DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Le Tesi di Lione, che qui ripresentiamo, si situano in un momento cruciale del movimento operaio e comunista, che ci autorizza a considerarle insieme come un punto di arrivo e come un punto di partenza nella difficile e contrastata genesi del partito mondiale di classe del proletariato.

Presentate dalla corrente di sinistra del partito comunista d’Italia in contrapposto alle tesi della Centrale ormai semi-stalinizzata (1) al III Congresso del partito tenutosi a Lione nel gennaio 1926, esse seguono di pochi mesi quel XIV Congresso del partito russo che aveva visto la quasi totalità della vecchia guardia bolscevica, a cominciare da Kamenev e Zinoviev, insorgere in una rovente quanto improvvisa impennata sia contro “l’abbellimento della NEP” e il “contadini arricchitevi” dei “professori rossi” e di Bucharin, sia contro il soffocante regime interno di partito instaurato da Stalin; precede di appena un mese quel VI Esecutivo Allargato dell’Internazionale Comunista che, puntando tutti i cannoni di un’oratoria d’ufficio contro l’unica forza internazionale levatasi a denunziare la crisi profonda del Comintern – appunto la Sinistra “italiana” – e mettendola al bando, spianava anche la strada alla condanna dell’Opposizione russa nel novembre-dicembre. Il movimento internazionale comunista era giunto al suo fatale crocevia e, come al XIV Congresso del PCR i Kamenev, gli Zinoviev, la Krupskaja, avevano avuto coscienza di esprimere nelle loro parole l’insorgere di forze sociali e materiali in lotta nell’ambito dello Stato sovietico contro altre forze sociali e materiali obiettive mille volte più potenti degli individui alternatisi alla tribuna (non avevano essi condiviso con la direzione del partito, fino a pochi mesi e giorni prima, la responsabilità di una politica comune?), così sul piano internazionale la Sinistra nel redigere come sempre un corpo di tesi riguardanti non l’angusto confine della “questione italiana”, ma l’intero , mondiale campo della tattica comunista, sapeva di dar voce a un corso storico che, nel giro di pochi mesi, avrebbe avuto nome Cina e, per una rara e per molti anni unica convergenza di circostanze obiettive, Inghilterra – dunque un paese semicoloniale e la metropoli imperialistica per eccellenza.

Era l’anno della prova suprema, giacché dall’esito della titanica lotta degli operai e contadini cinesi e dei proletari britannici sarebbe dipeso, in ultima istanza, il destino della Russia sovietica e dell’Internazionale. L’Opposizione russa nel corso di quell’anno la terribile urgenza dei nodi venuti al pettine della storia e, superando antichi dissapori, Trotsky e Zinoviev (per citare soltanto due nomi) faranno disperatamente blocco contro le forze incalzanti della controrivoluzione; il primo in particolare muoverà, fino a tutto il 1927, una splendida battaglia, e ne uscirà battuto. Uscirà battuta, con l’Opposizione russa, la rivoluzione cinese, e sconfitto il grandioso sciopero britannico, uscirà distrutto l’intero movimento internazionale comunista. Per l’ultima volta a Mosca, in quel biennio l’internazionalismo proletario si batterà a corpo perduto contro l’accerchiatore esercito del “socialismo in un solo paese”, e quella battaglia rimarrà iscritta a caratteri indelebili nelle pagine destinate ad ispirare le generazioni future dell’avanguardia marxista. Ma l’Opposizione russa non potrà redigere, per consegnarlo all’avvenire, il bilancio generale di un corso storico iniziatosi – come si è visto – molto prima del 1926, e di cui l’estrema débacle era, almeno in parte, il prodotto; potrà denunziare il male, non curarlo alla radice. Non lo potrà, perché di quel corso essa stessa era stata corresponsabile e madrina, e alla croce di questa corresponsabilità Stalin e Bucharin potranno mille volte inchiodarla in polemiche astiose, ben sapendo di tenere ormai prigioniero nella rete tessuta in comune il grande antagonista.

Non così la Sinistra “italiana”: esile forza se paragonata alla posta internazionale in gioco, ma l’unica che da molti anni di gravi ammonimenti sulle conseguenze oggettive dell’eclettismo tattico del Comintern (ora per giunto coperto alle spalle dalla costrizione organizzativa, dal “terrore ideologico” e dal peso del potere statale) traesse non il diritto ma la capacità di derivare la lezione globale di un quinquennio, non alla fine ma all’inizio dell’anno decisivo (prima anzi; perché tutta la discussione precongressuale 1925 in Italia aveva fatto perno su questo tema) , e riconoscere nel fatto compiuto il fatto anticipatamente previsto. Sola contro tutti (Zinoviev in primis), al VI Esecutivo Allargato rimarrà anche sola nel chiedere che la “questione russa” (cioè la questione del “socialismo in un solo paese”, e del regime caporalescamente disciplinare instaurato dallo stalinismo per imporla a tutti i partiti del Comintern) fosse iscritta all’ordine del giorno di un congresso internazionale da tenersi con urgenza, svincolandola dal monopolio di discussione e decisione del partito bolscevico – ed è noto che la richiesta fu devoluta al Presidium, che ne “rimise” il dibattito all’orchestratissimo Plenum del novembre-dicembre e in tal modo l’archiviò, mentre il congresso si tenne solo due anni dopo sulle macerie di qualunque opposizione rivoluzionaria, e neppure vi fece cenno. D’altra parte, offrendo al movimento internazionale il suo corpo di tesi come piattaforma su cui erigere una soluzione organica e completa dei problemi tattici inquadrata in una visione non meno organica e completa dei loro presupposti programmatici, essa inseriva già la vitale questione russa, come un anello, in una catena infrangibile di questioni di vita o di morte dell’Internazionale, e così gettava le basi di un suo ritorno, su basi ancora più ferme, alle origini. Nel VII Esecutivo Allargato Trotsky avrà mille ragioni di dire che, puntando tutte le sue carte sulla rivoluzione mondiale, il partito bolscevico avrebbe potuto rimanere arroccato non per uno ma per cinquant’anni; sarebbe tuttavia stato possibile, lo stupendo “gioco”, senza – come disse la Sinistra – “capovolgere la piramide” (2) di un Comintern poggiante in modo pauroso sul vertice del partito russo in crisi; senza cambiare da cima a fondo il suo regime interno e, soprattutto, senza la revisione spietata di una tattica le cui svolte imprevedute e imprevedibili avevano prodotto tanti disastri? A questa domanda Trotsky non poté mai rispondere; o meglio, vi rispose ripercorrendo passo a passo, in ibrido connubio con la scintillante rivendicazione della rivoluzione permanente, l’accidentato cammino delle manovre elastiche.

Nella parte generale (e, a sua illustrazione, nei suoi corollari internazionali) delle Tesi di Lione, questa risposta generale c’è, la si accetti o la si respinga (e accettarla o respingerla si può soltanto in blocco, appunto perché rappresenta una soluzione generale). Sulla sua base la Sinistra poteva essere,e fu, schiacciata dal peso di rapporti di forza ormai pregiudicati; ma è certo che su di essa soltanto poteva risorgere; su di essa soltanto – vogliamo dire sulla base di una sistemazione non parziale ma globale delle questioni tattiche oltre che programmatiche e, per deduzione, organizzative – sarà possibile una ripresa internazionale del proletariato rivoluzionario e del suo partito.

E’ perciò che le Tesi di Lione, come sono un punto di arrivo nella storia degli anni ardenti 1919-1926, così sono un punto di partenza per l’oggi e il domani, in quanto rappresentano non il prodotto di secrezioni cerebrali di individui, ma il bilancio dinamico di forze reali scontratesi sull’arena delle lotte di classe nel periodo in cui tutto un secolo di battaglie rivoluzionarie si condensò, e mise alla prova del fuoco la saldezza dei partiti comunisti nel tener fede, senza mai deviare, ai suoi insegnamenti. Il marxismo non sarebbe nulla se non sapesse (come ha saputo in Marx e in Lenin) convertire perfino la sconfitta in premessa di vittoria. E’ qui il senso profondo ed attuale delle nostre tesi del 1926.

E’ quindi importante sottolineare come tutti i fili della lunga battaglia sostenuta dalla Sinistra in seno all’Internazionale convergano e si annodino nelle Tesi di Lione, e come da queste si possa ripercorrere a ritroso il cammino fino al 1920, per trovare la saldatura fra lo svolgersi di quella battaglia e la successione degli eventi storici di cui esse furono il bilancio dinamico – e anticipatore di corsi futuri.

Nel movimento socialista internazionale, la Sinistra – come documentano i volumi I e I bis della nostra Storia – era stata senza possibilità di contestazione l’unica a schierarsi di fronte alla guerra mondiale sulle stesse posizioni di principio ardentemente difese da Lenin e dall’esile pattuglia della “sinistra di Zimmerwald”.

