DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

Che cosa vuol dire comunismo...


"Certo però che, dopo l'esperienza dei paesi dell'Est, oggi è difficile parlare di comunismo", commenterà un po' sconsolato il nostro interlocutore.

Possiamo capirlo. Parlare di "comunismo" oggi significa innanzitutto rivoltare come un guanto l'idea che ci se n'è fatta per più di mezzo secolo, sotto l'influsso della propaganda staliniana, del gracidare opportunista-riformista-socialdemocratico, della stessa ideologia borghese. Significa smascherare la menzogna del "socialismo in un solo paese", del "socialismo reale". Proviamo a ricapitolare alcuni concetti basilari.

Il comunismo non è morto in URSS (e altrove), per la semplice ragione che in URSS (e altrove) economicamente non è mai nato. Comunismo significa abolizione del lavoro salariato, delle merci, del denaro, del profitto, della competizione economica, delle classi sociali, dello Stato. Mentre in URSS & Co. esistevano il lavoro salariato (gli operai ricevevano una paga), il denaro (come merce di scambio), il profitto (aziende e cooperative dovevano chiudere i bilanci in attivo), la competizione economica (c'erano un mercato interno e una progressiva apertura al mercato mondiale), classi sociali ben distinte, uno Stato agguerrito sia all'interno che all'esterno.

Se, prima del 1989 (prima, cioè, del crollo del "muro di Berlino", con tutte le sue drammatiche conseguenze), si fosse guardato alle cosiddette "due fette del mondo moderno" con occhi marxisti (dunque senza lasciarsi ingannare da quella tragica menzogna), ci si sarebbe accorti di una fondamentale somiglianza tra il modo di funzionamento e i risultati raggiunti da quelli che venivano definiti due sistemi diversi. Da entrambe le parti, le città crescevano a dismisura trasformando in deserto le campagne, la produzione di missili nucleari e carri armati avveniva a scapito dell'alimentazione di enormi masse umane, si sviluppavano la concorrenza tra operai, il lavoro salariato, l'alienazione e il dispotismo di fabbrica. Da entrambe le parti, imperversavano l'anarchia del mercato, le crisi periodiche, le giungle degli appetiti statali e le guerre di saccheggio e oppressione, si aveva accumulazione di ricchezza a un polo della società e miseria all'altro, si scontravano gli interessi di classi opposte, si gonfiava smisuratamente la macchina dello Stato, si tendeva sempre più a considerare burocrazia e polizia come i rappresentanti esclusivi degli interessi collettivi. Comunismo tutto ciò? Ma fateci il piacere!

Che cos'era dunque l'URSS? Per i comunisti internazionalisti, la risposta è sempre stata chiara. In URSS, sotto Stalin e successori, non vigeva il comunismo ma il capitalismo, un capitalismo in larga misura di Stato, gestito, in tutta una serie di settori, centralmente (mentre in altri settori, soprattutto nell'agricoltura, esistevano ancora forme diverse di piccola produzione, addirittura anche precapitalistiche). In URSS si stava cioè facendo quello che ogni regime borghese ha sempre fatto al tempo della sua "accumulazione originaria" e poi via via "allargata": creare le condizioni economiche di uno sviluppo capitalistico su larga scala grazie all'intervento centrale dello Stato. A Lenin e ai comunisti, tutto ciò era chiarissimo: dopo la rivoluzione del 1917, il potere politico dittatoriale proletario doveva assumersi il compito storico gigantesco di far uscire il paese dall'arretratezza economica ponendo le basi del comunismo (vale a dire, un'economia capitalistica pienamente sviluppata: espansione della grande industria, sviluppo della rete ferroviaria, incentivi alla cooperazione agricola su vasta scala, elettrificazione, ecc.), in attesa che la rivoluzione comunista scoppiasse e vincesse nell'Occidente economicamente avanzato. Queste erano le condizioni della vittoria del comunismo su una scala internazionale.

Ma la rivoluzione in Occidente non venne per l'incapacità di tutta una serie di partiti (e, a partire da un certo punto, della stessa Internazionale Comunista) di schierarsi su un fronte veramente rivoluzionario, e la Rivoluzione d'ottobre (schiacciata fra il ritardo dell'Occidente e l'emergere necessario delle forme economiche capitalistiche i Russia) si accartocciò su se stessa. La controrivoluzione staliniana, espressione proprio del giovane capitalismo russo, ribaltò infine quella possente visione strategica: distrusse il partito di Lenin sia fisicamente che teoricamente, proclamò "socialismo" quello che era "accumulazione capitalistica", teorizzò la possibilità di "costruire il socialismo in un paese solo". Questo fu il grande, tragico inganno: e dentro fino al collo in quell'inganno, che volle dire il sangue di milioni e milioni di persone, ci stanno non solo gli stalinisti convinti, ma anche tutti coloro, democratici e fascisti, che allo stalinismo hanno dato e danno la loro benedizione definendolo "comunismo".

"Ma, allora, che cosa è successo tra il 1989 e oggi?".É successo che quella forma capitalistica, che ha dominato la scena sovietica e i paesi satelliti, a un certo punto della sua storia ha esaurito la propria funzione. Anzi: è diventata un ostacolo, specie in presenza della crisi economica mondiale che s'è aperta a metà anni '70 e che già verso la fine di quel decennio aveva cominciato a toccare l'URSS. Era necessario dar libero sfogo alle energie accumulate sotto la protezione dello Stato, ai soggetti economici coltivati fin allora come in una serra e ora bisognosi di svilupparsi autonomamente, senza più vincoli o condizionamenti centrali. Ecco allora la "rottura" con la fase e la forma precedenti - una "rottura" che, ancora una volta. tutti i paesi borghesi hanno compiuto nella loro storia: da una gestione centralizzata statale a una di cosiddetto libero mercato (per poi tornare al dirigismo statale quando la situazione economico-sociale lo richieda: si pensi al fascismo).

Ma, allora, che cosa vuol dire davvero "comunismo"? Non è stato il marxismo a scoprire i caratteri della società comunista. Già prima del suo avvento, "comunismo" significava "comunione dei beni": cioè, messa in comune delle ricchezze sociali e razionale amministrazione di una società che non conoscesse né mercato, lavoro salariato, capitale, né classi sociali. Inoltre, tutta una fase dell'esperienza umana s'era andata svolgendo nel segno d'un "comunismo primitivo" (e dunque limitato e condizionato da un bassissimo livello di sviluppo delle forze produttive): lavoro in comune su terre comuni e godimento in comune dei prodotti di questo lavoro, come era successo agli albori della preistoria umana, prima dell'apparire delle classi, della divisione del lavoro. della proprietà privata.

Il marxismo ha liberato il comunismo dalle scorie utopistiche per presentarlo come il prodotto, non più della volontà e dei sogni (i famosi "piani" degli utopisti Fourier, Saint Simon, Owen), ma come conquista necessaria del movimento reale della società. Il capitalismo infatti spinge a fondo la divisione del lavoro e separa completamente il lavoratore dai mezzi di lavoro (attrezzi, macchine) e dai mezzi di sussistenza (alimentazione, alloggio). L'operaio, diventato un senza-riserve (pensate, oggi, alle masse enormi di senza-riserve africani e asiatici, presi nel vortice del processo di capitalistizzazione di quelle aree!), deve ormai passare attraverso il mercato per comprare i mezzi di sussistenza. Per far ciò, deve vendere la propria forza-lavoro al capitalista che si è accaparrato i mezzi di produzione (e che può anche non esistere come persona fisica: può essere una società anonima, o lo Stato) e che, possedendo il prodotto del lavoro, intasca il grosso della ricchezza creata dai lavoratori, ricchezza di cui questi ultimi sono dunque legalmente spossessati. Di più, il proletario può far vivere i suoi familiari solo nella misura in cui le sue braccia continuano a essere utili al capitale (pensate ad autentiche piaghe sociali come il lavoro minorile, l'emigrazione, la prostituzione).

