc., la Carta costituzionale del 1936 sopprime il "voto plurimo" a favore dei salariati d'industria e di agricoltura rispetto ai contadini poveri ma non nullatenenti; riconosce a tutti i cittadini, per definizione "tutti lavoratori", il suffragio universale, eguale, diretto e segreto. Siamo fra i pochissimi a darVi ragione, Maresciallo Stalin: era questa, davvero, la "costituzione più democratica del mondo"!

 

Cinismo e franchezza della nuova Costituzione

La costituzione 1936 era il rovescio dialettico della costituzione 1918; quella di cui il superdecorato segretario generale del PCUS ed ora anche capo di Stato dell'URSS annunzia prossima la ratifica non poteva essere che il prolungamento, sulla stessa linea, della Magna Carta staliniana.

Fra le due corre un intervallo di 41 anni, durante i quali la struttura economica e sociale rispecchiata dalla prima si è via via consolidata, mentre la sua sovrastruttura politica, statale, giuridica subiva riforme che altrove abbiamo definite "di rinculo" e che erano tutte intese ad adeguarla ad una realtà sempre più generalizzata di capitalismo pieno. I rapporti giuridici seguono con ritardo la dinamica dei rapporti economici: se la Costituzione 1977 è ancor più democratica di quella che pur era "la più democratica del mondo" quarantun anni prima, gli è che nel frattempo è avanzata con gli stivali delle sette leghe quella che in linguaggio krusceviano e brezneviano si chiama "democratizzazione dell'economia", cioè un processo – senza dubbio contraddittorio ma, nell'insieme, rettilineo – di esaltazione nell'industria come già nell'agricoltura "dell'azienda-proprietaria, responsabile contrattuale, che ha un fondo suo e lo amministra in bilancio di partita doppia, e non si dibatte che per aumentarlo" (12); e di correlativo dilagare di "autonomie" regionali e provinciali, locali e personali, e di frammentazione del "piano centrale" di Stalin in una miriade di piani centrifughi. Un aggiornamento della Costituzione 1936 si imponeva, non perché, come ha preteso Breznev, "il socialismo si è trasformato in un sistema mondiale e le posizioni del capitalismo si sono sostanzialmente indebolite", né perché, come schiamazza il Preambolo al sacro testo, "l'unità sociale e politica della società sovietica, il cui elemento motore è la classe operaia, si è consolidata"; ma al contrario, perché il "sistema mondiale del capitalismo", lungi dall'essersi indebolito, ha sempre più attratto nella sua orbita i paesi cosiddetti socialisti, ormai simili ad esso come gocce d'acqua, e "l'unità sociale e politica" dell'immenso paese, il cui frutto più maturo si vuole sia "una comunità storicamente nuova: il popolo sovietico", è così poco unitaria che i nuovi Padri Costituenti si affannano ad illustrare i passi avanti compiuti nel processo di "avvicinamento fra le classi e di gruppi sociali" e (cap.3) il ruolo svolto dallo Stato nel "rafforzare l'omogeneità sociale della società, sopprimere le disparità esistenti fra città e campagna, fra lavoro intellettuale e manuale" – mentre noi, leggendo non fra le righe di codici, statuti e leggi fondamentali, ma nel libro aperto della struttura economica e sociale russa, siamo certi che il corso storico dell'URSS allontana sempre più  "le classi e i gruppi sociali" e rende sempre più dispari le "disparità" così candidamente denunciate, chiedendo a gran voce, da un lato, la codificazione di quanto è avvenuto e avviene, dall'altro la sua mistificazione in chiave socialista.