Era stata, quindi , allo scoppio della rivoluzione di Ottobre e nel biennio successivo, la sola a dare ai fini e ai mezzi della dittatura bolscevica e del suo organo dirigente, il partito russo, un’adesione sostanziale e di principio del suo ben diversa da quella formale, generica e ispirata dall’entusiasmo del momento, che dettò le conversioni di 180 gradi della maggioranza del partito socialista francese o i repentini accostamenti del massimalismo internazionale demagogico e confusionario anche nell’ipotesi migliore della sincerità dei suoi “capi”. Era stata la sola, dalla fine del 1918 in poi, a dichiarare pregiudiziali ad uno scioglimento rivoluzionario della crisi postbellica la rottura irrevocabile non solo con la destra, ma con l’ancora più infido centro, e la formazione del partito comunista sulle basi che il II Congresso dell’Internazionale Comunista fisserà nel 1920.

Non stupisce perciò che – come abbiamo visto – a quel congresso la Sinistra, intervenuta senza mandato ufficiale come semplice “corrente” del PSI, non solo non opponesse alle fondamentali tesi sul ruolo del partito nella rivoluzione proletaria, sulle condizioni di costituzione dei Soviet, e sulle questioni nazionale e coloniale,sindacale e agraria, nessuna delle obiezioni che i rappresentanti delle delegazioni ufficiali invece sollevarono (o tacquero solo per ripresentarle dopo, al ritorno in patria o in sede di successivi congressi mondiali), ma desse un contributo decisivo alla formulazione delle vitali condizioni di ammissione all’Internazionale Comunista, insistendo perché fossero rese ancor più rigide e, soprattutto, non lasciassero aperti il pericoloso spiraglio degli adattamenti alle “situazioni locali”.

Ma nel quadro di questa battaglia comune e solidale per erigere “barriere insormontabili” al riformismo in seno all’Internazionale Comunista, v’era sin d’allora nelle direttive che la Sinistra invocava per tutto il movimento quell’esigenza di globalità, di carattere “chiuso”, in ogni formulazione – riguardasse il programma o il modo di organizzarsi dei partiti aderenti – di cui le Tesi di Lione saranno la rivendicazione definitiva, e quasi lapidaria.

Tale esigenza, come non nasceva dal cervello di un singolo ma dall’accumularsi di esperienze di lotta nell’Occidente in regime di democrazia piena (con gli inevitabili codazzi riformista e centrista), così si affermò con vigore polemico non per “lusso teorico” o per scrupolo di integrità morale o di perfezione estetica, come poi si disse, ma per motivi squisitamente “pratici” (nel senso, beninteso, che per il marxismo teoria e azione sono termini dialetticamente inseparabili). Essa era dettata da una sana preoccupazione non tanto del presente – cioè di una fase storica tuttavia lontana dall’aver esaurito le sue potenzialità rivoluzionarie – quanto del futuro, con particolare riguardo a quell’Europa occidentale e centrale che a buon diritto era considerata la chiave di volta della strategia mondiale comunista, ma in cui il processo di maturazione delle premesse soggettive della rivoluzione – prima fra tutte quella del partito – era in ritardo sul processo di sviluppo delle premesse oggettive, e si svolgeva nel quadro di contingenze storiche atte a favorire, molto più che la chiarezza, la confusione teorica e, sul piano organizzativo, la disorganicità e l’inefficienza. Nell’oggi, urgeva dare al movimento proletario in pieno slancio una guida mondiale centralizzata e, sotto il fermo polso del partito di Lenin e Trotsky, le lacune di formule relativamente “aperte” e perfino “elastiche” potevano sì rappresentare un rischio, ma calcolato, e forse inevitabile. Ma che cosa sarebbe avvenuto domani, se e quando l’ondata gigantesca fosse regredita e, nel rabbuiarsi delle prospettive di rapida marcia in avanti, il pericolo – per usare una frase di Trotsky – di “recidiva socialdemocratica”, ben più grave nelle fasi di rinculo che alla vigilia della insurrezione, fosse divenuto attuale, riportando a galla e lasciando filtrare nel movimento le scorie non assimilate né espulse del riformismo? A guerra ormai lontana, a rivoluzione forse vicina, era facile ai Cachin o ai Chrispien, con la stessa prontezza con cui, sei anni prima, erano passati nel campo della difesa nazionale e della guerra imperialistica, accettare le tesi dell’Internazionale Comunista, “il potere dei Soviet”, “la dittatura del proletariato”, “il terrore rosso”; ma, esauritesi le spinte oggettive di cui la loro adesione era il prodotto inconscio e involontario, la frattura non sarebbe divenuta (come divenne) voragine? Di più: la stessa Internazionale sarebbe stata al riparo, oltre che dalla pressione esterna di congiunture negative, da quella che le Tesi di Lione chiameranno “la ripercussione che sul partito hanno i mezzi stessi della sua azione, nel gioco dialettico di cause ed effetti”?

Un filo ininterrotto lega dunque il 1920 al 1926; e questo spiega come le Tesi di Lione, riprendendo i temi di allora, ampliandoli e dando loro una sistemazione definitiva e generale, abbiano potuto e possano ancora offrirli a generazioni più tarde, carichi del bilancio reale della loro conferma pratica. Gli anelli della nostra catena dialettica sono già allora precisi: siano unici, noti a tutti e per tutti vincolanti, la dottrina, il programma, il sistema delle norme tattiche; sarà unica, quindi disciplinata ed efficiente , l’organizzazione. Sicuro nel possesso di queste che sono le condizioni della sua esistenza, il partito sarà in grado di preparare se stesso e il proletariato alla soluzione rivoluzionaria della crisi della società capitalistica, senza pregiudicare, nelle alternative di riflusso di tale crisi, le possibilità di ripresa. Allentate prima le maglie della catena, teorizzate poi questo allentamento: e avrete perduto tutto, le potenzialità di vittoria nelle situazioni montanti e le potenzialità di risalita nelle situazioni calanti. Avrete distrutto il partito, che è l’organo della rivoluzione se e in quanto abbia previsto in una salda continuità teorica e pratica “come accadrà un certo processo quando certe condizioni si verificheranno” ( Lenin nel cammino della rivoluzione, 1924) e “che cosa dovremo fare nelle varie ipotesi possibili sull’andamento delle situazioni oggettive” (Tesi di Lione, parte generale).

La storia della III Internazionale è, purtroppo, anche la storia di come si uccide il partito, pur non volendolo, pur agendo con la miglior intenzione di salvarlo. Il 1926 è l’anno del “socialismo in un solo paese” con tutto il suo necessario contorno (bolscevizzazione, schiacciamento dell’opposizione di sinistra sotto il rullo compressore della disciplina-per-la-disciplina): non altro che l’uccisione del partito mondiale, quella formula maledetta significava. E’ il vero anno di morte del Comintern: il resto non sarà che la macabra danza intorno alla sua bara.

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La dégringolade avvenne su tre piani che teniamo distinti solo per comodità di esposizione, ma che si intrecciarono l’uno all’altro e il cui risultato convergente fu di distruggere la vera unità del movimento internazionale comunista, sostituendola nel 1926-27 con una unità esteriore, formale e militaresca, buona soltanto a mascherare ed avallare in anticipo ogni libertà del centro dirigente di calpestare fino all’ultimo brandello del programma e, infine, cessata la compressione esterna degli “apparati” di partito e del potere statale russo, dar briglia sciolta alle mille “vie nazionali” verso un “socialismo” irriconoscibile. Riprendiamo l’evocazione delle sue dolorose tappe.

Avevamo chiesto con insistenza che a base della formazione dei partiti comunisti (meglio ancora, dell’Internazionale come partito comunista mondiale unico) fosse posta una piattaforma teorico-programmatica definita per sempre, da prendere o lasciare – qualcosa di simile alla sintetica proclamazione del primo punto delle Tesi di Lione (Questioni generali). Dovevano essere irrevocabilmente escluse, grazie a questo sbarramento teorico-programmatico, non solo le dottrine della classe dominante, fossero in filosofia spiritualistiche, religiose, idealistiche e reazionarie in politica, ovvero in filosofia positivistiche, volterriane, libero-pensatrici, e in politica massoniche, anticlericali e democratiche, ma anche le scuole godenti di un certo seguito nella classe operaia, dal riformismo socialdemocratico, pacifista e gradualista, al sindacalismo svalutatore dell’azione politica della classe operaia e della necessità del partito come supremo organo rivoluzionario; dall’anarchismo, ripudiante per principio la necessità storica dello Stato e della dittatura proletaria come mezzi di trasformazione dell’assetto sociale e di soppressione della divisione in classi, fino allo spurio ed equivoco “centrismo”, sintesi e condensato di analoghe deviazioni al coperto di una fraseologia pseudo-rivoluzionaria.

