DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Nel 1975, a distanza di trenta anni dalla fine della guerra, il nostro Partito tracciò un lungo e articolato bilancio, sul piano della teoria, della storia e della tattica, di quel movimento popolare che era stata la lotta partigiana contro fascismo e nazismo, la Resistenza. Sono passati altri decenni, e non è inutile riprendere quel discorso per rileggerlo anche alla luce degli avvenimenti successivi.

È forse necessario modificare l’interpretazione che allora davamo dell’antifascismo, delle lotte partigiane, della Resistenza, del mito di una rinata “giustizia e libertà”, alla luce delle conferme della nostra dottrina, in un mondo che vede fiamme di guerra levarsi da ogni parte? E mentre si inaspriscono tensioni sociali a stento trattenute da enormi apparati statali, la cui funzione principale è quella di rendere incomprensibile o perfino gradevole al proletariato il suo stato di asservimento e di prostrazione al meccanismo produttivo che muove il capitale?

Nel 1975, i sopravvissuti alla Repubblica di Salò e i loro “figli spirituali” trovavano buon gioco per invitare gli italiani a un rinnovato “patto di pacificazione”, con i buoni uffici della Democrazia Cristiana (quello precedente, firmato nell’agosto 1921, era stato consumato tra i fascisti della prim’ora e il partito socialista dei Nenni, dei Treves, dei Modigliani). Ma trent’anni prima, nel 1945, a guerra appena conclusa con la vittoria antifascista, già i costituzionalisti stalinisti, con alla testa il ministro di Grazia e Giustizia Palmiro Togliatti e d’intesa con i loro padrini clericali e massoni, avevano spalancato le porte delle galere ai fascisti e si proponevano come garanti della ricostruzione dell’economia e della società. Non avveniva ciò in nome di una pacificazione nazionale, magari non ancora attuata, ma da creare a ogni costo, in ossequio a quella spartizione del mondo postbellico decisa e voluta non sulle Alpi o sugli Appennini, ma a Washington, a Mosca e a Londra? E non era forse, tutto ciò, da ottenere attraverso libere consultazioni democratiche, sapientemente dirette dall’uno e dall’altro “polo” di allora, come fanno gli odierni “poli”, divisi a parole e alleati nei fatti, i fatti della ricostruzione dell’Italia, con i dollari d’oltre oceano e sulla pelle del proletariato indigeno?

Prima ancora, l’antifascismo partigiano si era mobilitato nella Guerra di Spagna, con plotoni di legionari rossi al servizio del rublo. Il tutto finì col bagno di sangue di militanti autentici, fuorviati e illusi da varie propagande di regime che avevano sostituito la lotta di classe con la lotta tra varie ragioni di stato e tra vertici governativi – pronte tuttavia a trasformarsi dall’oggi al domani in accordi, anche questi “di pacificazione”, come quello firmato alla vigilia della Seconda guerra mondiale tra Molotov e von Ribbentrop.

E, in un momento ancora precedente, alla metà degli anni Venti, l’antifascismo si era riconosciuto negli accordi stretti fra partiti dell’arco democratico per salvare l’apparenza delle  libertà costituzionali, quando si temette che il Parlamento, cui in tanti aspiravano anche da sinistra, si trasformasse davvero in un “bivacco di manipoli” – dimenticando che in Russia, qualche anno prima, un anonimo soldato con la stella rossa aveva semplicemente spalancato una certa porta a Pietrogrado e detto a un tale che faceva funzione di presidente dell’Assemblea Costituente (il parlamento russo nato in seguito alla rivoluzione democratica di febbraio 1917): “Finito il Consiglio; tornatevene a casa, alla svelta” (come ci racconta John Reed nei Dieci giorni che sconvolsero il mondo). È precisamente ciò che tutti i resistenti costituzionalisti di ieri e di oggi rimproverano aspramente alla Rivoluzione Russa: anticostituzionale, dittatoriale e, soprattutto, internazionale.

Quell’antifascismo italico, riconoscono i suoi odierni apologeti, avrebbe dovuto affidarsi alle più che ambigue organizzazioni militari che furono gli Arditi del Popolo, veri gruppi partigiani ante litteram, nei cui programmi non si potrà mai riconoscere alcunché di autenticamente classista, ma piuttosto l’assenza totale di programmi politici, la confusione di apporti ideologici totalmente estranei al movimento comunista, con atteggiamenti e posizioni che oscillavano tra il dannunzianesimo, il sindacalismo rivoluzionario, il futurismo e lo sciovinismo (1).