Questo rapporto sociale sprofonda le grandi masse in una miseria sempre più nera. Ma, aumentando fortemente la produttività del lavoro e collegando tutte le unità produttive in vaste concentrazioni alla scala mondiale, esso crea anche la condizione (ma solo la condizione) per soddisfare i bisogni umani e gestire unitariamente e internazionalmente le ricchezze prodotte. Non vi è dunque da "costruire" il socialismo (come se fosse un giocattolo Lego), ma da far corrispondere il modo di appropriazione delle ricchezze (che oggi è privato) al carattere già sociale (cioè collettivo, comune) della loro produzione.

Soprattutto, ed è la cosa più importante, mentre gli utopisti volevano "introdurre" il comunismo predicando la buona novella e si rivolgevano per questo ai governi o agli imprenditori illuminati, il marxismo dimostra che il capitalismo produce esso stesso i suoi becchini. Crea, con il proletariato moderno, una classe che il capitale stesso tende a concentrare e a unificare e che condanna a lottare per vivere; la sola classe che, da quando è comparsa la società divisa in classi, non abbia sotto di sé altre classi da sfruttare e che dunque, liberando se stessa, non può far altro che liberare l'intera umanità. La forza, insomma, che è in grado di assicurare il parto, doloroso e traumatico come tutti i parti, della nuova società.

Per arrivare a ciò, la lotta della moderna classe operaia, condotta sotto la guida del partito comunista (dotato di un programma e di una strategia mondiali), deve spingersi fino alla conquista del potere politico. Il proletariato instaurerà allora la sua dittatura di classe per il tempo necessario a schiacciare con il terrore qualunque tentativo di opposizione delle classi vinte e ormai inutili, a concentrare nelle proprie mani i mezzi di produzione e di scambio, a spezzare i rapporti di produzione esistenti, a cancellare inerzie e abitudini secolari.

Naturalmente, la trasformazione comunista della società potrà attuarsi in grande solo quando il potere internazionale del proletariato sarà consolidato da una vittoria decisiva nelle grandi fortezze imperialiste, veri e propri centri dell'economia mondiale e gendarmi del pianeta. E, altrettanto naturalmente, sarà necessario un certo periodo di tempo perché dalle macerie della vecchia società una nuova generazione, umana, nasca nelle condizioni del comunismo.

E questo il fine del movimento di lotta che si chiama "comunismo" e che non si fonda su un"'opinione fra le tante", su un "progetto culturale", su uno "slancio etico". In gioco non sono le banalità filistee di "una maggiore giustizia sociale", di "una migliore qualità della vita", di una "diversa distribuzione della ricchezza": tutte frasi retoriche che lasciano le cose esattamente come stanno perché non toccano mai la natura profonda del sistema capitalistico. In gioco è il trapasso storico da un modo di produzione a un altro, come avvenne quando si passò dallo schiavismo al feudalesimo, dal feudalesimo al capitalismo: ma con la differenza sostanziale che, abolendo la divisione in classi, il comunismo farà davvero uscire l'umanità dalla preistoria dello sfruttamento, dell'oppressione, della distruzione.

Nella società che si evolverà da questa trasformazione (trasformazione che - ripetiamolo - è radicale, totale, e non una fotocopia ingiallita del sistema precedente!), sarà ormai inutile qualunque forma di dittatura, qualunque potere politico statale, poiché le basi economiche della differenziazione in classi sociali saranno scomparse. Ma, mentre la crisi rivoluzionaria, la presa del potere, la dittatura proletaria sono tagli netti e verticali, i cambiamenti di tipo economico-sociale sono necessariamente più lenti e devono tener conto di tutta una serie di situazioni particolari (per esempio, la disparità dello stadio di sviluppo delle forze produttive). Dunque, nel comunismo inferiore o socialismo, esisterà ancora un certo grado di costrizione sociale che si manifesterà soprattutto nella regola: "A ciascuno secondo il suo lavoro". Il falso "socialismo reale" di ieri pretendeva di veder realizzata questa regola nel... lavoro salariato (quindi, in uno scambio "merce contro merce"). Il "comunismo inferiore" prevede invece l'introduzione del buono di lavoro, uno scontrino che rappresenta un diritto sui beni prodotti proporzionale al lavoro effettivamente prestato da ogni produttore (dedotte le risorse destinate a soddisfare bisogni sociali generali), e che non è denaro perché non può essere né risparmiato né accumulato, "non circola" (come invece fa il denaro).

Solo quando si produrrà in quantità sufficiente potrà scomparire ogni costrizione sociale e la società, entrando nel comunismo superiore, potrà inscrivere sulla sua bandiera: "Da ognuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni". Non più sottomessa alle cieche leggi economiche nascenti dall'anarchia del mercato, l'umanità non la farà soltanto finita con le crisi, le guerre sterminatrici, gli odii nazionali. Liberata dall'oppressione del produrre per il profitto, della competizione per i mercati, della produzione per la produzione, essa potrà organizzare la produzione mondiale in maniera cosciente, secondo un piano razionale che regolerà i rapporti finalmente armoniosi tra produzione, consumo e popolazione, oggi sempre più squilibrati dal gonfiarsi senza limite del capitalismo.

Potrà, in particolare, dedicare efficacemente i suoi sforzi a risolvere il problema cruciale dell'agricoltura e dell'alimentazione, settori crudelmente trascurati dal capitalismo per la semplice ragione che in essi il profitto è troppo esiguo. Per riuscirvi, l'industria dei paesi "avanzati", costruita con il sudore e il sangue di generazioni e generazioni di tutti i continenti, sarà posta senza indugio al servizio della modernizzazione dell'agricoltura dei paesi "arretrati", senza contropartita (cosa impensabile sotto il capitalismo!). Ciò contribuirà potentemente a colmare l'abisso scavato dall'imperialismo tra le diverse razze e nazionalità e ne favorirà la libera unione internazionale: il crogiolo dal quale uscirà la società dell'umanità finalmente unificata.

Non più dominata dalle forze esterne e nemiche del capitale, ormai padrona del proprio destino, la società comunista da un lato sarà in grado di dominare anche le formidabili forze che la scienza moderna ha saputo strappare alla natura (ma che, nelle mani del capitale, diventano spesso tremendi pericoli), e dall'altro potrà superare definitivamente la paura, l'oscurantismo, la religione.