Lo sbarramento non ci fu, e dalla breccia lasciata aperta entrò il giacobinismo massonico (Frossard!) e popolaresco (Cachin!) del partito francese, marcio fino al midollo di tabe parlamentare e democratica – all’occasione perfino cripto-sciovinista (Algeria, Ruhr!) – sordo alla necessità della lotta sindacale e insofferente di ogni direzione centralizzata (se occorre, in nome delle famose “condizioni particolari del proprio paese”); si fece strada nei partiti scandinavi la teoria della “religione come affare privato”, e tutto un Esecutivo Allargato (quello del 1923, a pochi mesi di distanza dall’ultimo sussulto rivoluzionario in Germania, quando urgeva concentrare tutte le energie nella possibile soluzione rivoluzionaria di una crisi i cui riflessi positivi o negativi dovevano farsi sentire su tutto il movimento) fu costretto ad assumersi l’inverosimile compito di “grattare anche una simile rogna”; il sindacalismo sonnecchiante nelle file del partito francese e l’operaismo sonnecchiante in quello tedesco ripresero fuoco e slancio per reazione all’imperante atmosfera gradualista e parlamentare, minimalista e democratica; più avanti ancora, ebbe briglia sciolta quel miscuglio di sorelismo e idealismo crociano che era la corrente dell’”Ordine Nuovo”, tenuta severamente “in linea” quando l’Internazionale era ancora ferma sulle sue posizioni di partenza e la Sinistra reggeva il partito italiano, ma sguinzagliatasi non appena la situazione si invertì; infine, fu possibile varare, con una campagna orchestrata al modo del lancio dei prodotti più “originali” dell’industria borghese, la teoria assassina del socialismo in un solo paese, bestemmia suprema contro Marx, Engels e Lenin, contro un secolo di internazionalismo proletario. Tutto ormai era lecito, perché nulla era stato vietato dalla lucida e invariabile definizione della dottrina e del programma. Inquadrando nella “Parte generale” la questione dei rapporti tra determinismo economico e volontà politica, tra teoria e azione, tra classe e partito, le Tesi di Lione gettavano le basi di una rinascita futura del movimento fuori dal doppio scoglio del passivismo inerte da un lato e del volontarismo tuttofare dall’altro, di cui l’orgia della cosiddetta “bolscevizzazione” e i tristi saturnali dell’ “edificazione del socialismo” in vaso chiuso (o, che è lo stesso in un paese solo) non erano che nuove varianti.

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La Sinistra aveva chiesto (ed eccoci al secondo piano della dégringolade) che a costo di una certa schematizzazione, fosse definito un sistema unico e imperativo di norme tattiche, saldamente ancorato ai princìpi ed alla previsione (derivante da essi: chè se così non fosse, neppure princìpi essi sarebbero) di una “rosa” di alternative possibili nella dinamica dello scontro fra le classi. Parve una rivendicazione impeciata di astrattismo, una formula “metafisica”; i fatti, i duri fatti di un quarantennio, sono lì a provare che era una richiesta (se ci è permesso usare un aggettivo che stilla lacrime e sangue) terribilmente concreta. L’abbiamo visto per la formula della “conquista della maggioranza”; poi per quella del “fronte unico politico”; infine per quella del “governo operaio”, mentre abbiamo seguito a grandi linee i riflessi organizzativi delle affannose manovre di recupero di gruppi o di intere ali riformiste e centriste. Habent sua fata non solo i libelli, ma le parole; più ancora le parole d’ordine. Il IV Congresso chiudeva l’anno di amari insuccessi 1922 e apriva il tormentatissimo 1923, che vedrà il glorioso partito russo travagliato da una prima grave crisi interna al cui snodamento mancherà l’apporto di infrangibile acciaio di un Lenin (le Lettere al congresso di quell’anno mostrano quale vigoroso colpo di timone avrebbe dato, senza esitazioni né rimorsi, il grande rivoluzionario, se mai avesse potuto riprendere il suo posto al timone del comitato centrale), ma assisterà pure al riaprirsi del ciclo di lotte proletarie in Germania, Bulgaria, Estonia, e al primo accendersi delle fiammate di Oriente; e in questa cornice di luci e di ombre esso vedrà perdersi sempre più il filo conduttore dei grandi princìpi, e l’eclettismo tattico rovinare irrimediabilmente le ultime grandi occasioni almeno di quella fase storica, aggravando per riflesso il marasma in seno al partito bolscevico, quindi all’Internazionale. Mai come negli eventi di allora si vede fino a che punto le sbandate tattiche reagiscano sui principi e provochino in tutti i campi reazioni a catena. Le Tesi di Lione lo ricordano nella seconda parte (Questioni Internazionali): è bene, tuttavia, seguire più nel dettaglio il processo purtroppo inesorabile che, appunto da allora, condurrà l’Internazionale degli anni gloriosi al completo sfacelo.

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Mentre in Italia il fascismo al potere lanciava la sua offensiva contro il movimento comunista e, arrestando i principali dirigenti di sinistra del Partito Comunista d’Italia, impediva loro di far sentire la propria voce in un anno cruciale come quello che si stava aprendo, in Germania l’occupazione francese della Ruhr, il crollo verticale del marco, il fermento diffuso in tutti i ceti e la comparsa in scena dei primi nuclei del partito nazista (NSPD), ponevano il partito comunista (KPD) – una volta fallito o rimasto inoperante il tentativo di un’azione comune dei partiti fratelli al di qua e al di là del Reno – di fronte all’ingrato compito di “scegliere”, fra le molte interpretazioni possibili del fronte unico e del “governo operaio”, la più conforme alle tesi del IV Congresso e alla situazione tedesca. In tale dilemma, le “due anime” che , come potremmo dimostrare in altra sede, coesistevano fin dalla nascita nel partito, rispondevano in modo discorde al duplice quesito: fronte unico al vertice – come sosteneva e predicava la Centrale – o fronte unico “dal basso” – come sosteneva e predicava una malcerta e fluttuante “sinistra”? Governo operaio nel senso di appoggio parlamentare a un governo socialdemocratico, magari di coalizione governativa socialcomunista, perfino di benevola neutralità verso il governo borghese in carica, promotore della resistenza passiva al colpo di forza alleato (come prospettava la Centrale), o in quello di una “mobilitazione generale delle masse in direzione della presa rivoluzionaria del potere” (come insisteva, non meglio specificando, la minoranza di “sinistra”)?

Né i dissensi si limitavano a questi due punti di data relativamente recente. In una situazione che, specialmente nella Renania e nella Ruhr, vedeva masse di operai agitarsi, spesso armi alla mano, sia contro gli occupanti che contro il governo nazionale borghese, riprendevano corpo gli spettri dell’”azione di marzo” 1921: dissolidarizzare da queste generose impennate come forme di “avventurismo” infantile (come era incline a proporre la Centrale, facendo leva sull’impreparazione delle masse e del partito e sull’analisi troppo ottimistica dei rapporti di forza nella corrente di “sinistra” per rifugiarsi in un tendenziale “legalitarismo”che troverà clamorosa espressione verso la metà dell’anno), o invece sforzarsi di coordinarle, indirizzarle, disciplinarle, come andava propugnando l’ala opposta – a ragione in linea di principio , ma in modo più retorico e comiziaiolo che ponderatamente realistico?

Lo sbandamento la confusione che questo incrociarsi di direttive contraddittorie suscitava nel partito nell’atto in cui l’atmosfera politica e sociale si arroventava erano tali, che occorse una “conferenza di conciliazione” promossa dall’Esecutivo del Comintern (aprile 1923) per rimediarvi alla meglio (o alla meno peggio), da un lato condannando la tattica della direzione come un tendenziale “adattamento del partito comunista ai capi riformisti”, dall’altro mettendo le briglie alle impazienze e alle grida di “rivoluzione alle porte” della minoranza. Ma non bastavano pourparlers, specie se di “conciliazione” , per sanare ferite ormai purulente e sempre pronte a riaprirsi negli alti e bassi delle direttive emananti da Mosca. E il peggio aveva ancora da venire.

Infatti, prima timidamente, poi in forma sempre più esplicita, si fece strada nelle sfere dirigenti del partito l’idea che l’occupazione della Ruhr avrebbe fornito l’occasione ideale alla conquista della maggioranza” nella sua interpretazione più elastica – conquista non solo dei larghi strati proletari, ma del “popolo” genericamente inteso – qualora si fossero lanciati appelli e seduzioni alle tormentatissime falangi piccolo-borghesi, vittime della svalutazione del marco da un lato e succubi del rigurgito nazionalista dall’altro, cosa possibile solo cercando di dimostrar loro (proclama della Centrale del 17 maggio) che potevano “difendere se stesse e il futuro della Germania soltanto alleandosi ai comunisti per una lotta contro la vera (?) borghesia” e addossando al partito la tutela dei “valori nazionali” tedeschi. Fieramente bollata nel 1921, quando un gruppetto operaista di Amburgo se n’era fatto portavoce, faceva il suo ingresso in scena – questa volta senza che l’Internazionale reagisse – la parola di “nazionalbolscevismo”, frutto e matrice insieme di due macroscopiche deviazioni del marxismo: 1) l’equiparazione più o meno esplicita della questione nazionale nelle colonie o semicolonie e in un paese ad altissimo sviluppo capitalistico (l’Esecutivo Allargato del 12-23 giugno non si periterà di affermare : “L’insistere fortemente sull’elemento nazionale in Germania costituisce un fatto rivoluzionario COME l’insistere sull’elemento nazionale nelle colonie”;rincarando la dose nel famigerato “discorso Schlageter”, Radek dichiarerà che “ciò che viene chiamato nazionalismo tedesco non è soltanto nazionalismo; è un largo movimento nazionale avente un ampio significato rivoluzionario”; chiudendo i lavori dell’Esecutivo, Zinoviev si rallegrerà del riconoscimento da parte di un giornale borghese del carattere “nazionalbolscevico” finalmente assunto dal KPD come di una prova che il partito aveva finalmente acquisito una “psicologia” di massa (3); 2) il riconoscimento più o meno larvato delle potenzialità rivoluzionarie autonome della piccola borghesia (ancora Radek: il KPD deve mostrare di non essere soltanto (!!) “il partito della lotta degli operai industriali per una pagnotta, ma il partito dei proletarizzati che si battono per la propria libertà, una libertà coincidente con la libertà di tutto il popolo, con la libertà di tutti coloro che lavorano e soffrono in Germania”), e perciò anche l’interpretazione del fascismo come automobilitazione della piccola borghesia contro il grande capitale, anziché, inversamente, come mobilitazione delle piccola borghesia ad opera del grande capitale e nel suo esclusivo interesse; dunque, in senso antiproletario (4).