Dice il Preambolo: "una volta portati a termine i compiti della dittatura del proletariato, lo Stato sovietico è divenuto lo Stato di tutto il popolo". In buona dottrina marxista, chiuso "il periodo politico di transizione" fra la società capitalistica e la società socialista, "il cui stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato" (13), si è nel "comunismo inferiore" o "socialismo": non esistono più classi, non esiste più stato; esiste, caso mai – ed è tutto – , "un ingranaggio" tecnico centrale (nella formula del Programma di Livorno del Partito Comunista d'Italia, 1921) "di razionale amministrazione delle attività umane". I novelli Soloni decretano per contro: "Art. 1. L'URSS è lo Stato socialista di tutto il popolo, che esprime la volontà e gli interessi della classe operaia, dei contadini e dell'intelligentsia di tutti i popoli e gruppi etnici del paese", cioè ribadiscono l'esistenza dello Stato, l'esistenza di tre classi (non più soltanto due come sotto Stalin: e quale poteva essere la terza, se non la classe degli "uomini di cultura", supremo fiore e ineguagliabile profumo del "popolo"?), l'esistenza non già della società collettivista di Marx, ma di "tutto il popolo", l'immane, grigia poltiglia in cui l'ideologia democratica (e Iddio con essa) vuole che gruppi, classi, volontà, interessi diversi ecc., seppur sussistono, armonicamente "si avvicinino", diventino "omogenei", addirittura si fondano. Affianchiamo le due Costituzioni del 1936 e del 1977: un passo avanti nella professione di fede borghese-democratica, un passo avanti nell'abiura anche formale del marxismo.

Cinicamente, la Costituzione staliniana assegnava "tutto il potere" ai "lavoratori delle città e delle campagne". Costretta ad essere insieme cinica e sincera, la Costituzione brezneviana lo assegnava, al modo delle costituzioni borghesi classiche, "a tutto il popolo": coerentemente, i soviet cambiano appellativo: sono "i soviet dei deputati del popolo" (art. 2). Con altrettanta coerenza, "il Partito comunista dell'Unione sovietica esiste", non per e al servizio delle finalità storiche della classe operaia, di cui si ammette l'esistenza con "volontà e interessi" propri, ma "per il popolo e al servizio del popolo" (art. 6), giusto giusto come per Carrillo, Marchais, Berlinguer.

Che razza di "sistema economico" sta alle spalle di un sì glorioso Stato? All'art.9 è ribadita la divisione della "proprietà socialista" anzitutto in due grosse fette: 1) la proprietà dello Stato, che diventa, logicamente, "di tutto il popolo", 2) la proprietà non più "di tutto il popolo" ma dei soli kolchoz ed altre organizzazioni cooperative, che non soltanto, dai tempi di Kruscev, ha divorato una fetta sussidiaria della prima, le stazioni di macchine e trattori (non più di Stato, come per l'art. 6 della costituzione 1936, ma dei kolchoz), ma è ora completata dalla "proprietà dei sindacati e altre organizzazioni sociali" – a proposito dei quali sindacati, visto che si pretende inaugurato il socialismo, è lecito chiedersi chi mai difenderebbero contro chi, e, se ci si rispondesse che sono gli enti preposti ai compiti assistenziali e previdenziali di una "società collettivista" alla Marx, come mai dispongano di una loro proprietà, distinta da quella "di tutto il popolo" (14). Che poi, in seno alla seconda grossa fetta di proprietà, esistano, e la loro esistenza sia nuovamente sancita, la casa, e l'azienda sussidiaria in proprietà personale delle famiglie kolchoziane o dei kolchoziani... scapoli, il cui lavoro si esercita sui piccoli appezzamenti in usufrutto personale gratuito e perpetuo, è superfluo aggiungere. L'art.12 proclama, certo, che "i beni appartenenti in proprio o dati in godimento ai cittadini non possono essere utilizzati per ricavarne redditi non provenienti dal loro lavoro o a detrimento della società"; ma il punto è che questi "redditi" di origine e destinazione non sociale ma personale ci sono, ed è noto che gli appezzamenti dei kolchoziani sono bensì "piccoli", ma altamente produttivi, e non solo sfamano la famiglia, ma danno vita a un lucroso commercio.