Diventando razionale la produzione, cesseranno il saccheggio e la distruzione della natura oggi perpetrati, e la divisione tra città e campagna potrà essere via via superata attraverso un'equilibrata ripartizione dell'attività produttiva su tutta la crosta terrestre, eliminando così, grazie a questi due fattori, la minaccia dell'inquinamento di ogni genere. Si cesserà inoltre di dilapidare selvaggiamente le risorse umane, perché l'umanità non sarà più forza-lavoro per il capitale e la produzione potrà essere messa al servizio dei bisogni dell'umanità. Con la fine del capitale e del sistema salariato, e dunque con la fine dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, non sarà solo l'alternativa fra abbrutimento del lavoro e disoccupazione crescente a essere distrutta. Il comunismo, infatti, farà partecipare tutta la popolazione al lavoro sociale nella misura delle capacità di ciascuno, il che suppone uno sforzo diverso a seconda dell'età e quindi a esclusione dei bambini e dei malati. La società potrà allora - grazie alla diffusione dei procedimenti più moderni strappati al monopolio della proprietà privata e all'eliminazione di tutte le attività pericolose e inutili (dalla fabbricazione delle armi alla polizia e alla contabilità in partita doppia) - diminuire radicalmente il tempo di lavoro, fino a limitarlo allo stretto necessario: forse meno di due ore al giorno a scala mondiale, in base alla tecnologia attuale.

A questa misura, che già la dittatura proletaria mette al centro del suo programma, si accompagnerà l'eliminazione dell'antitesi tra scuola e produzione e si porrà così fine agli stupidi vaniloqui che passano oggi per il non plus ultra della cultura. Allo stesso modo, si introdurrà la completa
socializzazione dei lavori domestici, dalle pulizie all'educazione dei bambini, strappando definitivamente la donna alla millenaria schiavitù e all'inferiorità sociale di cui è oggi vittima.

Questi rivoluzionamenti delle condizioni di lavoro e di vita sopprimeranno le basi dell'antagonismo fra i sessi e fra le generazioni, particolarmente insopportabile sotto il capitalismo; e, a loro volta, trasformeranno completamente i rapporti fra vita collettiva e vita "privata" (la quale ultima oggi esiste ormai solo per essere calpestata quotidianamente o per venire spesso trasformata nella più abominevole solitudine e miseria individuale). Anche i rapporti fra svago e lavoro, e le stesse condizioni ambientali, saranno radicalmente trasformati, e le generazioni che nasceranno libere dal giogo del capitalismo potranno dedicarsi a ben altre questioni importanti, avendo questa volta i mezzi per risolverle. La drastica riduzione del tempo di lavoro, in particolare, non si limiterà a sollevare l'umanità dalla fatica e dalle malattie provocate dalla corsa sfrenata al profitto, ma permetterà a tutti i produttori di partecipare all'attività intellettuale, si tratti delle scienze naturali, della vita sociale, della letteratura e dell'arte, che torneranno ad acquistare la dimensione collettiva che avevano all'alba della preistoria umana. Saranno allora realizzate le condizioni per superare definitivamente la divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, sulla quale si sono sviluppate le classi sociali, e per farla finita con l'abbrutente condanna a lavori ripetitivi e a specializzazioni esclusive, il "mestiere" e la "carriera" tanto incensati dall'ideologia borghese. Ogni membro della società avrà a cuore la partecipazione anche ai compiti ingrati ma necessari e potrà esercitare le proprie capacità a favore della collettività nei più diversi campi dell'attività sociale.

Con la fine della divisione del lavoro, i compiti amministrativi, anch'essi ormai ridotti e del tutto semplificati dall'eliminazione del mercato e del valore di scambio propri del sistema capitalistico, potranno essere ripartiti fra tutti i membri della società e la sopravvivenza della macchina amministrativa separata dalla popolazione (che è oggi uno dei fondamenti dello Stato) avrà perduto ogni giustificazione. In una società così fatta, da cui sarà definitivamente scomparsa la guerra di tutti contro tutti e ogni forma di individualismo, sarà pure scomparsa qualunque duratura opposizione tra individuo e società. Nella società della specie unita, la partecipazione allo sforzo collettivo sarà divenuta il primo bisogno vitale, e il libero sviluppo di ciascuno "la condizione del libero sviluppo di tutti".
E questo l'avvenire per il quale hanno combattuto intere generazioni, per il quale milioni di proletari anonimi hanno già versato il loro sangue, in una lotta che ha ormai toccato tutti i continenti. È questo il comunismo.

"No, questa è utopia!", esclamerà il nostro interlocutore. Alt! Utopia è disegnare una società ideale senza tener conto delle condizioni materiali perché essa possa nascere e senza indicare la strada che le stesse condizioni materiali tracciano per giungervi. È voler raggiungere la Luna con l'aereo a pedali. Storicamente, ogni problema si pone in maniera reale quando ci sono le possibilità e le condizioni di una sua soluzione. Le possibilità e le condizioni oggettive del comunismo sono già dentro la società capitalista stessa: l'alto (fin troppo alto!) livello raggiunto dai mezzi di produzione, la globalizzazione del sistema economico, la presenza a livello mondiale d'una classe di senza riserve. Bisogna lavorare alla costruzione delle condizioni soggettive: il partito in grado di guidare il processo rivoluzionario. Ma sia le condizioni oggettive sia quelle soggettive sono ormai ben chiare ai comunisti, non sono un mistero inestricabile o un articolo di fede!

D'altra parte, è forse utopia la nostra che indica con chiarezza l'obiettivo e i mezzi per raggiungerlo (organizzazione del partito rivoluzionario, suo radicamento tra le masse a livello internazionale, aumento delle contraddizioni economico-sociali, ripresa generale della lotta di classe, scoppio della rivoluzione diretta dal partito, presa del potere e instaurazione della dittatura proletaria, interventi dispotici nell'economia per introdurre un sistema economico radicalmente diverso)? 0 non è piuttosto utopia quella di tutti coloro che, lasciando immutato il sistema del capitale, del mercato, del profitto, della merce, della competizione, si trastullano con progetti di "sviluppo sostenibile" o di "commercio equo e solidale", s'appellano alla coscienza degli uomini di buona volontà per fermare guerre sempre più frequenti e sanguinose, spediscono medicinali per risolvere il dramma di carestie ed epidemie incessanti in regioni sconfinate della terra, propongono di incrementare lo sviluppo dei paesi arretrati per eliminare la tragica piaga dell'emigrazione (mentre proprio l'impianto travolgente del sistema capitalistico in quelle regioni, le sue necessità internazionali e le sue tipiche crisi ricorrenti, sono all'origine di questo tragico fenomeno)? Questa sì che è utopia, e della peggior specie perché non è innocua: illude milioni di persone e così contribuisce alla sopravvivenza e al rafforzamento del sistema stesso che produce i malanni di cui sopra.

"Già, però questo 'comunismo' di cui parlate non c'è da nessuna parte, lo dite voi stessi!". Davvero triste il modo di pensare di chi ritiene possibile solo ciò che già esiste e si rifiuta di lottare per qualcosa che ancora non è, ma è possibile e anzi necessario. E un po' come se i fratelli Wright non si fossero messi all'opera per creare una macchina capace di volare, visto che... macchine simili non esistevano da nessuna parte! Ciò che deve ancora nascere non esiste ancora: è elementare. Anche la società borghese non esisteva ancora, quando i primi rivoluzionari borghesi si sono messi a combattere la società feudale. E allora? Un'obiezione simile è proprio caratteristica dell'assoluta passività, dell'ottundimento delle facoltà mentali, indotti da un'ideologia che sbandiera a ogni secondo che questo è "Il migliore dei mondi possibili".