Inesorabili, gli anelli della catena si snodano. L’Esecutivo Allargato del giugno non discute a fondo la sempre più rovente situazione tedesca (ben altri problemi lo assillano: il “federalismo” norvegese, il “neutralismo” di fronte alla religione nel partito svedese, l’ennesimo tentativo di mercanteggiare una fusione tra il PCD’I e il PSI, malgrado l’altissimo prezzo richiesto da quest’ultimo per…non fondersi affatto), e, senza prendere decisioni impegnative, avalla la tesi della Centrale che il KPD debba erigersi a polo di attrazione delle masse piccolo borghesi proletarizzate, cullandole nei loro sogni di riscatto nazionale; nessuna risoluzione tradisce anche solo il sospetto che il problema tedesco nel 1923 sia squisitamente internazionale e che nulla più di un “programma nazionalista della rivoluzione proletaria” in Germania minacci per contraccolpo di accrescere il peso conservatore e controrivoluzionario della piccola borghesia in Francia e in Inghilterra, annullando gli ipotetici vantaggi di una sua conquista, su quel terreno bastardo, nella repubblica di Weimar. Nello stesso tempo e per logico parallelismo, l’Esecutivo decide di allargare le maglie della parola d’ordine “governo operaio” e, affascinato dal proliferare di partiti contadini non solo nei Balcani ma nella stessa America del Nord (La Follette!), la trasforma in “governo operaio e contadino” per tutti i paesi, Germania inclusa! E’ vero che le tesi (5) mettono in guardia contro una interpretazione parlamentare e…socialrivoluzionaria della nuova ricetta tattica; ma la prima, lo si è visto, era autorizzata dalle indeterminatezze e dai possibilismi del IV Congresso, e la seconda dalla meccanica e grossolana trasposizione della parola d’ordine “dittatura degli operai e dei contadini” dai paesi alla vigilia di una doppia rivoluzione ai paesi di capitalismo ultrasviluppato. Un altro lembo di ciò che aveva sempre e inequivocabilmente contraddistinto il partito rivoluzionario marxista andava perduto.

Ancora una volta , quelli che forzano la mano e abbacinano la vista di una organizzazione internazionale sempre meno ancorata alla solidità dei princìpi sono la suggestione del fatto contingente e il timore di farsi precedere dalla socialdemocrazia nella “conquista delle masse”; e il problema senza dubbio vitale di un’energica azione verso il contadiname povero è posto nei termini di una manovra che, nel giro di pochi anni, sboccherà nella teorizzazione di un ruolo mondiale autonomo della classe contadina indifferenziata nella varietà delle sue componenti diverse e contraddittorie, e fuori da ogni precisa caratterizzazione dei suoi rapporti col proletariato industriale e agrario nei paesi ad alto sviluppo capitalistico e nell’immensa area coloniale e semicoloniale, specialmente asiatica (6).

Ma, il punctum dolens del cruciale 1923 resta la Germania, ed è qui che le oscillazioni tattiche e l’eclettismo del Comintern (assai più che in Bulgaria e in Estonia, episodi sui quali non possiamo soffermarci) producono nella seconda metà dell’anno quello che, per le sue conseguenze vicine e lontane, può definirsi il grande disastro preparatorio delle sconfitte in Cina e in Inghilterra e della mortale crisi del partito russo e della stessa Internazionale negli anni successivi. Improvvisamente in luglio si fanno strada a Mosca – rimasta a lungo passiva di fronte agli sviluppi della situazione tedesca, forse nella consapevolezza della scarsa consistenza e omogeneità del KPD – l’allarme per il pericolo fascista da un lato, la convinzione (non discutiamo se fondata) che un ciclo prerivoluzionario stia per aprirsi dall’altro. Le direttive rimangono tuttavia a lungo vaghe e prudenti: la revoca della grande “giornata antifascista” già fissata per il 23 luglio in seguito al divieto governativo trova la sanzione di Mosca e, di rimbalzo, riaccende i contrasti tra la Centrale e la sinistra tedesca, fra l’ardente Berlino e la tiepida provincia, fra il proletariato già in azione e l’ “aristocrazia operaia” lenta a mettersi in moto. Sui primi di agosto, di fronte ai chiari segni di agonia del governo Cuno, la Centrale delKPD giudica prossimo il momento di una mobilitazione delle masse sotto la parola d’ordine del”governo operaio e contadino”; inversamente, dalla sua roccaforte berlinese, la “sinistra” proclama che “la fase intermedia del governo operaio sta divenendo, in pratica, sempre più improbabile”. Fra il divampare di nuovi imponenti scioperi, e nella confusione prodotta da questa altalena di parole d’ordine contrastanti, il grande capitale, fermamente deciso a liquidare l’ormai fallita campagna di “resistenza passiva” all’occupazione della Ruhr e a conciliarsi con l’Intesa, con particolare sguardo all’Inghilterra, manda al potere Stresemann.

Come ormai normale, la reazione a Mosca è una brusca sterzata dall’attendismo fondamentalmente pessimistico all’ottimismo frenetico: “La rivoluzione batte alle porte della Germania – scrive l’organo del Profintern in settembre - …E’ solo questione di mesi”. Presente a Mosca l’intero stato maggiore del KPD, si decide tra mille andirivieni che l’assalto debba essere preparato d’urgenza, e se ne fissi addirittura la data. Quale il trampolino di lancio? Non v’è dubbio: il IV Congresso l’ha chiarito; il III esecutivo Allargato ne ha dato conferma: Il primo ottobre, al culmine della crisi economica e sociale , Zinoviev prospetta al segretario del partito tedesco, Brandler, l’approssimarsi del “momento decisivo fra quattro, cinque, sei settimane”; è quindi “necessario… porre in forma concreta il problema del nostro ingresso nel governo sassone (dominato dai socialdemocratici) a condizione che la gente di Zeigner (il presidente del consiglio riformista) sia realmente disposta a difendere la Sassonia contro la Baviera e i fascisti” (dopo il 1918, il 1919, il 1921, si ridà fiducia alla “volontà” dei socialdemocratici di rinunziare ad essere.. se stessi!). Nell’opuscoletto Probleme der deutschen Revolution, scritto proprio allora dal presidente dell’Internazionale, da un lato si proclama giustamente che “la prossima rivoluzione tedesca sarà una rivoluzione proletaria classica” (cioè “pura”) ma si traggono deduzioni fin troppo ottimistiche dall’alto grado e spirito di organizzazione del proletariato germanico (quel talento e fascino dell’organizzazione in cui Luxemburg nel 1918 e Trotsky nel 1920 avevano individuato una delle cause del fallimento di fronte alla prova cruciale della guerra – in assenza di una ferma direzione di partito) e dalla sua “cultura” (l’altra faccia di un largo strato di aristocrazia operaia) dall’altro si attribuisce un ruolo rivoluzionario “alle masse piccolo-borghesi cittadine, i funzionari piccoli e medi, i piccoli commercianti ecc.” e si arriva a ipotizzare che “il ruolo giocato nella rivoluzione russa dal contadiname stanco della guerra sia ripreso fino a un certo punto nella rivoluzione tedesca dalla larghe masse piccolo-borghesi urbane, spinte dallo sviluppo del capitalismo all’0rlo dello sfacelo e del precipizio economico”!!

In questa fantastica valutazione, tuttavia c’è un’ombra: il fronte unico ha ottenuto senza dubbio in Germania l’auspicato successo di trascinare nella lotta “anche gli strati più retrogradi della classe operaia, avvicinandoli all’avanguardia rivoluzionaria”; “l’ora in cui l’enorme maggioranza dei lavoratori tedeschi, che oggi ripone ancora qualche speranza nella socialdemocrazia, si convincerà definitivamente che la lotta decisiva dev’essere condotta senza e contro le ali destra e sinistra dell’SPD, sta avvicinandosi”; non è però ancora suonata, e perché suoni è necessario un nuovo “round” di esperienze non solo di fronte unico politico, ma di governo di coalizione “operaia”. Ecco perché si impone l’ingresso dei comunisti nel governo sassone, al doppio scopo “1) di aiutare l’avanguardia rivoluzionaria di Sassonia a prendere stabile piede, ad occupare un determinato territorio, e a fare del suo paese il punto di partenza di ulteriori battaglie; 2) di offrire ai socialdemocratici di sinistra la possibilità di rivelarsi coi fatti e così facilitare ai proletari socialdemocratici il compito di vincere le ultime illusioni”! D’altra parte l’esperimento governativo, che può avvenire solo “col consenso del Comintern”, ha senso “unicamente se offre la sicura garanzia che l’apparato statale cominci realmente a servire gli interessi della classe operaia, che centinaia di migliaia di lavoratori vengano armati per la lotta contro il fascismo bavarese e tedesco in genere, che non solo a parole ma nei fatti abbia inizio un’espulsione in massa dei funzionari borghesi dell’apparato statale…e che si introducano senza indugio misure economiche di carattere rivoluzionario,tali da colpire la borghesia in maniera decisiva”; ovvero, come nel famoso telegramma di Zinoviev a Brandler del primo ottobre, “armare subito 50-60 mila uomini in Sassonia…ed egualmente in Turingia”.