 

Antagonismi persistenti ed esaltazione delle autonomie

Codicillo non irrilevante. L'art. 11 precisa che "lo Stato contribuisce a sviluppare la proprietà kolchoziana e ad avvicinarla alla proprietà di Stato": confessa in tal modo che fra le due persiste un radicato antagonismo e che il grande capitalismo russo continua a dibattersi fra l'aspirazione a tagliare le unghie ad una forma economica retrograda come il kolchoz e l'esigenza di mantenerla in vita come potente leva di conservazione sociale (15), per cui l'impulso dato in anni recenti ai sovchoz ha dovuto essere pagato a prezzo di continui, pesanti aiuti finanziari per la meccanizzazione dei kolchoz, e dell'abbandono delle terre migliori a favore di questi ultimi, in rapida espansione e concentrazione da tempo. Non vorremo ripeterci osservando che dalle aziende sulle due grosse fette di proprietà "socialista" escono merci, su di esse si esercita lavoro salariato (o combinato con lavoro di proprietari-coltivatori e partecipazione agli utili aziendali), e dunque si è in pieno capitalismo. Ma notiamo altresì che, codificando un processo più che decennale, la nuova Costituzione, al suo capitolo 2, art. 15, dà forma stabile al gioiello moscovita dernier cri, l'azienda industriale autonoma anche sotto il profilo finanziario, con la sua brava contabilità delle entrate e delle uscite, dei costi di produzione e dei profitti – profitti la cui "massimizzazione" è stata indicata anche al XXV congresso del PCUS, specialmente da Kossighin, come l'obiettivo-principe della "ristrutturazione dell'industria" e della ricerca della "competitività" delle merci nazionali. Occorre proprio ricordare che il comunismo, sia pure inferiore, non conosce bilanci di perdite e profitti e, se terrà una sua registrazione (mai aziendale, sempre e soltanto generale), sarà solo dei bisogni della collettività umana e dei beni e servizi prodotti per soddisfarli – beni e servizi misurati in termini non monetari ma esclusivamente fisici o "morali", valori d'uso e non valori di scambio?

La persona fisica o giuridica, individuo o azienda, con nome e cognome o anonima, sta al centro del modo di produzione e quindi della società capitalistici. Più essa è riconosciuta e celebrata, più la ridda dei suoi diritti, dei suoi privilegi, delle sue autonomie diviene frenetica. È quindi naturale che la nuova costituzione allarghi il raggio di azione e competenza della stalinista "piccola azienda privata dei contadini non associati e degli artigiani", estendendola (art. 17) al settore "dei servizi ed altri tipi di attività fondati esclusivamente sul lavoro individuale dei cittadini e dei membri delle loro famiglie", e così istituzionalizzando il pulviscolo di piccoli e piccolissimi laboratori di meccanica, officinette di riparazione e manutenzione, impresucce di installazione di appartamenti ecc., che nascono come inevitabile fungaia sulla base del mercato e la cui esistenza è riconosciuta dalla stessa stampa moscovita. Così si dilata sempre più il guscio entro il quale il sacrosanto Io borghese svolge le sue potenzialità innumerevoli, dà sfogo alla sua "immaginazione creatrice", "sviluppa armoniosamente la sua personalità" e, soprattutto, si isola dal proprio simile, si barrica contro il resto del mondo, ruota intorno a se stesso e alla sede del suo spirito, il cranio, se ne infischia della "comunità storicamente nuova" del suo paese, figurarsi poi di quella al di là dei confini nazionali.

Poiché d'altra parte l'altamente idealistica morale borghese vuole che "l'espansione della personalità" e il fiore della "cultura" abbiano come molla suprema il più meschino degli interessi materiali, quello che luccica in moneta sonante, ecco che (art. 13) "lo Stato, combinando gli incentivi materiali [quattrini] e morali [le decorazioni sul petto degli eroi della produttività del lavoro, i titoli, i diplomi], contribuisce a fare del lavoro il primo bisogno vitale di ogni Sovietico" – questo bipede implume il cui grado di coscienza socialista è tanto elevato da non saper gustare la marxista "gioia del lavoro" se non gli si offre in più, oltre alla biada corrente, lo zuccherino! Tappato nel suo regno domestico, il cittadino dell'URSS ha quindi ben ragione di levare inni ad uno Stato che gli promette (nel cap.7 sui "diritti fondamentali, le libertà e i doveri dei cittadini sovietici") "la protezione della giustizia contro gli attentati alla sua vita e alla sua salute, ai suoi beni [occorre dire che i famosi risparmi e il celebre diritto di eredità del 1936 sono solennemente riconfermati?] e alla sua libertà, al suo onore e alla sua dignità". Casa e famiglia; beni ed onore; aggiungiamo patria. Manca solo chiesa – verrà, verrà! - perché l'intero sancta sanctorum dell'ideologia, dell'etica e, prima ancora, dell'economia borghesi sia ricostruito.