Ed è poi, come abbiamo già detto, un'osservazione falsa. C'è stato un "comunismo primitivo" che per il basso livello delle forze produttive ha dovuto lasciare il posto alla società divisa in classi. C'è stata l'esperienza della Comune parigina del 1871, che ha mostrato come sia possibile riorganizzare in altro modo la vita associata (e quali errori vadano evitati nel fare ciò). C'è stata l'esperienza dei primi anni della Rivoluzione d'Ottobre che ha mostrato la via lungo la quale bisogna incamminarsi (e, di nuovo, in quali errori di strategia internazionale non si deve cadere).

"Sì, però, son centocinquant'anni di fallimenti" E con ciò? Per arrivare a instaurare il proprio potere su scala mondiale sconfiggendo il feudalesimo, la borghesia ha impiegato circa cinquecento anni: dai primi tentativi dei Comuni italiani fino alla Rivoluzione Francese del 1789 (e, in certe aree del pianeta, anche fino a molto dopo!). Cinquecento anni di gloriose battaglie, di sanguinose sconfitte, di lunghi periodi di oscurità, di orgogliose impennate, e infine di vittoria totale. Chi ci fa quell'obiezione farebbe meglio ad abbandonare quella fretta immediatista che è tipica dell'ideologia borghese del concludere al più presto l'affare, ricordando che i comunisti lavorano per il futuro della specie. Si legge in un nostro testo del 1965: "è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l'anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l'arco millenario che lega l'ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nell'armonia gioiosa dell'uomo sociale" (Considerazioni sull'organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole).

...e che cosa vuol dire essere comunisti

Naturalmente, questo è un discorso che, trattato per esteso, occuperebbe pagine e pagine. Si tratterebbe infatti, in pratica, di riassumere il "programma" del comunismo e dunque dovremmo rinviare a tutti i nostri testi e alla nostra tradizione, esperienza e attività di partito il lettore sinceramente interessato a capire e desideroso di ritrovare la via della rivoluzione. E qui, per motivi evidenti, non si può fare. Esistono però alcuni punti-fissi che contraddistinguono nettamente i comunisti rivoluzionari. Proviamo a vederli.

Essere comunisti significa essere antidemocratici. La democrazia è la forma della rivoluzione e del dominio borghesi. Rivendicare l'uguaglianza di tutti gli individui è stata un'arma potente per combattere la chiusura, rigidità e gerarchia tipiche della società feudale. Ma la nuova società uscita dalla rivoluzione borghese non ha mai conosciuto l'uguaglianza, per il semplice motivo che si trattava ancora di una società divisa in classi e dominata dall'imperativo delle leggi economiche capitalistiche. L'uguaglianza era per i borghesi, i proletari conoscevano solo la necessità.

Le cose non sono cambiate con il passare dei secoli. La democrazia resta anzi il miglior involucro per il dominio borghese: quello che meglio illude i singoli individui d'essere liberi e padroni del proprio destino, mentre forze materiali enormi li schiacciano nell'obbedienza a leggi, ritmi, sviluppi e imprevisti che sfuggono loro totalmente. Inoltre, da quando il capitalismo mondiale ha raggiunto la fase imperialista (dominata dal capitale finanziario e dai grandi blocchi di paesi dominanti), questa democrazia si è sempre più svuotata - è diventata una figura retorica che nasconde un'evoluzione sostanziale di stampo sempre più centralizzato, autoritario, fascista.

Democrazia e fascismo non sono infatti in reciproca opposizione, ma dialogano fra loro con l'unica finalità di mantenere saldo il dominio del capitale. È evidente che i comunisti non sanno che cosa farsene d'un concetto come quello di democrazia, che d'altra parte, fin nell'origine del termine, dimostra la propria fondamentale ipocrisia. In greco, "democrazia" significa infatti "potere del popolo, potere di tutti": ma, proprio nella classica democrazia greca, da questo "potere di tutti" erano poi esclusi gli schiavi, gli iloti, gli stranieri. La democrazia non ha dunque nulla a che vedere con il comunismo che, abolendo le classi, sarà la prima vera attuazione dell'uguaglianza: non più per alcuni, ma per l'intera specie umana.
La democrazia non serve ai comunisti né come prassi interna di partito né come strumento di cui servirsi per accrescere l'influenza del partito, né come strumento del proprio Potere una volta sconfitta la borghesia. Il partito comunista è un partito disciplinato, fondato sul centralismo organico: vale a dire, il processo attraverso cui, esattamente come in un organismo vivente, centro e periferia, organi direttivi e organi esecutivi, sono strettamente e dialetticamente collegati, perché agiscono tutti sulla base della conoscenza integrale della teoria, del programma, della strategia, della tattica di partito. E non hanno bisogno di accidenti democratici interni per definire la propria gerarchia, che è frutto della selezione naturale di compagni che lavorano tutti a un comune obiettivo finale, senza privilegi, senza mire carrieristiche, senza riconoscimenti formali o materiali.

D'altra parte, i comunisti dichiarano apertamente i propri fini. Non nascondono a nessuno che, un volta conquistato il potere, essi lo eserciteranno in maniera dittatoriale, perché questo è l'unico modo per compiere quell'operazione chirurgica consistente nel farla finita con la vecchia società - un'operazione chirurgica che sarà lunga, dolorosa e complessa, perché secoli e secoli di dominio di classe non scompaiono in un batter d'occhio. La resistenza della classe vinta sarà feroce e le stesse abitudini e mentalità alimentate da tutta la storia dell'individualismo e localismo borghesi, della competizione e sopraffazione capitalistica, eserciteranno un'inerzia tremenda. Solo quindi un partito fondato su un sicuro programma e strettamente collegato alle grandi masse operaie e di senza-riserve che per la prima volta si risvegliano realmente alla politica potrà realizzare in pieno la dittatura del proletariato - questa fase storica di trapasso senza la quale per il comunismo (come nuova storia della specie, e non di una classe privilegiata o di un manipolo di sfruttatori) non c'è possibilità di vittoria.

Il discorso sulla democrazia porta con sé una conseguenza inevitabile. Essere comunisti significa essere antiparlamentari. Per tutta una prima fase d'esistenza della società borghese, il parlamento ha costituito una delle arene di lotta per i comunisti. Di certo, non la più importante: fin dagli inizi, ai comunisti era chiaro (si vedano le Tesi sul Parlamentarismo della III Internazionale, 1920) che il parlamento era soprattutto il luogo dell'illusione democratica, mentre le vere, sostanziali decisioni relative alla vita economica-sociale venivano prese fuori del parlamento. E credere che la classe dominante (pronta a reprimere con la forza qualunque espressione di classe organizzata dei lavoratori) fosse tanto ingenua da affidare la propria sopravvivenza al responso dell'urna era non solo un'ingenuità, ma un vero suicidio politico.

Ciò non toglie che per tutta una prima fase i comunisti abbiano giudicato utile usare il parlamento, esclusivamente come tribuna da cui far sentire la propria voce e dimostrando nei fatti l'antitesi tra lotta di classe e forme del potere borghese, non importa quanto democratiche. Era una tattica che poteva servire, non dimenticando che la reale arena di scontro fra borghesia e lavoratori era fuori del parlamento: nelle fabbriche, nelle strade, nelle piazze.