Tutto qui è contraddittorio: si anticipa una situazione rivoluzionaria seducentemente “favorita” dall’intervento in funzione eversiva delle grandi masse piccolo borghesi, e se ne indica lo snodamento in una combinazione parlamentare-governativa; si esaltano i successi ottenuti col fronte unico nello stringere intorno al partito l’enorme maggioranza della classe operaia, e ci si sottomette alla coalizione con la più screditata delle socialdemocrazie mondiali; si predica la “conquista del potere” al modo rivoluzionario classico, e se ne addita la strada nell’armamento del proletariato, nella cacciata dei funzionari borghesi e nell’introduzione di misure dittatoriali antiborghesi, da parte di un governo in maggioranza socialdemocratico; ci si prefigge di “smascherare” in tal modo l’SPD, e si cancellano soltanto i caratteri distintivi del proprio partito; si pretende che per tale via il KPD “convincerà coi fatti la maggioranza della classe operaia tedesca di non essere più, come nel 1919-21, soltanto l’avanguardia, ma di avere dietro di sé milioni di lavoratori”, e si presenta a questi ultimi il fatto umiliante e vergognoso di una combinazione di governo dove tre ministri comunisti (uno dei quali, il segretario del partito, Brandler) sono legati mani e piedi ai ministri socialdemocratici, ai massacratori di Rosa e Carlo, e mentre “hanno dietro di sé milioni e milioni di proletari”, non li chiamano all’assalto al potere, bensì all’attesa paziente e fiduciosa di qualche fucile dei compari riformisti! Una coalizione alla conclamata vigilia dell’insurrezione! Lo sdegno di Trotsky ne Gli insegnamenti di Ottobre per questa ricaduta (ma in peggio) nelle esitazioni capitolarde della minoranza bolscevica di fronte alla conquista del potere nel 1917 era ben giustificato, anche se, eludendo la questione di fondo, egli non avvertisse che quella “recidiva socialdemocratica” era sta la conclusione necessaria delle tattiche “elastiche” del fronte unico e del governo operaio, da lui stesso appoggiate e difese prima del 1925 e dopo (7). Si fissa la data dell’insurrezione…dal trampolino di lancio di un governo socialcomunista, la si sposta in seguito ai suggerimenti della Centrale tedesca: tutto si svolge come se la rivoluzione fosse un fatto tecnico, non il prodotto di una situazione oggettiva ben precisa e di un’adeguata preparazione soggettiva ad opera del partito (che da mesi predicava ai proletari la via semilegalitaria delle manovre di accostamento a questo o quel gruppo, e delle soluzioni governative o paragovernative). Si ammonisce il partito ad evitare che “nella Germania di oggi, ribollente e tumultuante, in cui l’avanguardia si getterà oggi o domani nella lotta decisiva trascinandosi dietro la fanteria pesante proletaria, la giusta tattica del fronte unico non si converta nel suo diretto contrario”, ma tutto si fa perché appunto questo avvenga vincolando il partito, in uno o al massimo due Stati regionali isolati nel gran mare della Germania, nella morsa del potere centrale pienamente nelle mani borghesi e delle truppe più o meno regolari della Baviera, eterna riserva della controrivoluzione tedesca, al carro della socialdemocrazia e della sua provata vocazione al tradimento. Si rincalza: “Nell’attuale Germania, giunta alla soglia della rivoluzione, la formula generale del “governo operaio e contadino” è già insufficiente… e noi dobbiamo non solo nella propaganda, ma nell’agitazione di massa mostrare e chiarire non solo all’avanguardia, ma anche alle grandi masse, che non si tratta d’altro che della dittatura del proletariato, o della dittatura dei lavoratori delle città e dei campi”, e si pretende di poter far ciò andando e rimanendo al governo con una socialdemocrazia che, per dichiarazioni programmatiche esplicite e per tradizione sancita dai fatti, esclude l’impiego della dittatura e del terrore…

L’epilogo seguì nel giro di pochissimi giorni. Il 20 ottobre, il governo centrale del Reich invia a quello di Sassonia un ultimatum per lo scioglimento immediato delle pur esili milizie operaie, minacciando in caso di inadempienza, di dare ordine di marcia alla Reichswehr. Il partito decide la proclamazione dello sciopero generale in tutta la Germania; ma insicuro di se stesso e dell’appoggio dei proletari, disorientati dalla girandola di parole d’ordine e di obiettivi contraddittori, Brandler pensa di “consultare” preventivamente le masse – rappresentate da una assemblea di operai e funzionari politici e sindacali a Chemnitz – e, convintosi che il momento buono è ormai fuggito, revoca l’ordine di cessazione del lavoro. Basta un distaccamento della Reichswehr per deporre il governo sassone: un ritardo nella notizia della revoca dello sciopero impedisce ad Amburgo proletaria di non insorgere isolata – per essere domata in ventiquattr’ore con la forza. Avrebbero dovuto marciare i proletari sotto la guida del partito: marciò l’esercito sotto la guida dei generali kaiseristi lasciati ai loro posti dagli Ebert-Sheidemann. Qualche focolaio di resistenza venne rapidamente soffocato: il 1923 tedesco era finito.

Sarà facile nei mesi successivi, e segnatamente al Plenum dell’Esecutivo moscovita dell’8-12 gennaio 1924, scaricare la responsabilità del disastro sulle insufficienze, gli errori, le debolezze della Centrale tedesca: altrettanto facile, da parte di quest’ultima,rispondere che – errori di dettaglio a parte – si erano applicate punto per punto le direttive del Comintern, a loro volta conformi ai deliberati del IV Congresso. Per salvare il salvabile, cioè l’”unità” di un partito più che mai diviso, se ne rimaneggerà la direzione e se ne condanneranno i “rei”, pur conservandoli come sospetta minoranza nella nuova Centrale, di “sinistra” (salvo, un anno dopo, a riconoscerla…peggiore di quella che l’aveva preceduta) (8). Ma il più grave è che, parallelamente, si annunzierà un’ennesima “svolta tattica” su scala mondiale: Non più fronte unico al vertice – come, per “un’errata interpretazione” dei deliberati del IV Congresso, l’hanno praticato diversi partiti, primo fra tutti quello tedesco – ma fronte unico dal basso: “E’ venuto il momento di proclamare apertamente che noi rinunziamo a qualunque trattativa con il Comitato Centrale della socialdemocrazia tedesca e con la direzione centrale dei sindacati germanici; non abbiamo nulla da discutere coi rappresentanti della socialdemocrazia. Unità dal basso, ecco la nostra parola d’ordine: già in parte realizzato il fronte unico dal basso è ora realizzabile anche contro i suddetti signori”. Non più sottili distinzioni tra destra e sinistra socialdemocratica: “I socialdemocratici di destra sono traditori aperti: quelli di sinistra, invece, coprono soltanto con le loro frasi l’azione controrivoluzionaria degli Ebert, dei Noske, degli Sheidemann. Il KPD respinge ogni trattativa non solo contro la centrale dell’SPD, ma anche con i dirigenti di “sinistra”, almeno finché (una porticina riaperta dopo di aver chiuso il portone) questi eroi non trovino il coraggio di rompere apertamente con la banda controrivoluzionaria a capo del partito socialdemocratico”. Non più una possibile interpretazione del governo operaio e contadino come “un governo nel quadro della democrazia borghese, come un’alleanza politica con la socialdemocrazia”; “la parola d’ordine del governo operaio e contadino è, tradotta nella lingua della rivoluzione, la dittatura del proletariato…mai, in nessun caso, una tattica di accordo e transazione parlamentare coi socialdemocratici. Al contrario, anche l’attività parlamentare dei comunisti deve avere per oggetto lo smascheramento del ruolo controrivoluzionario della socialdemocrazia e l’illustrazione agli operai dell’inganno e dell’impostura dei governi “operai” da essa creati, che sono in realtà soltanto dei governi borghesi liberali”. Non più “governo migliore” contrapposto a “governo peggiore: “fascismo e socialdemocrazia sono la mano destra e sinistra del capitalismo contemporaneo”.