Ma allora lo stesso "piano centrale dell'economia" voluto da Stalin e dalla sua costituzione va a farsi friggere anche sulle pagine in lussuosa pergamena della nuova Carta costituzionale. L'autonomia finanziaria delle aziende, dalla più gigantesca delle imprese di Stato alla più minuscola azienda kolchoziana, dalla più ricca impresa familiare agricola alla più miserella bottega artigiana e "terziaria" cittadina, è il corrispettivo della sua autonomia di produzione e di pianificazione del prodotto: ciascuna badi ai fatti suoi e Iddio provveda a tutte – con gran gioia dei teorici immediatisti, trotzkisti, maoisti, titoisti e simili "dell'autogestione". Già Kruscev aveva dato il via alla pianificazione non più centrale ma regionale, provinciale e aziendale; i suoi demolitori sono stati ancor più realisti dello spodestato e poi defunto re di tutte le Russie, talché non esiste più nessun piano centrale che non sia semplicemente orientativo e indicativo o, come si direbbe da noi, "di massima", e questo rincorre faticosamente, rimanendo sempre nella polvere, i mille piani periferici, mentre i laboratori di statistica, per quanti "incentivi materiali e morali" ricevano, non riescono più a raccapezzarsi nel groviglio di piani quinquennali, settennali, decennali, annuali in reciproca contraddizione, l'uno accavallato all'altro e, alla fine, smentito dalla miriade di piani aziendali e locali. La Costituzione si limita quindi a codificare uno stato di fatto, quando scrive che "la gestione dell'economia è fondata sui piani di Stato di sviluppo economico, sociale e culturale... combinanti la direzione centralizzata con l'autonomia e l'iniziativa economica delle imprese, dei gruppi e di altre organizzazioni". E poiché una simile "gestione dell'economia" può generare soltanto un caos pianificato (16), i novelli Soloni non possono che istituire (art. 162) una suprema corte arbitrale, al fine di "dirimere le controversie economiche fra organizzazioni, amministrazioni, imprese". Era staliniana dell'accumulazione primitiva di capitale in Russia, sei ben finita! Ai tuoi giorni di ferro e fuoco, lo Stato era il primo motore dell'economia, l'alfa e l'omega della produzione (almeno nell'industria): ora si è ridotto, come ogni Stato borghese che si rispetti – o che non debba per motivi di emergenza gestire direttamente l'economia in crisi, salvo riconsegnarla bell'e risanata alle "persone" private o aziendali autonome di un tempo – , a semplice arbitro fra migliaia di primi motori indipendenti della produzione, ad ansimante conciliatore  e mediatore  di diritti ben decisi a farsi valere e di interessi ben decisi ad imporsi – crepi pure il "prossimo" e vada in malora la collettività "socialista"!

Affianchiamo le Costituzioni 1936 e 1977: anche sul terreno economico, si è fatto un ulteriore passo avanti nella professione di fede borghese e democratica, un nuovo passo da gigante nell'abiura totale del marxismo.

 

La più perfetta delle democrazie

Le costituzioni vanno giudicate non per come sono scrupolosamente osservati, dai rispettivi autori e discendenti, i loro articoli, ma per quello che affermano, rispecchiano, insegnano; per ciò che elevano a modello. Se così non fosse, sarebbe un gioco da ragazzi irridere – come i gazzettieri occidentali irridono la costituzione 1977 in URSS – le pur grandiose costituzioni del 1793 in Francia e del 1776 in America, o il corpo di decreti emanati (alla informale maniera britannica) da Cromwell, quando un "partito unico", poco importa se chiamato così oppure "comitato di salute pubblica" o "esercito parlamentare" o che altro, scriveva armi in pugno le tavole della legge di una società che pur voleva pluralistica, calpestava quotidianamente i "diritti dell'uomo e del cittadino" che pur proclamava eterni, ignorava bellamente il responso delle urne (se mai le consultava), mandava a casa o in gattabuia il parlamento (se pur lo tollerava), senza che, guardando all'aureo passato della società borghese, nessun presidente USA e nessun pennivendolo nostrano vi abbia da ridire o vi trovi di che scandalizzarsi.