Utile per i paesi di giovanissima democrazia o per quei paesi in cui stava verificandosi il trapasso da feudalesimo a capitalismo, questa tattica diventava però del tutto inutile e anzi dannosa in quei paesi abituati da secoli alla democrazia, in cui il parlamentarismo era ormai solo una droga potentissima per addormentare la volontà di lotta delle grandi masse. Nella fase imperialistica, si è poi completato il processo per cui le vere decisioni economico-sociali vengono discusse e decise da organismi del tutto separati da quelli della politica rappresentativa: le banche, la Confindustria, il Fondo Monetario Internazionale, ecc. - sono questi i veli organi del dominio borghese, che rappresentano gli interessi generali e internazionali del capitale, assoggettando a sé i singoli Stati e, via via, i singoli governi e parlamenti nazionali e parlamentini locali.

A questo punto, la parola d'ordine dei comunisti può solo essere, ancor più nettamente, antiparlamentarista e antielezionista. D'altra parte, le modalità stesse delle elezioni (la loro frequenza ormai ossessiva. il costo mostruoso di ogni tornata elettorale, il polverone televisivo che sollevano, la paralisi di ogni attività rivendicativa e politica che esse impongono) sono la dimostrazione migliore della loro funzione: ingabbiare le energie proletarie, sviarle dal terreno della lotta di classe, illuderle di poter contare una volta ogni tanto. Noi diciamo invece: fuori da queste illusioni, per tornare a una visione ampia della lotta politica, fuori dalle secche frustranti di appuntamenti inutili per i lavoratori, ma utilissimi per la classe che li sfrutta!

Essere comunisti significa essere antilocalisti e antifederalisti. Localismo e federalismo sono due concetti squisitamente borghesi (se non addirittura pre-borghesi, feudali). Appartengono a una fase storica circoscritta nel tempo, in cui la struttura economica era ancora organizzata a isole, con soggetti economici separati e indipendenti, ancora in grado - visto il limitato sviluppo delle forze produttive - di interagire entro cerchie ristrette. Ma, da quando il capitalismo s'è affermato su larga scala (e in particolare da quando ha imboccato la via senza ritorno dell'imperialismo), questa fase è stata definitivamente superata. E localismo e federalismo sono diventati altre tremende illusioni, autentici miti paralizzanti.

In economia e in politica, la scena mondiale è dominata dai grandi colossi, spinti tendenzialmente a divorare i piccoli e a invadere ogni angolo del pianeta. Il capitale è penetrato ovunque e la globalizzazione del mercato è ormai una realtà decennale. Pensare di tornare ad aprire sentieri di indipendenza e autonomia appartiene alla cecità del piccolo borghese terrorizzato da quanto gli succede intorno, che non capisce e preferisce non capire e lasciarsi cullare dall'illusione di poter condurre, in gelosa autonomia, la propria bottega, i propri affari. Significa credere di poter far girare all'indietro la ruota della storia, con l'accordo passivo di tutte quelle mostruose forze economiche che spingono invece verso la globalizzazione e la centralizzazione. Significa credere, per esempio, che un Meridione fiscalmente ed economicamente autonomo (ma come?) dal Settentrione non sia destinato inevitabilmente a dipendere, fiscalmente ed economicamente, dal Settentrione. Significa immaginare, per esempio, che quella del "piccolo è bello" possa essere una situazione statica, mentre è il continuo movimento e sommovimento a caratterizzare il capitale, la cui legge fondamentale è quella di crescere, non di rimanere piccolo. Siamo, qui davvero, nel campo della totale utopia!

Essere comunisti significa essere antinazionali. La sistemazione in nazioni ha costituito la forma storica dell'avvento al potere della classe borghese. Entro confini disegnati da lunghe e complesse vicende, la classe dominante nazionale poteva svolgere il proprio ruolo economico-politico, in un rapporto dialettico (di volta in volta, pacifico commercio o scontro armato) con altre classi dominanti nazionali. Facendo leva sul mito della "nazione una e indivisibile", la classe dominante ha alimentato l'inganno che missione storica dei proletari fosse quella di identificarsi con la nazione (il suo Stato, la sua economia), difendendola a spada tratta ogni volta che fosse minacciata.

Fin dal 1848, i comunisti hanno messo a nudo quest'inganno. La sistemazione nazionale era un importante passo avanti rispetto allo spezzettamento feudale, ma aveva tutte le stimmate del dominio borghese. Una volta esaurita la fase delle lotte rivoluzionarie nazionali contro i vecchi regimi, i proletari non avevano più nulla da spartire con essa. Essi erano (e a maggior ragione sono nell'epoca dell'imperialismo, dell'ormai completa penetrazione del capitalismo in ogni area del pianeta, dell'emigrazione di massa) senza patria.

D'altra parte, non solo il comunismo come sistema economico-sociale è per sua essenza (l'abbiamo già dimostrato) internazionale, insofferente di ogni limitazione geografica; ma lo stesso capitalismo come sistema economico-sociale, pur esaltando di continuo i miti della nazione e facendo leva su di essi ogni volta che sia necessario al fine di guerre e contrasti inter-imperialistici, è ormai giunto a uno sviluppo sovranazionale: proprio questa contraddizione fra livello internazionale raggiunto dalle forze produttive capitalistiche e orizzonte nazionale del discorso ideologico borghese è uno dei limiti invalicabili che rendono necessaria la morte storica del capitalismo.

Ma essere antinazionali non significa solo essere antipatriottici, rifiutare cioè di cadere nell'equivoco dell'esaltazione e difesa di una "patria nazionale" che per i proletari non esiste. Significa anche riconoscere apertamente che lo Stato, che su quei confini nazionali è stato costruito, non è altro che la macchina che difende gli interessi della classe dominante. non dunque un organismo al di sopra delle classi, una sorta di "buon padre" che amministra imparzialmente la vita sociale ed economica della collettività, ma - come avvenne storicamente per ogni Stato (e come sarà anche per lo "Stato della dittatura proletaria") - uno strumento di coercizione di classe. Solo con il comunismo, e dunque con l'abolizione delle classi, scomparirà l'esigenza di tale strumento di coercizione, perché allora l'umanità non ne avrà più bisogno.

Ma essere antinazionali significa anche non cadere nell'inganno, oggi particolarmente insidioso e diffuso, secondo cui l'economia nazionale sarebbe "l'economia di tutti" L'economia nazionale è l'economia del capitale e non esistono interessi comuni fra capitale e lavoro. Se aumentano produzione ed esportazione, a goderne è il capitale, e certo non il lavoratore, che paga quegli aumenti con pena e fatica accresciute. Se aumentano il PNL o la competitività delle merci nazionali, ciò non si traduce in un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della massa proletaria, perché i profitti non vengono graziosamente distribuiti, ma reinvestiti nel processo produttivo a esclusivo vantaggio del capitale. Inchinarsi alle "esigenze superiori dell'economia nazionale" e accettare di compiere sacrifici in suo nome significa insomma ammettere passivamente la propria subordinazione alle necessità della classe al potere. Non solo: significa anche, un domani in cui quelle esigenze lo richiedano, accettare di schierarsi in guerra contro proletari di un altro paese, ingannati allo stesso modo.