Al V Congresso dell’Internazionale Comunista, 17 giugno-8 luglio 1924, che da un lato riflette il profondo smarrimento dei partiti dopo il disastroso bilancio di un biennio di brusche svolte tattiche e di ordini equivoci (lo stesso Togliatti chiede che infine si dica senza mezzi termini che cosa esattamente si deve fare!), dall’altro riconferma la prassi della crocifissione dei dirigenti delle sezioni nazionali sull’altare dell’infallibilità dell’Esecutivo, ancora una volta la Sinistra leva l’unica voce tanto severa quanto serena e schiva da fronzoli personali e locali. Se mai fosse stato nel suo costume il rallegrarsi delle conferme schiaccianti delle sue previsioni alla terribile prova del sangue proletario inutilmente versato, o di chiedere a sua volta che teste di “rei” e di “corrotti” rotolassero per cedere il posto a teste “innocenti” e “incorruttibili”, quello sarebbe stato il momento. Ma non questo chiede e vuole la Sinistra: chiede e vuole che si affondi coraggiosamente il bisturi nelle deviazioni di principio di cui quegli “errori” erano il prodotto inevitabile, e le “teste” soltanto l’espressione occasionale. “Fronte unico dal basso”? E sia; purché non si lasci aperta la scappatoia ad “eccezioni” in senso opposto (come si dice già nel proporlo), e si proclami senza mezzi termini che la sua base “non può mai essere quella di un blocco di partiti politici…bensì essere trovata soltanto in altre organizzazioni della classe operaia, non importa quali, ma tali che, per la loro costituzione, siano conquistabili alla direzione comunista”. Niente dunque inviti ad organizzazioni, come la destra o la sinistra socialdemocratica, che non possono “lottare sulla via finale della rivoluzione mondiale comunista” e nemmeno “sostenere gli interessi contingenti della classe operaia”, e alle quali darebbe, come è stato, criminoso “dare col nostro atteggiamento un certificato di capacità rivoluzionaria, sconvolgendo così tutto il nostro lavoro di principio, tuttala nostra opera di preparazione della classe lavoratrice”. Lotta contro la socialdemocrazia “terzo partito borghese”? D’accordo; ma come giustificare allora la nuovissima “bomba” della proposta di fusione dell’Internazionale Sindacale Rossa con l’odiata Internazionale Sindacale di Amsterdam? Governo operaio “sinonimo di dittatura del proletariato”? Troppo duramente abbiamo pagato l’impiego anche solo di una frase ambigua: chiediamo “un funerale di terza classe non solo per la tattica, ma per la stessa parola di “governo operaio”. Lo chiediamo perché “dittatura del proletariato, questo mi dice: il potere proletario sarà esercitato senza dare nessuna rappresentanza politica alla borghesia. Questo mi dice pure: il potere proletario può essere conquistato soltanto grazie all’azione rivoluzionaria, attraverso l’insurrezione armata delle masse. Quando invece dico governo operaio, si può, volendo, intendere pure questo; ma, se non si vuole, si può anche intendere (Germania! Germania!) un altro governo che non sia caratterizzato dal fatto di escludere la borghesia dagli organi di rappresentanza politica né, tanto meno, dal fatto che la conquista del potere si è verificata con mezzi rivoluzionari e non con mezzi legali”. Si risponde che quella del “governo operaio” è una forma più comprensibile alle masse? Ribattiamo: “Che cosa può comprendere del governo operaio un semplice lavoratore o contadino, quando, dopo tre anni, noi, i capi del movimento operaio, non siamo ancora giunti a comprendere e definire in modo soddisfacente che cosa esso sia”?

Ma la questione è ancora più profonda. Che nel 1925 l’Internazionale vada “a sinistra”, potrebbe essere per noi motivo di sollievo, se ponessimo il problema nei termini di una meschina rivincita. Ma non così lo poniamo: “Ciò che abbiamo criticato nel metodo di lavoro dell’Internazionale è appunto questa tendenza ad andare a destra e a sinistra seguendo le indicazioni della situazione o di come si crede di interpretarle. Finché non sarà discusso a fondo il problema dell’elasticità, dell’eclettismo…finché questa elasticità permane e nuove oscillazioni devono verificarsi, una forte svolta a sinistra ce ne fa temere una ancora più forte a destra (occorre dire che proprio questo avverrà negli anni successivi?). Non è una deviazione a sinistra nella congiuntura attuale che noi chiediamo, ma una rettifica generale delle direttive dell’Internazionale: questa rettifica non sia pur fatta nel modo che noi chiediamo… ma sia fatta, e in modo chiaro. Noi dobbiamo sapere dove adiamo”.

E infine: siamo noi della Sinistra a volere più di chiunque la centralizzazione e la disciplina mondiale; ma una simile disciplina “non si può affidare alla buona volontà di tale o tal altro compagno che , dopo venti sedute, firmi un accordo nel quale destra e sinistra siano finalmente unite”; è una disciplina “che si deve trasportare nella realtà, nell’azione, nella direzione del movimento rivoluzionario del proletariato teso verso l’unità mondiale” e che, per essere tale, “abbisogna di una chiarezza nella direzione tattica e di una continuità nella costituzione delle nostre organizzazioni, nel porre i limiti che ci separano dagli altri partiti”. Occorre dunque gettare le basi della disciplina poggiandola sul piedistallo incrollabile della chiarezza, saldezza e invarianza dei princìpi e delle direttive tattiche: In anni il cui fulgore faceva sembrare lontani, la disciplina si creava per un fatto organico che aveva le sue radici nella granitica forza dottrinaria e pratica del partito bolscevico: oggi, o la si ricostruisce sulle fondamenta collettive del movimento mondiale, in uno spirito di serietà e di fraterno senso della gravità dell’ora, o tutto andrà perduto. La “garanzia” che non si ricadrà nell’opportunismo, - osa proclamare la Sinistra ad un congresso che appena sfiora la questione russa come un pericoloso tabù – non può più venire dal solo partito russo, perché è il partito russo che ha bisogno, urgente bisogno , di noi, e in noi cerca la “garanzia” che invano gli chiediamo. E’ giunta l’ora in cui “l’Internazionale del proletariato mondiale deve rendere al PC russo una parte degli innumerevoli servizi che ne ha ricevuti. La situazione più pericolosa, dal punto di vista del pericolo revisionista è la sua situazione, e contro questo pericolo gli altri partiti devono sostenerlo. E’ nell’Internazionale che esso deve attingere la maggior forza di cui ha bisogno per attraversare la situazione estremamente difficile in cui si dibatte”. (9)

Battaglia grande, ma perduta! Dalla débâcle dell’ottobre tedesco trarrà nuovo alimento la crisi interna del partito bolscevico; dal riflusso della rivoluzione in Occidente e dalla sua teorizzazione di comodo, uscirà il mostro del “socialismo in un solo paese”; dal fronte unico “dal basso” si tornerà agli entusiasmi per il fronte unico al vertice, e addirittura ai giri di valzer col radicalismo borghese in Germania (10); alla sciagurata profferta gramsciana alle “opposizioni” di un Antiparlamento durante la crisi Matteotti, basata una volta di più sull’attribuzione di un ruolo autonomo alla piccola borghesia e antipatrice dei “fronti popolari” contro il fascismo; alla ignobile dottrina del “qualunque mezzo è buono al fine”, garante di ciò il possesso di uno scolasticizzato “marxismo-leninismo” decaduto a volgare formula machiavellica, ecc. A ognuna di queste storture è data risposta nella parte generale delle Tesi di Lione, mentre la loro “storia” è riassunta nelle parti internazionale e italiana su cui perciò non insistiamo. Quello che verrà dopo, lo sanno tutti: l’Internazionale svirilizzata, ridotta a strumento mutevole della politica estera russa; l’abbandono di ogni principio; infine lo scioglimento in funzione dell’alleanza di guerra con le “democrazie”; e la strada libera a tutte le vergogne di questo dopoguerra.

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Si è visto – e siamo al terzo aspetto della débâcle – come non solo parallelamente, ma con un certo anticipo sulle manovre tattiche, e sempre nell’illusione di ottenere più in fretta un largo concentramento di forze proletarie intorno al partito, si fosse iniziato un processo di graduale abbandono di quel rigore nei criteri di organizzazione che i ventun punti avevano tuttavia rivendicato come necessaria premessa della costituzione dell’Internazionale su basi non fittizie e fluttuanti. Contro il nostro parere, si era cominciato col tollerare nelle draconiane “condizioni di ammissione” un margine di possibile manovra in vista di riconosciute “particolarità nazionali”: in omaggio a queste, si era accettata l’adesione quasi totalitaria dell’ex partito socialista francese solo per dover constatare, ad ogni nuova sessione dell’Esecutivo, di avere di fronte lo spettro malamente riverniciato della vecchia socialdemocrazia parlamentarista e magari sciovinista; prima ancora, si era avallata la fusione del KPD con la “sinistra” degli Indipendenti, solo per vederseli sfuggire di nuovo dopo di aver largamente inquinato il partito o di averne aggravato le malattie di origine. Si era praticato al vertice, per esempio nei confronti del PSI, quel “federalismo” che nel 1923 si rinfaccerà ai partiti norvegese e danese, ogni qualvolta e in qualunque paese una vaga prospettiva di reclutare nuove forze numeriche sembrasse profilarsi. Accanto ai partiti comunisti, si erano accolti nelle file dell’Internazionale rivoluzionaria – quasi alla pari – partiti sedicentemente simpatizzanti.