 

Quei progetti di difesa e di rinnovo dello Stato borghese di cento, settanta, quaranta anni fa, sono ormai portati a termine, con fascisti all’acqua di rose che hanno rivendicato eredità gramsciane e stalinisti di pelo nuovo o riciclato che rivendicano a ogni piè sospinto l’onore dell’italianità, della cultura tricolore, della difesa del patrio suolo, della produzione e del commercio italiano nel mondo. Ex fascisti, ex stalinisti, tutti pentiti, dentro il grande calderone della democrazia parlamentare, il cui gracidare si fa tanto più acuto quanto più si avvicina l’ennesima scadenza elettorale, nel gran gioco della ridistribuzione di incarichi e di moneta sonante.

In questo torbido scenario, c’è tuttavia ancora qualcuno che parla, sempre a vanvera, di classi sociali, e addirittura di lotta di classe. Sono i superstiti del movimento extraparlamentare, generalmente rimescolati nel “movimento dei movimenti”, in qualche frangia no-global, o attratti da questa o quella figura di maggiore o minore notorietà mediatica. Costoro sono gli smunti eredi dell’arditismo del primo  dopoguerra,  cioè  dell’interclassismo  un  po’  mascherato  che  urla  a  squarciagola  di “libertà conculcate”, di “pericoli fascisti” ad ogni stormir di foglie, ma mai e poi mai vuole ficcare il naso nel problema di fondo, che è quello delle ragioni storiche delle classi sociali, del loro ruolo nel processo produttivo, del loro insanabile (ancorché non sempre palese) contrasto.

Che cosa hanno avuto, o hanno oggi, da dire costoro sulla Resistenza antifascista? Per noi, questa è una valida cartina al tornasole per saggiare la dimensione dell’adesione al terreno rivoluzionario. È solo infatti nel rifiuto totale e completo dei programmi resistenziali che si sperò, alla fine della guerra, di muovere i passi in direzione di una rinnovata organizzazione autenticamente rivoluzionaria; perché è chiaro che principi e fini dei comunisti vanno in direzione opposta a quelli, dichiarati o no, che sono propri del blocco interclassista che animò la Resistenza.

Alcuni di questi nostalgici considerarono la Resistenza come un processo storico che avrebbe portato l’Italia a concludere quella rivoluzione che la borghesia non fu in grado di portare a termine nei cent’anni prima, e che avrebbe potuto essere realizzata solo dal “popolo in armi”. La Resistenza dunque doveva essere una “questione di popolo” (e, nella misura e nel poco in cui ciò contò, lo fu veramente, con la partecipazione di tutti gli strati sociali alleati), che avrebbe costruito, per la prima volta nella storia, una vera unità italiana. Solo in seguito l'alleanza con la borghesia e la piccola borghesia sarebbe stata spezzata rivolgendo poi le armi contro l'alleato del momento, per impadronirsi del potere: ma forze ostili – gli eserciti alleati sul patrio suolo, il tradimento opportunista dei capi di partiti operai ecc. – si sarebbero opposte, impedendo quello che, per questi illusi, sarebbe dovuto essere il corso naturale della storia postbellica. Questo è il gruppo che, più o meno esplicitamente, si richiama alla concezione gramsciana del fascismo.

Per alcuni altri, che si rifanno allo stalinismo, la Resistenza avrebbe rappresentato quel “vuoto di potere” (la caduta del fascismo doveva aprire una fase favorevole per una lotta tesa alla conquista del potere politico) dentro il quale il popolo in armi avrebbe potuto spostare i rapporti di forza, sostenuto dall'appoggio della Russia stalinista, la "Patria socialista". In quest'ultima, si vedeva agire non una spietata ragion di stato, com'era in realtà, ma ancora la tradizione rivoluzionaria del '17, che era invece crollata sotto il peso delle sconfitte interne (la distruzione di ogni opposizione rivoluzionaria che culminò nella tragica farsa dei processi ai "trotzkisti" della metà degli anni Trenta) e soprattutto internazionali – sconfitte dei moti rivoluzionari in Germania prima, in Cina poi.