La posizione antinazionale dei comunisti implica infatti anche una posizione netta e decisa nei confronti di tutte quelle guerre che scaturiscono inevitabilmente dalla fase imperialistica del capitalismo. In questa fase, le guerre (non importa se combattute in nome della Nazione e della Patria, della Libertà e dell'Umanità) non hanno più l'obiettivo di spazzar via residui di sistemi economico-sociali superati o di affermare un ideale eticopolitico su un altro. Punto d'arrivo inevitabile di tutto un ciclo economico (boom, saturazione, crisi), esse hanno l'unico obiettivo di distruggere quanto si è prodotto in eccesso (merci ed esseri umani), perché quel ciclo infernale possa riprendere da capo. I comunisti sono dunque contro di esse perché rappresentano l'espressione più cruda della putrefazione che s'è ormai impadronita d'un sistema economico e sociale moribondo.

Ma i comunisti non sono contro le guerre in nome di un generico pacifismo: il pacifismo è (ed è sempre stato) impotente a fermarle e, proprio perché fondato su un"'opzione morale", s'è sempre trasformato in "interventismo" ogniqualvolta la propaganda bellicista di uno Stato o dell'altro abbia sufficientemente suonato la grancassa della "barbarie del nemico" o del "cattivo" di turno. D'altra parte, i comunisti non possono essere pacifisti o non-violenti, perché sanno bene che il trapasso da un sistema economico-sociale all'altro non può avvenire pacificamente, dovrà essere un violento "assalto al cielo". E dunque combattono i miti paralizzanti del pacifismo e della non-violenza, ricordando ai proletari che non devono cadere nell'inganno di guerre combattute nell'interesse altrui, ma devono riservare le proprie energie e il proprio sangue per l'unica guerra che li interessi: quella rivoluzionaria per il comunismo.

"Mi sembra di capire", dirà allora il nostro solito interlocutore, "che per voi è necessario concentrare le energie del Partito nella preparazione politica, teorica, pratica della soluzione estrema, della rivoluzione e della dittatura proletarie... Ma, intanto, gli operai, i proletari, vanno abbandonati a se stessi nelle lotte quotidiane di difesa delle condizioni di vita e di lavoro? o addirittura queste lotte sono inutili?"

Nient'affatto! Non saremmo comunisti, se dicessimo che quelle lotte sono inutili o che non importano al Partito che lavora per la rivoluzione! È invece proprio in quelle lotte che la classe oppressa prende a poco a poco coscienza della necessità della finale battaglia rivoluzionaria. Dunque, l'intervento nelle lotte rivendicative e negli organismi nati dal loro seno (gli stessi sindacati ufficiali o altri organismi autonomi) per imprimer loro un orientamento classista è parte essenziale del compito del Partito, è parte integrante del suo bagaglio storico, della sua mai interrotta tradizione.

A questo punto, si pone di nuovo il quesito che Lenin aveva posto nel 1903: che fare?

Che fare?

La domanda si pone oggi con urgenza ancor più drammatica di quando se la poneva Lenin, nel 1903, scrivendo l'opuscolo omonimo. Quella era infatti un'epoca di scioperi grandi e vigorosi e se ancora mancava il partito rivoluzionario esisteva però una generazione di militanti di grande esperienza da selezionare, indirizzare e inquadrare in un'organizzazione politica di lotta. Oggi, la classe operaia subisce il peso mortale delle illusioni riformiste, delle teorie bastarde sul "post-industriale", sulla "telematica e automazione come fase nuova della storia", sulla "scomparsa della classe operaia", e, più in generale, della controrivoluzione staliniana. Per i comunisti internazionalisti, è quindi evidente che si tratta di ricominciare pressoché da capo: sulla base però di un enorme patrimonio teorico-strategico e di un grande bagaglio di esperienze pratiche.

É chiaro che per noi il punto centrale, quello intorno a cui ruota tutto, è la riorganizzazione del partito a livello internazionale. Se non si lavora a quest'obiettivo, qualunque lotta, anche coraggiosa, anche - in date situazioni storiche - eroica, è destinata al fallimento. E la classe operaia mondiale esce da troppi decenni di tragiche sconfitte per imboccare di nuovo una strada destinata al fallimento.

Riaffermare e diffondere il programma del marxismo rivoluzionario è nostro compito primario: ma ciò si può fare solo nell'ambito di una più ampia e generale attività che, inevitabilmente, è di partito. Non esistono su questo piano né divisioni del lavoro ("noi ci occupiamo di rendere conosciuta la teoria marxista, voi... né stadi successivi ("prima ristabiliamo la corretta teoria marxista, poi...). Ragionare in questo modo significa ragionare in maniera del tutto non materialista, significa essere fuori del marxismo, perché il marxismo non è una filosofia o un'opinione, ma un'arma di battaglia, lo strumento grazie al quale è possibile dirigere l'attacco a un modo di produzione ormai superato e, attraverso la dittatura del proletariato, fare entrare finalmente l'umanità nella società senza classi.

Quest'organizzazione a livello mondiale oggi non esiste. Bisognerà dunque indirizzare i nostri sforzi affinché il piccolo nucleo militante che siamo oggi diventi una struttura davvero internazionale e internazionalmente operi da partito. Chi s'avvicina a noi comprenderà bene come questo bisogno d'internazionalismo non possa restare frase retorica o aspirazione sentimentale. Esso deve disporre di cuore e cervello, di gambe e braccia, per divenire infine realtà.
Per questo, il concetto e la pratica dell'internazionalismo sono al centro della nostra attività teorica e pratica, di propaganda e di proselitismo. Proprio su questo terreno, negli ultimi decenni, la classe operaia mondiale ha subito la sconfitta più cocente: dalla bastarda teoria del "socialismo in un solo paese" alla proclamazione delle "vie nazionali al socialismo", fino a tutti gli episodi di "guerre fra i poveri" o di artificiose contrapposizioni fra settori d'una classe che può essere vittoriosa solo se è unita.

É chiaro d'altra parte che questa diffusione internazionale può avvenire solo sulla base della più rigorosa accettazione del marxismo e delle nostre tesi classiche. Il partito non si forma accorpando insieme gruppi diversi, ma attraverso un processo di selezione di elementi di avanguardia che comprendono l'inutilità delle strade precedenti e l'inevitabilità della nostra. Niente pateracchi o arlecchinate, niente arcobaleni o cespugli, dunque, specie in una fase come questa di bassissimo potenziale rivoluzionario; ma adesione individuale al nostro programma di partito.

La difesa della teoria sarà ancora e sempre nostro compito primario, sia nella riorganizzazione del partito a livello mondiale sia nell'attività quotidiana, di partecipazione alle lotte, di propaganda e di proselitismo. Senza questa difesa (che vuol dire tornare all'ABC del marxismo per quanto riguarda ogni episodio, grande o piccolo, della vita sociale), cadremmo in uno sterile attivismo, in un caleidoscopio di azioni senza progetto: annegheremmo nel "fare oggi" svincolato da qualunque prospettiva di sviluppo rivoluzionario. E renderemmo un ben misero servizio a una classe operaia fin troppo martoriata dagli effetti disastrosi di un concretismo e pragmatismo privi di principi che s'illude (e, quel che è peggio, illude) che la via rivoluzionaria non sia altro che un bruto accumulo di azioni, interventi, volantinaggi.

Per noi, difesa della teoria significa: analisi del reale alla luce del marxismo, critica dell'ideologia dominante, demistificazione di tutte le posizioni che si dichiarano comuniste essendo invece ben lontane dal comunismo, preparazione politica dei militanti all'interno d'un lavoro collettivo di partito, indirizzamento delle lotte operaie e partecipazione a esse là dove ci sia possibile, irrobustimento, radicamento e diffusione dell'organizzazione-partito.