Ora che il rosario delle innovazioni tattiche continuava a sgranarsi ridando fiato ogni volta alle correnti centrifughe sonnecchianti in tutti i partiti, e le svolte brusche si susseguivano ingenerando confusioni e dislocamenti anche nei militanti più saldi, la questione della “disciplina” si poneva forzatamente non come il prodotto naturale e organico di una conseguita omogeneità teorica e di una sana convergenza di azione pratica, ma al contrario come manifestazione morbosa della discontinuità nell’azione e della disarmonia nel patrimonio dottrinale. Nella stessa misura in cui si constatavano errori, deviazioni, cedimenti, e si cercava di rimediarvi rimaneggiando comitati centrali o esecutivi, si imponevano da un lato il “pugno di ferro” e dall’altro la sua idealizzazione come metodo e norma interna del Comintern e delle sue sezioni, e come antidoto di sicura efficacia contro non già gli avversari o i falsi amici, ma i compagni. L’era dei processi a rotazione contro se stessi, di quello che la Sinistra al VI Esecutivo Allargato chiamò “lo sport dell’umiliazione e del terrorismo ideologico” ( spesso ad opera di “ex-oppositori umiliati”), era incominciato: e non v’è processo senza carceriere.

Si era deviato dalla disciplina verso il programma, lucido e tagliente com’era all’origine: si pretese, per impedire che da quell’indisciplina nascesse lo scompiglio, di ricreare in vitro dei “partiti veramente bolscevichi”: é noto che cosa diverranno, sotto il tallone staliniano, queste caricature del partito di Lenin. Al IV Congresso avevamo ammonito: “La garanzia della disciplina non può essere trovata che nella definizione dei limiti entro i quali i nostri metodi devono applicarsi, nella precisione dei programmi e delle risoluzioni tattiche fondamentali, e delle misure di organizzazione”. Ripetemmo al V Congresso ch’era illusorio rincorrere il sogno di una disciplina di tutto riposo, se mancavano chiarezza e precisione nei campi pregiudiziali ad ogni disciplina e omogeneità organizzativa; ch’era vano cullarsi nella chimera di un partito mondiale unico, se la continuità e il prestigio dell’organo internazionale erano continuamente distrutti dalla “libertà di scelta”, concessa non solo alla periferia ma al vertice, nei princìpi determinanti l’azione pratica e in questa stessa azione; che era ipocrita invocare una “bolscevizzazione” che non significasse intransigenza nei fini, e aderenza dei mezzi ai fini.

Non bastando una disciplina applicata come la concepiscono generali e furieri, si scoprì una particolare ricetta di organizzazione: si volle ricostruire i partiti (cinque anni dopo la loro prima costituzione!) sulla base delle cellule di azienda come modello ideale derivante dal patrimonio storico del bolscevismo, e si attese da questa forma la soluzione di quel problema di forza che è la rivoluzione. Rispondemmo che la formula, ovvia per la Russia pre-1917 e non mai elevata a dogma immutabile da Lenin, non poteva essere trasferita tale e quale all’Occidente, mentre nella sua applicazione formalistica, implicava un’autentica rottura coi princìpi di formazione e con il processo reale di genesi e di sviluppo del partito rivoluzionario, una caduta nel “laburismo” (VI Esecutivo Allargato), il partito marxista non essendo definito dalla bruta composizione sociale dei suoi membri ma dalla direzione nella quale si muove, ed essendo tanto più vivo e vitale come organismo rivoluzionario, quanto meno rinchiuso nell’orizzonte angusto e corporativo della prigione aziendale. Chiarimmo che questa “revisione”, vantata come antidoto alla burocratizzazione, avrebbe comportato, all’opposto, una ipertrofia del funzionalismo, unico legame rimasto a collegare cellula a cellula, come azienda ad azienda.

Allargammo la questione al problema ben più vasto e generale, e nel 1925-1926 coinvolgente tutte le questioni destinate a divenire brucianti nella lotta interna del partito russo: denunziammo, prima che fosse troppo tardi, la smania e la mania della “lotta al frazionismo”, di quella caccia alle streghe che celebrerà i suoi saturnali nell’ignobile campagna 1926-28 contro la sinistra russa e poi contro la destra, una caccia alle streghe che non aveva goduto diritto di cittadinanza nel partito bolscevico degli anni di splendore nemmeno contro il nemico aperto – distrutto, se necessario; mai vilmente coperto di fango – e che, varcando i confini statali russi, partorirà la sconcia figura del pubblico accusatore prima, del delatore d’ufficio poi, del carnefice infine. La rivoluzione proletaria è generosa quanto la controrivoluzione (la frase risale a Marx) è cannibalesca. Il primo sintomo dell’”astro” controrivoluzionario nascente – segno, non causa – sarà il feroce, il viscido, l’ipocritamente velato di fraseologia “leninista” cannibalismo, e nessuno lo praticherà con zelo più intenso che le reclute dell’ultima ora, i menscevichi “convertiti”, i socialpatrioti copertisi il capo di cenere, gli uomini dell’immancabile “sì” nel buio che lentamente si addensava, così come erano stati gli uomini dell’immancabile “no” o, al più, dell’immancabile “ni” nella grande luce che credevamo non dovesse mai più offuscarsi.

Allargammo di qui il problema dell’ancor più scottante questione della salvezza dell’Ottobre nel cruciale 1926: lanciammo un ultimo appello perché, contro tutti i divieti e le minacce di tutt’altro che metaforiche sanzioni, la crisi del partito russo fosse portata in discussione in tutti i partiti e nelle loro assise mondiali “poiché la rivoluzione russa è la prima grande tappa della rivoluzione mondiale, essa è anche la nostra rivoluzione, i suoi problemi sono i nostri problemi, e ogni membro dell’Internazionale rivoluzionaria ha non solo il diritto ma il dovere di collaborare a risolverli”:(VI Esecutivo Allargato), ben sapendo che quella crisi significava crisi dell’Internazionale Comunista. Riprendendo un argomento che gli storici d’oggi capiscono a rovescio (è la loro vocazione!) ricordammo che la grandezza del partito russo era consistita nell’applicare a un paese arretrato la strategia e la tattica prevista per i capitalismi pienamente evoluti nel quadro di una visione mondiale dell’Ottobre, e che per costruirsi una solida barriera contro i rigurgiti dell’opportunismo, l’Internazionale doveva “trovare per le questioni strategiche” (prima fra tutte quella dei rapporti fra la dittatura del proletariato vittoriosa nell’URSS e il proletariato mondiale in lotta, fra Stato e partito e specialmente fra Stato e Internazionale Comunista, come per l’immenso arco della strategia rivoluzionaria nel mondo e della tattica ad essa collegata) “soluzioni che stanno fuori dal raggio dell’esperienza russa” (11). Invocammo non dei rabberciamenti ma un radicale cambiamento di rotta nei metodi dell’Internazionale. Non esistono partiti puri e, nel caso del partito bolscevico 1926, la garanzia “soggettiva” di non-inquinamento – sempre labile e condizionale – cessava di funzionare nell’atto in cui questioni non secondarie ma centrali e di principio, dividevano lo stupendo organo di battaglia teorica e pratica ch’era stato il partito dell’Ottobre rosso. L’internazionalismo proletario doveva rinascere in tutto il suo folgore se dalla minaccia incombente di uno “sbandamento a destra” doveva essere salvato il potente baluardo della rivoluzione mondiale negli anni ardenti del primo dopoguerra. Lì era la salvaguardia del comunismo dalle aberrazioni del “socialismo in un solo paese” o, più tardi, delle “vie nazionali al socialismo”: lì ed allora o mai più!

Il movimento proletario comunista doveva essere ricostruito ab imis sulla base delle “lezioni di Ottobre” non meno che su quella di un bilancio francamente e virilmente redatto, come la Sinistra aveva chiesto in un congresso dopo l’altro che lo si redigesse. Le Tesi di Lione, e il loro commento all’Esecutivo Allargato del febbraio-marzo 1926, vollero essere un apporto fornito in questo spirito dal movimento internazionale alla Russia rivoluzionaria in pericolo. Fummo imbavagliati e dispersi: l’appello e l’apporto caddero nel vuoto per le generazioni di allora: valgano per generazioni di oggi e di domani.

* * *

Sarebbe antimarxista cercare nelle sole deviazioni del Comintern dal 1922 al 1926 la causa di una catastrofe che oggi ci sta dinanzi in tutta la sua imponenza. Troppi favori vi concorsero, troppe determinazioni oggettive fecero sì che il corso storico fosse, e potesse solo essere , quello. Ma delle situazioni oggettive l’azione del partito è pure un elemento e, in date circostanze, un elemento-cardine. Riconoscere le origini storiche dell’opportunismo – dicemmo al IV Esecutivo Allargato – non ha mai significato né può significare per noi subirlo come necessità storicamente ineluttabile: “anche se la congiuntura e le prospettive ci sono sfavorevoli, o relativamente sfavorevoli, non si devono accettare in uno stato d’animo di rassegnazione le deviazioni opportunistiche, o giustificarle col pretesto che le loro cause risiedono nella situazione obiettiva. E se, malgrado tutto, una crisi interna si verifica, le sue cause e i mezzi per sanarle devono essere ricercati altrove, cioè nel lavoro e nella politica del partito”. Curiosa deduzione: agli occhi di un’Internazionale i cui congressi avevano finito sempre più per divenire le grigie aule di processi a partiti, gruppi o persone chiamati a rispondere di tragici rovesci in Europa e nel mondo, tutto ora diveniva il prodotto di “congiunture sfavorevoli”, di situazioni “avverse”.