Per quello che solo agli occhi bendati della moderna intellettualità borghese può sembrare un assurdo paradosso ed una beffa atroce, il partito borghese dittatoriale unico, conculcatore di ogni diritto democratico e santificante la ghigliottina, era la premessa necessaria dell'instaurazione  della democrazia e sarà più tardi il presupposto della sua conservazione in anni di gravi crisi: così come, in posizione capovolta, il partito comunista dittatoriale unico alla testa di una sola classe e al comando di uno Stato sarà la premessa necessaria della transizione ad una società senza classi e senza stato, quindi anche (Engels e Lenin dissero) senza democrazia.

Noi dunque prendiamo per oro colato tutto ciò che la nuova Costituzione “sovietica” stabilisce in materia non solo di diritti civili, politici e sedicentemente umani, ma di consultazione democratica, referendum, controlli popolari, dibattiti pubblici, "presa in considerazione sistematica dell'opinione pubblica", partecipazione popolare alla gestione dello Stato, diritto di voto; l'intero armamentario di "strutture" che fanno la delizia di radicali, demo-proletari, gauchistes, cogestionari, patiti della "democrazia operaia", ecc. Il "partito comunista dell'URSS", non più guida della classe operaia rivoluzionaria mondiale, ma servo zelante dell'accumulazione capitalistica nazionale e dello Stato borghese russi, è il veicolo dell'introduzione di questo apparato di perfetta democrazia. Non può non esserlo, dal momento che lo è già, nella pienezza delle sue funzioni ancillari, in campo economico. Salutate dunque, o borghesi occidentali e uomini di cultura al vostro seguito, la più recente e la più democratica di tutte le democrazie, nascente al di là della fu cortina di ferro!

Il suo padre e maestro, il PCUS, non ha più da annunziare nemmeno per burla le finalità internazionali rivoluzionarie della costituzione redatta da Lenin nel 1918: non conosce che una sua "politica estera", basata sui principi al lattemiele della più pura democrazia, anzi socialdemocrazia: rifiuto del ricorso alla forza o alla minaccia, eguaglianza sovrana, inviolabilità delle frontiere, integrità territoriale, regolamento pacifico delle controversie, non-ingerenza negli affari interni, rispetto delle "norme riconosciute del diritto internazionale", cooperazione interstatale, coesistenza pacifica, competizione, mutui commerci, libertà dei mari, "divisione internazionale socialista del lavoro", accesso indisturbato al mercato mondiale. Riconoscete in lui, o borghesi di qualunque sacrestia, un partito-fratello.

La vostra progressiva ammissione della natura capitalistica della Russia cosiddetta socialista e sovietica non può non seguire alla serie progressiva di confessioni dei suoi dirigenti. Ad essi noi riserbiamo, come nel 1957, un "orrore più fiero di quello che ispiravano i riformisti dell'Ottocento". (17)

 

Note

(1) Struttura economica e sociale della Russia d'oggi (edizione integrale, con altri testi sullo stesso argomento), Milano, Edizioni Il programma comunista, 1976, p. 327.

(2) Marx, Critica del programma di Gotha, commento al par.3.

(3) Sorvoliamo sulla Costituzione del 31 gennaio 1924 che appartiene ad un periodo di trapasso e, se anticipa sotto certi aspetti quella del 1936, non rinnega però quella del 1918, e in ogni caso rivendica fra i compiti dello Stato operaio quello di "preparare l'unione dei lavoratori di tutti i paesi in una Repubblica socialista mondiale", benché veda questo compito in un'ottica da "fronte unico contro l'accerchiamento capitalistico" della Russia rivoluzionaria, come vuole il nascente stalinismo.

(4) Le grandi questioni storiche della rivoluzione in Russia, ora riprodotto nella già citata Struttura, cit., p. 41.

(5) "Ciò che caratterizza l'epoca capitalistica è che la forza lavoro assume per il lavoratore stesso la forma di una merce a lui appartenente, e perciò il suo lavoro assume la forma del lavoro salariato. D'altra parte, solo da questo momento la forma merce dei prodotti del lavoro si generalizza" (Marx, Il Capitale, Libro I, cap. IV, nota 41).