Da questo punto di vista, il nostro giornale deve essere sempre più quell'organizzatore collettivo di cui parlava Lenin nel Che fare? Il giornale comunista deve essere nello stesso tempo uno strumento per formare i militanti, un punto di riferimento per la classe nelle sue battaglie quotidiane, uno specchio della vita pulsante del partito. È anche per questo che il nostro giornale non reca firme: le posizioni che esprime non sono frutto dell'opinione personale dei singoli, ma patrimonio collettivo, e come tale il lettore deve percepirlo e farlo proprio - contro tutte le misere abitudini individualistiche e personalistiche che caratterizzano invece (e non a caso) il mondo dei media borghesi.

Ma questa difesa della teoria s'accompagna necessariamente a un impegno serio e costante di lavoro a stretto contatto con la classe, nei limiti che le nostre forze ci permettono. Ora, questo lavoro a contatto con la classe è tutt'altro che semplice, e dunque non può essere impostato a tavolino in maniera volontaristica. Esso è costretto a tener conto dei disastri combinati in seno al proletariato da stalinismo e democrazia, delle trasformazioni prodottesi nel tessuto economico-industriale sotto la pressione di ormai venticinque anni di crisi, del senso di disillusione e isolamento in cui sono cadute intere generazioni di lavoratori, delle tentazioni spontaneiste e individualiste che i periodi di smarrimento inevitabilmente producono.

Niente illusioni, niente scorciatoie, dunque. Dev'essere anzi chiaro che qualunque prospettiva di ripresa classista dovrà passare attraverso la riconquista di alcuni contenuti fondamentali. E che sarà questa riconquista l'unico perno possibile intorno a cui far ruotare - anche se non nell'immediato - la rinascita di organismi di difesa delle condizioni di vita e di lavoro e, grazie a essi, la resistenza operaia agli attacchi del capitale.

Quali sono questi contenuti fondamentali?

a. Respingere il ricatto delle compatibilità. Come abbiamo detto, l'economia nazionale non è un bene comune. Imporne ai lavoratori la difesa a oltranza, come è stato fatto con gli accordi sindacato-governo-confindustria del '92-'95 (solo per restare in tempi recenti: ma la storia è ben più lunga), significa solo maggiore sfruttamento, peggioramento delle condizioni di vita, intensificazione dei ritmi, mobilità e precarietà, moltiplicazione degli infortuni sul lavoro, riduzione del salario reale, accresciuta distruzione dell'ambiente, e un'ulteriore accumulazione di contrasti interimperialistici, destinati prima o poi a sfociare in una nuova guerra mondiale.

b. Respingere ogni ingabbiamento delle lotte operaie. Da decenni, la prassi sindacale è stata da un lato di disperdere le energie dei lavoratori (microconflittualità, articolazione delle lotte per reparto, fabbrica, zona cittadina, regione o settore, limitazione preventiva dello sciopero nello spazio e nel tempo, obiettivi devianti come la difesa dell'economia nazionale, della democrazia, della legalità, ecc.); dall'altro, di contribuire attivamente al loro ingabbiamento (autoregolamentazione, irrigidimento delle strutture sindacali, emarginazione e denuncia dei lavoratori combattivi, ecc.). Tutto ciò va combattuto non in nome di un'ingannevole democrazia sindacale (che è una parola vuota, visto l'indirizzo irreversibilmente anti-operaio imboccato da mezzo secolo dai sindacati di regime), ma in nome di un'autentica ripresa della lotta di classe, che deve tornare a essere la più ampia e vigorosa possibile. Lo sciopero, il picchetto, il blocco della produzione, la dimostrazione operaia, ecc., sono armi dei proletari: e nessuno deve potergliele strappar di mano, per renderle inefficaci o rivolgerle contro di loro.

c. Respingere ogni divisione interna alla classe. Tra gli effetti devastanti della controrivoluzione e della prassi di partiti e sindacati opportunisti, vi è quello della frantumazione del fronte di classe e, di conseguenza, del diffondersi di ideologie localiste e federaliste, dell'ostilità, diffidenza e competizione fra operai, dell'individualismo esasperato. Tutto ciò, invece di costituire una via di salvezza per il singolo o per dati settori, conduce solo a sconfitte sempre più disastrose. La classe operaia può sperare di resistere oggi all'attacco che le sferra il capitale, e di passare domani al contrattacco, solo ritrovando la sua unità intorno a obiettivi e metodi di lotta classisti, solo riconoscendosi (e dunque agendo) non come somma informe di individui ma come classe, contro tutti i tentativi di frantumarla e dividerla. E come classe deve tornare a lottare contro le gabbie salariali, i licenziamenti, la mobilità, la diversificazione per età e sesso, il lavoro nero e tutte le forme di precariato, il mito della professionalità, il federalismo, il localismo, il razzismo, e tutti quei rapporti di lavoro che mettono lavoratori contro lavoratori, uomini contro donne, giovani contro anziani, operai "nazionali" contro operai immigrati.

d. Rifiutare ogni attacco alle condizioni di vita e di lavoro. Il capitale in crisi è costretto a rivolgere un violento attacco alla classe lavoratrice (e anche a larghi strati di mezze classi che finora si illudevano d'essere al sicuro da brutte sorprese). La classe deve resistere a quest'attacco e respingerlo, e può farlo solo tornando a imboccare una via classista e riconquistando un'unità su questa base. Ma altri attacchi seguiranno, altri tentativi di scaricare sugli operai gli effetti di una crisi che non è il risultato di cattiva gestione, di disonestà privata, di egoismo personale. Questi tentativi prenderanno di necessità forme diverse, alcune più dolci e subdole, altre più dure ed esplicite. I lavoratori devono dunque prepararsi a una lotta i cui risultati saranno per forza precari, le cui vittorie potranno essere immediatamente rimesse in discussione, le cui conquiste non avranno nulla di duraturo. Quella che la classe deve condurre è una lotta di resistenza quotidiana, senza cadere nell'illusione che sia possibile tornare a una preesistente situazione di pace e di idillio (che non c'è mai stata: le garanzie e i privilegi di cui certi strati di lavoratori hanno goduto sono stati pagati dalla grande massa, hanno voluto dire lo sfruttamento spietato di altre aree del pianeta e l'avanzata distruzione dell'ambiente...).

I lavoratori non devono lasciarsi sviare da falsi obiettivi. Devono lottare oggi per la propria sopravvivenza fisica, e rivendicare:

- Forti aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate (i salari sempre più magri non consentono di sostenere nuclei familiari minacciati da vicino dalla disoccupazione presente o futura, l'assistenza medico-sanitaria-ospedaliera si è fatta più precaria e al tempo stesso costosa, è cresciuto il peso di affitti, luce e gas, trasporti, tasse di varia natura...).

- Forti riduzioni dell'orario di lavoro. La pena del lavoro fra mobilità e straordinari cresce ogni giorno di più, come crescono in maniera drammatica gli incidenti direttamente legati all'aumento della produttività e al risparmio sulle misure di tutela e prevenzione: lottare per la riduzione dell'orario di lavoro non vuol dire cullarsi nell'illusione che ciò possa riassorbire la disoccupazione, ma operare per alleviare quella pena, allentare la tensione cui sono sottoposti milioni di lavoratori, ricostruire una forza psico-fisica che attualmente viene gravemente intaccata al solo fine di trarne profitti per il capitale - significa insomma lottare anche per ricostruire una propria identità di classe.