La verità era che non diciamo il processo, ma la revisione critica, andava fatta alla radice e basata su coefficienti impersonali mostrando come il gioco di cause ed effetti tra fattori oggettivi e soggettivi sia infinitamente complesso e se, sui primi – considerati solo per un momento come “puri”, cioè a sé stanti, fuori dall’influenza della nostra azione collettiva – il potere d’intervento del partito è limitato, è invece in nostro potere salvaguardare , anche a prezzo di impopolarità e insuccessi momentanei, le condizioni che sole permettano ai secondi di agire sulla storia, e fecondarla. Il partito non sarebbe nulla se non fosse, soggettivamente e oggettivamente, per i suoi militari e per la classe operaia indifferenziata, il filo conduttore ininterrotto che il flusso e il riflusso delle situazioni non spezza, o, se anche dovesse spezzarlo, non altera. Nella lotta perché il filo non si spezzasse, allora; nella lotta per riannodarlo nei lunghi anni dello stalinismo imperante, poi; nella lotta per ricostruire su di esso e intorno ad esso il partito mondiale del proletariato, è tutto il senso della nostra battaglia.

 

Note

  1. La direzione di sinistra del Partito Comunista d’Italia, uscita dai congressi di Livorno e di Roma, venne sostituita provvisoriamente in seguito all’arresto dei principali dirigenti nel febbraio 1923, e definitivamente dopo l’assoluzione di questi ultimi al processo nello stesso anno; dopo le prime resistenze (da parte di Terracini soprattutto, ma anche di Togliatti), la nuova direzione di “centro” si allineò gradualmente alle posizioni dell’Internazionale, ma ancora alla Conferenza nazionale di Como (maggio 1924) risultava in minoranza rispetto al grosso del partito, quasi unanimemente schierato sulle sue posizioni di origine. Pur in tale condizione, come al successivo V Congresso dell’Internazionale Comunista, la sinistra non solo non rivendicò il proprio ritorno alla direzione del partito, ma sostenne che una simile possibilità era condizionata ad una decisa e non equivoca svolta nella politica di Mosca: “Ove l’indirizzo dell’Internazionale e del partito – si legge nello schema di tesi presentato alla suddetta conferenza dalla “sinistra” – dovesse restare opposto a quello qui tracciato o anche indeterminato e imprecisato come fino adesso, alla sinistra italiana si impone un compito di critica e di controllo, e il rifiuto fermo e sereno a soluzioni posticce raggiunte con liste di comitati dirigenti e formule svariate di concessioni e di compromessi, quali sono il più delle volte i paludamenti pedagogici della tanto esaltata ed abusata parola di unità”. Coerentemente, al V Congresso, Bordiga rifiutò non soltanto l’offerta della vice-presidenza dell’Internazionale fattagli da Zinoviev, ma ogni corresponsabilità nella direzione del Partito Comunista d’Italia, mentre la Centrale italiana si orientava sempre più nel senso voluto da Mosca e patrocinato qui da noi dalla corrente di destra Tasca-Graziadei.

  1. Questa rivendicazione non aveva beninteso,nulla di “democratico”; non contrapponeva al necessario accentramento l’ignobile decentramento delle “vie nazionali”: era una trasposizione sul piano internazionale della nostra visione del “centralismo organico” per cui il vertice è legato alla base della piramide dal filo unico e ininterrotto di una dottrina e di un programma unici e ne riceve e sintetizza gli impulsi, o la stessa piramide crolla. Ed è vano dire che, nella situazione di allora, L’Occidente non avrebbe potuto dare alla Russia bolscevica e allo stesso Comintern l’ossigeno che mancava sempre più, essendo esso stesso immerso nei primi stadi di un democratismo che presto diverrà grandeggiante e infine onnipresente: quello che la Sinistra rivendicò fu un principio, valido sempre e dovunque anche se non attuabile nella contingenza immediata, il principio che vede al culmine l’Internazionale come partito unico del proletariato rivoluzionario, poi le sue sezioni “nazionali” se ancora esistenti, e infine, all’ultimo gradino, lo Stato proletario vittorioso, il più venerabile proprio in forza della sua vittoria isolata (specialmente in un paese economicamente arretrato come la Russia) e il cui potere coercitivo mai avrebbe dovuto né dovrebbe essere utilizzato (come ribadì con forza la Sinistra al VI Esecutivo Allargato) per “risolvere” le questioni disciplinari dell’Internazionale o del partito al comando della dittatura di classe.

  2. La Sinistra, per le ragioni già dette, non poté far sentire la propria voce in questa drammatica svolta; lo farà un anno dopo alla vigilia del V Congresso: “noi neghiamo che sia giustificabile sulle basi accennate (Le tesi del II Congresso sulle questioni nazionale e coloniale) il criterio di un avvicinamento in Germania tra il movimento comunista e il movimento nazionalista e patriottico. La pressione esercitata sulla Germania dagli Stati dell’Intesa, anche nelle forme acute e vessatorie che ha preso ultimamente, non è elemento tale che ci possa far considerare la Germania alla stregua di un piccolo paese di capitalismo arretrato. La Germania resta un grandissimo paese formidabilmente attrezzato in senso capitalistico, e in cui il proletariato socialmente e politicamente è più che avanzato… Un deplorevole rimpicciolimento è quello che riduce il compito del grande proletariato di Germania ad una emancipazione nazionale, quando noi attendiamo da questo proletariato e dal suo partito rivoluzionario che esso riesca a vincere non per sé ma per salvare l’esistenza e l’evoluzione economica della Russia e dei Soviet e per rovesciare contro le fortezze capitalistiche di occidente la fiumana della rivoluzione mondiale… Ecco come il dimenticare l’origine di principio delle soluzioni politiche comuniste può portare ad applicarle laddove mancano le condizioni che le hanno suggerite, sotto il pretesto che ogni più complicato espediente sia sempre utilmente adoperabile” (A. Bordiga, Il comunismo e la questione nazionale, in “Prometeo” nr.4 del 15 aprile 1924). Quanto alla nostra interpretazione del fascismo, si vedano i due rapporti tenuti dallo stesso Bordiga al IV e V Congresso dell’Internazionale Comunista.

  3. Per qualche mese del 1923, nel disperato sforzo di accattivarsi i “vagabondi nel nulla” della piccola borghesia, il KPD agirà in veste di compagno di strada dell’NSPD, gli oratori dei due gruppi alternandosi sulle stesse tribune per tuonare contro Versaglia e Poincaré ( la luna di miele durerà, è vero, lo spazio di un mattino, ma solo perché, fa vergogna il dirlo, i nazisti per primi denunzieranno l’ “alleanza” di fatto) suscitando sbigottimento e indignazione perfino nel partito cecoslovacco!

  4. Cfr.Protokoll der Konferenz der Erweiterten ExeKutive der Kommunistischen Internazionale, Moskau, 12-23 Juni 1923.

  5. Questa teorizzazione sarà svolta in particolare da Bucharin a partire dal V Esecutivo Allargato del marzo 1925 (si vedano gli accenni alla questione nella II parte delle nostre Tesi di Lione).

  6. Una brillantissima esposizione dell’audacia con cui Trotsky avrebbe voluto che si usassero, e subito si scavalcassero, le “formule algebriche” del “fronte unico” e del “governo operaio”, per porre in tutta la sua ampiezza ed urgenza il problema della conquista rivoluzionaria del potere, è ricordato da Bordiga in un articolo, La politica dell’Internazionale, pubblicato nel nr. 15, ottobre 1925, dell’ “Unità”insieme con le nostre obiezioni anche a questa interpretazione non certo da dozzina.

  7. Il resoconto dell’acre dibattito e delle imbarazzate risoluzioni si leggono in Die Lehren der deutschen Ereignissen, Amburgo, 1924.

  8. Citiamo dal protocollo tedesco del V Congresso (pagg.394-406): il testo italiano riprodotto nel nr. 7-8-1924 dello “Stato Operaio” non è infatti completo, mentre il testo del protocollo francese è scandalosamente mutilo. Non riproduciamo le Tesi sulla tattica dell’Internazionale ch ela Sinistra presentò allora, sostanzialmente analoghe a quelle presentate al IV: rinviate all’esame di un…futuro congresso, non se ne seppe più nulla!

  9. Alla fine del 1924, essendosi riscosso un numero di voti inferiori al previsto alle elezioni presidenziali, la Centrale di “sinistra” del KPD rimpiangerà in una risoluzione pubblica di non aver seguito il consiglio dell’Internazionale Comunista di condurre “la classe operaia tedesca, facendo blocco su un programma repubblicano minimo con i veri partigiani della repubblica, ad unirsi sul nome di un repubblicano militante nella lotta contro la reazione”. Si tornava pari pari al “governo operaio”, quale combinazione parlamentare addirittura con partiti borghesi, contro il pericolo “monarchico” incarnato da …Hindenburg.

  10. La nostra disperata battaglia, soli contro tutti, al VI Esecutivo Allargato dovrà essere e sarà oggetto di un’adeguata trattazione: si veda intanto il Protokoll Erweiterte Exekutive etc., Moskau 17Februar bis 15 März 1926, pp. 122-144, 283-289, 517,577, 609-611 e passim.

 

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