(6) Marx, Critica del programma di Gotha, sempre al punto 3.

(7) L'art. 6 aggiunge "le banche": socialiste?!

(8) A scanso di equivoci, l'art.7 ha infatti cura di definire "proprietà collettiva socialista dei kolchoz e delle organizzazioni cooperative" non solo "le loro aziende collettive con le proprie scorte vive e morte, nonché le loro costruzioni d'uso collettivo", ma anche "la produzione da esse fornita".

(9) Fra i beni "in proprietà personale" c'è "la casa di abitazione" con relativi "oggetti dell'economia domestica", di cui dispone "ogni nucleo familiare kolchoziano", anzi,  in teoria, addirittura ogni cittadino. Casa e famiglia: ecco il nuovissimo credo... socialista alla Stalin, versione aggiornata del “casa mia, mio castello” come massimo ideale dell'individualismo borghese, simbolo dell'arroccarsi della "persona" entro le pareti del suo guscio – suo prolungamento nello spazio e, grazie al diritto di eredità dei frutti del sudato risparmio, anche nel tempo – di fronte all'infuriare della "guerra di tutti contro tutti"!

(10) Secondo Marx (Critica del programma di Gotha, punto 4), 1) "all'interno della società collettivista i produttori non scambiano i loro prodotti", come invece fanno nella Russia "socialista"; 2) "nessuno può dare nulla all'infuori del proprio lavoro e, d'altra parte, nulla può passare in proprietà del singolo all'infuori dei mezzi di consumo individuali", laddove nella Russia "socialista" ben altro vi passa. Che senso, poi, avrebbero il risparmio e la trasmissione ereditaria, quando è la società stessa che attinge dal "prodotto sociale complessivo", fra le altre cose, tutto il necessario per la "soddisfazione di bisogni collettivi, come scuole, istituzione sanitarie ecc.", per il mantenimento degli "inabili al lavoro", e come "fondo di riserva o di assicurazione contro infortuni, danni causati da eventi naturali ecc." (punto 3)?

(11) L'art. 11 inoltre dice: "La vita economica dell'URSS viene determinata e diretta da un piano statale dell'economia", altra conferma – secondo Stalin – della natura socialista del modo di produzione "sovietico". Come se il capitalismo, ormai da molto tempo, non pianificasse; come se la possibilità, limitata, è vero, di una sua pianificazione non fosse stata prevista in dottrina da Marx e da Engels, e come se, d'altra parte, la pianificazione sovietica non trovasse un limite invalicabile nella produzione per aziende e nella facoltà di queste ultime di disporre in modo autonomo della loro produzione, del resto autonomamente "pianificata". E in quale "piano statale" infilare la produzione commerciale della "piccola azienda privata dei contadini non associati e degli artigiani, fondata sul lavoro personale ed escludente lo sfruttamento del lavoro altrui", prevista dall'art.9 "accanto al sistema socialista dell'economia, che è la forma economica dominante nell'URSS"?

(12) Struttura, cit., p.673: vedi anche pp. 675-680.

(13) Marx, Critica del programma di Gotha, A. "Base liberale dello Stato".

(14) Malignamente ma non troppo, ci permettiamo di supporre che i sindacati sovietici siano divenuti la copia conforme dei sindacati "occidentali", che possiedono banche, compagnie di assicurazione, alberghi, immobili, e via discorrendo: sono delle potenze finanziarie!

(15) È questo un tema svolto ampiamente nella III parte della Struttura economica e sociale, e ripreso in studi recenti di partito, come “Il mito della 'pianificazione socialista' in Russia”, in "Quaderni del Programma Comunista", nr. 1/1976; vedi anche una serie di articoli apparsi nel 1976 in "Il programma comunista", due dei quali sono appunto intitolati Il colcos, pilastro di conservazione in Russia.

(16) Rimandiamo, per una documentazione di fatto, al già citato articolo “Il mito della 'pianificazione socialista' in Russia”.

(17) Struttura, cit., p. 675.

                                                                    (Il programma comunista, n.14/1977)

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