Da quanto detto, derivano due considerazioni fondamentali. Chiunque affermi che la lotta economica (di difesa delle condizioni di vita e lavoro) è superata si pone fuori del solco classista, fa solo della demagogia pseudo-estremista. Noi sappiamo (tutti i lavoratori devono sapere) che, nel regime del capitale, ogni conquista strappata oggi con la lotta è destinata a essere persa di nuovo domani, fino a che quel regime non venga una volta per tutte rovesciato. Tuttavia, proprio Lenin nel Che fare? dimostra come la lotta di difesa economica, immediata, sia il gradino necessario per cominciare a salire la scala che porterà la classe a rendersi conto dell'inevitabilità dello scontro supremo. Senza quel gradino (che è compito del partito consolidare e rendere fondamento comune a tutta la classe, mostrando al contempo la necessità di salire via via gli altri gradini) non c'è futuro. La lotta economica è la scuola di guerra del proletariato, diceva Lenin: tale deve tornare a essere.

Da ciò deriva l'altra considerazione: organismi di difesa economica dovranno necessariamente rinascere e dovranno essere il più possibile larghi e aperti, proprio per contrastare quella tendenza alla divisione e alla frammentazione, alla chiusura e al ripiegamento, che rappresenta la carta vincente in mano al capitale. Dovranno cioè tornare a essere gli strumenti della lotta operaia, le strutture in grado di organizzarla e centralizzarla, il vitale tessuto intermedio tra la classe e il partito politico rivoluzionario.

Esistono oggi questi organismi? I sindacati attuali stanno completando la parabola (da noi individuata fin dall'immediato dopoguerra) di progressiva integrazione nello Stato del capitale, fino a essere divenuti vere e proprie strutture portanti. Le risposte operaie a quest'andazzo non sono mancate, e gli ultimi vent'anni hanno visto la nascita di innumerevoli sigle e tentativi più o meno abortiti: i loro limiti, come abbiamo più volte denunciato, sono le diffuse inclinazioni e tentazioni federaliste e autonomiste, la chiusura entro ottiche di settore, la mania e il formalismo democratici, che rendono questi organismi (spesso generosi per dispendio di energie) fragili e provvisori, incapaci di darsi una struttura unitaria e centralizzata, troppo inclini a prese di posizione demagogiche o velleitarie, che finiscono spesso per suscitare altri elementi di divisione e confusione entro la classe: debolezze che sono il riflesso della situazione operaia odierna.

I comunisti internazionalisti, i proletari coscienti e desiderosi di porsi su un terreno di classe, condurranno una lotta aperta e decisa contro le forme e i contenuti del sindacalismo di regime e sottoporranno a dura critica le tendenze negative degli organismi nati dalla disillusione o dalla nausea per quel sindacalismo. Ma lavoreranno sia nei sindacati (fin quando la loro presenza non diventi impossibile ed essi non ne vengano cacciati: e allora dimostreranno a chiare lettere ai lavoratori iscritti come il sindacato si comporti in maniera anti-operaia) sia negli organismi spontanei (operando perché superino i limiti vistosi di cui soffrono). Lavoreranno cioè là dove è la classe operaia: non per seguirla ma per indirizzarla, non per adeguarsi alla prassi di sindacati od organismi spontanei, ma per reagirvi e aiutare i lavoratori a reagirvi. Di nuovo, al centro di qualunquestrategia e prima di ogni altra cosa devono tornare a essere, non le forme, ma i contenuti.

Solo così sarà possibile contribuire effettivamente alla ripresa della lotta di classe e, con essa, alla rinascita di organismi sindacali non succubi dello Stato del capitale. Solo così sarà possibile tornare a far vivere dentro a una classe in lotta la prospettiva del partito rivoluzionario, della rivoluzione proletaria, del comunismo. Mai come oggi di questa prospettiva la classe operaia mondiale ha drammaticamente bisogno.

Per concludere

Giunti al termine di questa esposizione (che ovviamente non poteva pretendere di esaurire tutte le questioni), ci auguriamo di aver convinto il nostro ipotetico interlocutore. Non vogliamo però lasciarlo senza aver prima ribadito due concetti basilari per chiunque voglia avvicinarsi seriamente al comunismo rivoluzionario.

Il primo di questi concetti è che "le rivoluzioni non si fanno, ma si dirigono". Le rivoluzioni irrompono dal sottosuolo sociale quando le condizioni materiali le rendono possibili e necessarie, e non c'è volontà di singoli o di gruppi che possa accelerare o modificare questo processo. Ma, senza una guida e una direzione, le enormi energie sociali che si sprigionano dal sottosuolo sociale finiscono per disperdersi "come il vapore non racchiuso in un cilindro a pistone" (Trotsky, "Prefazione" alla Storia della rivoluzione russa, 1930).

Il secondo concetto, strettamente legato al primo, è che "Il partito può aspettare le masse, ma le masse non possono aspettare il partito". Ancora Trotsky ricordava infatti che "Le masse non sono mai esattamente identiche: vi sono masse rivoluzionarie; vi sono masse passive; vi sono masse reazionarie. Le medesime masse sono, in periodi diversi, ispirate da propositi e obiettivi diversi. È appunto per questa ragione che è indispensabile un'organizzazione centralizzata dell'avanguardia" (Moralisti e sicofanti contro il marxismo, 1939).

Il partito è dunque l'elemento di continuità nel lungo processo di preparazione e poi di scatenamento della rivoluzione. Nei periodi bui e controrivoluzionari, quando le masse sono "passive" o addirittura "reazionarie", esso lavora controcorrente, nella consapevolezza che sono le leggi stesse del divenire sociale a preparare la futura eruzione. E, quando questa si verifica, quelle masse, ridestatesi alla prospettiva rivoluzionaria, devono trovare, già esistente, già attiva, la propria guida, il proprio "cilindro a pistone". Troppe volte nella storia, le masse si sono risvegliate dal torpore e dal letargo ritrovandosi però sole sulla scena del dramma. E il dramma è diventato allora tragedia.

Verso la fine d'uno dei suoi romanzi più emblematici (Casa desolata, del 1853 - il lungo travaglio d'una causa legale, contro lo sfondo di un'Inghilterra dominata dal denaro, dai titoli di proprietà, dalla nuova tecnologia trionfante), il romanziere inglese Charles Dickens scriveva: "... ci fu un sussulto nella folla e tutti cominciarono a uscire a fiotti trasportando un odore di chiuso. [ ... ] e subito mucchi di carte incominciarono a essere portati via mucchi in sacchi, mucchi troppo grossi per entrare nei sacchi, immense masse di carte di tutte le forme e senza forme sotto le quali i portatori vacillavano. [ ... ] Domandammo a una persona in toga se la causa si fosse conclusa: 'Sì', disse, 'è terminata finalmente!', e scoppiò a ridere anche lui".

Per questo lavoriamo noi, piccolo partito che lotta contro corrente. Perché si possa dire un giorno, ridendo: "E' terminata finalmente!", e si passi quindi dalla preistoria della società umana alla sua storia. E non c'è passione, non c'è devozione, non ci sono energie rivolte a questo fine, che possano dirsi sprecate.

Dicembre 1995

INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
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