Né d’altra parte quel pulviscolo di resistenti armati, alla cui azione oggi ancora si sono richiamati alcuni che vedono il processo rivoluzionario come un qualche cosa di sempre attuale purché ci sia un fucile pronto, avrebbe potuto ottenere alcunché anche sul piano militare, come dimostrò la storia di quegli anni. Partiti gli eserciti liberatori lasciandosi alle spalle il profumo di dollari e sterline, a liquidare ogni improbabile rivolta ci avrebbe pensato Stalin (e non mancarono accordi e rassicurazioni in tal senso con gli alleati anglosassoni in partenza). In sua assenza, a eliminarli ci pensò il PCI (qualcuno si ricorda ancora di quei gruppi che, illudendosi, si impadronirono tra fine della guerra e 1947 di caserme, di municipi, di interi villaggi, attendendo un cenno da Roma per una rivoluzione che, laggiù, nessuno voleva?). In altri casi, per una dialettica necessità storica, se ne occupò il maresciallo Tito: si pensi ai "monfalconesi" che, in gruppi di centinaia, partivano per contribuire alla costruzione della "piccola patria socialista", quella jugoslava, in nome dell'Internazionale, proprio quando questa ormai era stata liquidata, e capiranno l'equivoco solo nell'inferno dei campi di Goli Otok e nelle galere di Fiume!

La vicenda resistenziale finì come doveva, cioè nel marasma interclassista. Questa è la lezione, amara perché costò altro sangue proletario ingannato, che dobbiamo trarre da quegli anni. Certamente, nella

 

storia non solo italiana, si ripresenterà l’ideologia resistenziale: cioè il tentativo di impedire al proletariato in armi di trovare la propria autonoma via per l’emancipazione sociale, che può solo passare attraverso la lotta contro tutte le classi sociali apertamente nemiche. Domani, i “resistenzialisti” gli si proporranno come alleati contro qualche “governo assolutista e antidemocratico” che salta sempre fuori dal cappello antifascista quando il proletariato avanza le proprie autonome bandiere.

Il disfattismo comunista, che diede esempi luminosi nel secondo decennio del Novecento, era indirizzato tanto contro la democrazia borghese dei Giolitti, dei Nitti, dei Facta (allegri massacratori di proletari né più né meno dei loro predecessori e di quelli che li seguiranno) quanto contro il totalitarismo repressivo fascista. E ciò perché il comunismo del XX secolo – in Europa allora, in tutto il mondo oggi – non ha più all’ordine del giorno alleanze col nemico di classe per abbattere imperi feudali e teocrazie assolutiste, ma la demolizione di tutto l’ordinamento sociale borghese e, quindi, dell’intero meccanismo di sopraffazione che ne costituisce i presupposti economici. Questo nostro comunismo non ha perciò nulla da rivendicare sul piano della difesa di “patrie”, di “confini”, di “prodotti nazionali”, di tradizioni tricolori.

La “Resistenza” significò interclassismo interno, alleanza con le borghesie anglosassoni, politica di intese con alcune frange della borghesia nazionale. Non poteva condurre ad altro che a una vasta operazione di polizia interna, mantenendo intatto l’apparato produttivo precedente.

Il proletariato rivoluzionario non inviterà a nessuna “resistenza”, perché non ha nulla da difendere in questa società, ma ha tutto da abbattere. Esso instaurerà la propria dittatura per schiacciare la classe avversa e riorganizzare l’economia e la società tutta: ma non avrà Stati da ricostruire, perché la sua rivoluzione sarà internazionale e metterà la parola fine a ogni Stato nazionale. Esso non farà blocchi con altre classi, perché la sua rivoluzione sarà la fine di ogni classe.

Come scrivevamo nel 1949, sulle pagine di quello che allora era il nostro organo di stampa: “Il partigiano è quello che combatte per un altro, se lo faccia per fede per dovere o per soldo poco importa. Il militante del partito rivoluzionario è il lavoratore che combatte per se stesso e per la classe cui appartiene. Le sorti della ripresa rivoluzionaria dipendono dal poter elevare una nuova insormontabile barriera tra il metodo dell’azione classista di partito e quello demoborghese della lotta partigiana” (2).

Riprendere in mano la “questione” della “Resistenza antifascista” significa dunque continuare a ribattere chiodi fondamentali (teorici, politici, tattici) del comunismo rivoluzionario, perché le generazioni future di militanti sappiano sempre meglio riconoscere i suoi eterni nemici e dunque attrezzarsi per combatterli.

 

Note

1 Per un’analisi precisa e un bilancio politico definitivo di quello che fu il movimento degli Arditi del Popolo, cfr. il IV volume della nostra Storia della sinistra comunista, in particolare il Cap. III.

2 “Marxismo o partigianesimo”, in Battaglia comunista, n. 14/1949.

INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
ARTICOLI GUERRA UCRAINA
RECENT PUBLICATIONS
  • Il proletariato nella seconda guerra mondiale e nella
    Il proletariato nella seconda guerra mondiale e nella "Resistenza" antifascista
      PDF   Quaderno n°4 (nuova edizione 2021)
  • Storia della Sinistra Comunista V
    Storia della Sinistra Comunista V
  • Perchè la Russia non era comunista
    Perchè la Russia non era comunista
      PDF   Quaderno n°10
  • 1917-2017 Ieri Oggi Domani
    1917-2017 Ieri Oggi Domani
      PDF   Quaderno n°9
  • Per la difesa intransigente ...
    Per la difesa intransigente
NOSTRI TESTI SULLA "QUESTIONE ISRAELE-PALESTINA"
  • Israele: In Palestina, il conflitto arabo-ebreo ( Prometeo, n°96,1933)
  • Israele: Note internazionali: Uno sciopero in Palestina, il problema "nazionale" ebreo ( Prometeo, n°105, 1934)
  • I conflitti in Palestina ( Prometeo, n°131,1935)
  • Gli avvenimenti in Palestina (Prometeo, n°132,1935)
  • Israele: Fraternità pelosa ( Il programma comunista, n°21, 1960)
  • Israele: Il conflitto nel Medioriente alla riunione emiliano-romagnola (Il programma comunista, n°17, 1967)
  • Israele: Nel baraccone nazional-comunista: vie nazionali, blocco con la borghesia ( Il programma comunista, n°20, 1967)
  • Israele: Detto in poche righe ( Il programma comunista, n°18, 1968)
  • Israele: Spigolature ( Il programma comunista, n°20, 1968)
  • Israele: Un grosso affare ( Il programma comunista, n°18, 1969)
  • Incrinature nel blocco delle classi in Israele(Il Programma comunista, n°17, 1971)
  • Curdi palestinesi(Il Programma comunista, n°7, 1975 )
  • Dove va la resistenza palestinese? (I)(Il Programma comunista, n°17, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (II)(Il Programma comunista, n°18, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (III)(Il Programma comunista, n°19, 1977)
  • Il lungo calvario della trasformazione dei contadini palestinesi in proletari(Il Programma comunista, n°20-21-22, 1979).
  • In rivolta le indomabili masse sfruttate palestinesi ( E' nuovamente l'ora di Gaza e della Cisgiordania)(Il Programma comunista, n°8, 1982)
  • Cannibalismo dello Stato colonialmercenario di Israele(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Le masse oppresse palestinesi e libanesi sole di fronte ai cannibali dell'ordine borghese internazionale(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • La lotta delle masse oppresse palestinesi e libanesi è anche la nostra lotta- volantino(Il Programma comunista, n°13, 1982)
  • Per lo sbocco proletario e classista della lotta delle masse oppresse palestinesi e di tutto il Medioriente(Il Programma comunista, n°14, 1982)
  • La lotta nazionale dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Sull'oppressione e la discriminazione dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°19, 1982)
  • La lotta nazionale delle masse palerstinesi nel quadro del movimento sociale in Medioriente(Il Programma comunista, n°20, 1982)
  • Il ginepraio del Libano e la sorte delle masse palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1984)
  • La questione palestinese al bivio ( Il programma comunista, n°1, 1988)
  • Il nostro messaggio ai proletari palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1989)
  • Una diversa prospettiva per le masse proletarie (Il programma comunista, n°5, 1993)
  • La questione palestinese e il movimento operaio internazionale ( Il programma comunista, n°9, 2000)
  • Gaza, o delle patrie galere (Il programma comunista, n. 2, 2008)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • A Gaza, macelleria imperialista contro il proletariato ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • Il nemico dei proletari palestinesi è a Gaza City ( Il programma comunista, n°1, 2013)
  • Per uscire dall’insanguinato vicolo cieco mediorientale (Il programma comunista, n° 5, 2014)
  • Guerre e trafficanti d’armi in Medioriente (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • Gaza: un ennesimo macello insanguina il Medioriente-Volantino (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • L’alleanza delle borghesie israeliana e palestinese contro il proletariato (Il programma comunista, n°6, 2014)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario  ( Il programma comunista, n°3, 2021)
  • A fianco dei proletari e delle proletarie palestinesi! ( Il programma comunista, n°5-6, 2023)
  • Il proletariato palestinese nella tagliola infame dei nazionalismi ( Il programma comunista, n°2, 2024)
We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.