DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Tutti brindano, ma i lavoratori aspettino a cantar vittoria!”: così scrivevamo sul n.5/2009 di questo stesso giornale. Ritorniamo oggi sulle ultime vicende della famosa azienda metalmeccanica di Milano, che il Corriere della sera del 28/11 u.s. chiama “l’azienda con il lieto fine”. A quanto pare, si sta infatti apparecchiando un altro… miracolo (siamo pur sempre in tempi di Giubileo!): un “nuovo salvataggio dallo smantellamento”. Ohibò!

Sembrava una battaglia persa in partenza”, rievoca il Corriere. Ma poi, “in una Milano deserta del ferragosto, l’imprenditore bresciano Attilio Camozzi, noto per far girare le aziende come orologi, pare abbia detto: ‘Ci penso io. E vedrete che la INNSE diventerà una fabbrica modello’”. Dopo 8 giorni di occupazione per impedire che venissero smantellati e asportati i macchinari, gli operai scesero dal carroponte posto a 20 metri di altezza, tra gli osanna generali: “come in una scena rubata da un film di Ken Loach”. L’imprenditore è morto da pochi mesi senza aver avuto la soddisfazione di vedere crescere il capitale di 12,6 milioni di euro investito nello stabilimento dal 2009, e non potrà ricreare oggi un nuovo effetto miracolistico (nel frattempo, i dipendenti, da 48, sono diventati 38). Ma, morto il padre, interviene il figlio, che è presidente e amministratore delegato della ditta. E dichiara: “Adesso è il momento di fare sul serio”. Occorre cioè “mantenere gli impegni presi”.

Fare sul serio?”. Ma che cosa facevano i suoi “negri” nel corso di tutti questi anni? Giocavano a canasta nelle otto e più ore di lavoro, mentre lui seguiva le orme del padre?

Poi aggiunge il solito ritornello: “Anche i dipendenti devono prendersi delle responsabilità. O questo avviene e andiamo avanti insieme. O lasceremo l’azienda in uno stato di agonia. Non licenzieremo nessuno, per carità. Ma rinunceremo ad investire”.

Dunque, il giovane minaccia. Dopo che gli operai gli hanno salvato la fabbrica, che cosa pretende ancora? Be’, chiede “solo” la possibilità di svolgere “il terzo turno notturno” come previsto dal contratto dei metalmeccanici; vuole la “flessibilità” sui cambi di mansione; chiede una “pianificazione delle uscite” dei pensionati nel triennio 2016-2018. Pare che la Fiom, accorsa a sentire il discorsetto, abbia poi aggiunto: “Quando qualcuno vuole investire, il dialogo è aperto”. Evidentemente, alla corporazione sindacale, la pelle operaia, che il giovane delfino si prepara a conciare, è una specie di regalo natalizio.

Per vederci più chiaro, torniamo allora a sette anni fa, riproponendo ampi stralci dell’articolo-commento uscito sul n.5/2009 di questo stesso giornale, per sottolineare la combattività e la compattezza dei lavoratori e le nostre valutazioni sui metodi e sugli obiettivi.

La lotta alla INNSE: tutti brindano, ma i lavoratori aspettino a cantar vittoria!

La lotta, l’organizzazione, l’occupazione

La lotta dei 49 operai dell’INNSE Presse (azienda metalmeccanica alla periferia di Milano) è sufficientemente nota perché ci si debba tornare ancora sopra con una cronaca dettagliata. Basti ricordare che ha voluto dire più di un anno di occupazione della fabbrica contro la minaccia di smantellamento e licenziamento, vari tentativi padronal-polizieschi di sottrarre i macchinari di nascosto, scontri con le forze dell’ordine accorse in tenuta anti-sommossa, e infine l’episodio – presto imitato e ampiamente coperto dai mezzi d’informazione – dei lavoratori saliti e rimasti sul carroponte giorni e notti, fino alla firma di un accordo con una nuova cordata di padroni.

Soprattutto, ha voluto dire una bella prova di compattezza e solidarietà, di decisione e abnegazione, da parte dei 49 lavoratori, che va salutata con entusiasmo, a dimostrazione che – nonostante tutto quel che da decenni avvoltoi di ogni genere (politici e sindacalisti, giornalisti e sociologi, poliziotti e giuslavoristi) dicono e fanno ai danni della classe operaia – , essa non è né scomparsa, né integrata, né tanto meno si sente... in paradiso.

La memoria, l’isolamento, le illusioni

[…] Di certo, sotto la spinta della crisi, le reazioni proletarie non si faranno attendere, in Italia come negli altri paesi: ma dovranno fare i conti con decenni di abbandono e isolamento, durante i quali è stata letteralmente fiaccata la combattività operaia, distrutta la memoria di una tradizione di lotta ormai più che secolare, ribaltata la prassi dello scontro di classe annegandola nella melassa della conciliazione democratica. Da questo “grado zero” purtroppo bisogna ripartire, senza farsi illusioni di scorciatoie o salti di gradini: il fronte di classe va ricostituito mattone su mattone, ma sempre con lo sguardo ben fisso all’obiettivo finale – che non è la “salvaguardia dei diritti”, o una “più equa ridistribuzione della ricchezza”, o una “più diffusa giustizia sociale”, ma è la presa del potere e l’abbattimento di un modo di produzione ormai da due secoli superato dalla storia stessa e divenuto sanguinosamente distruttivo nella sua lunga agonia.

La ripresa classista

Si pone dunque il problema della ripresa classista. La lotta operaia tende a uscire talvolta dal puro economicismo per porsi su un livello più avanzato: ma di per sé, da sola, non può andare oltre la difesa delle condizioni di vita e di lavoro. Può usare i mezzi più duri (picchetti, blocchi, occupazioni, manifestazioni, anche scontri frontali): ma ben altra è la lotta politica, che ha come finalità il rovesciamento del potere della classe dominante. E infatti la borghesia ha paura della lotta economica solo quando essa tende a scavalcare i muri dell’azienda, a uscire dal suo ambito locale per diventare lotta generale, sciopero generale, scontro aperto con le istituzioni e la prassi democratica. E, per evitare questo sviluppo, essa utilizza da tempo l’opportunismo, il riformismo (delle cosiddette “sinistre”, politiche e sindacali), facendo loro giocare il ruolo di contenimento e di pompieraggio.

Ma che altro si poteva fare?

Per “mantenere il posto di lavoro”, per non mandare all’aria “la professionalità acquisita”,  per non doversi cercare “un’altra occupazione” in un momento critico come questo, i lavoratori dell’INNSE hanno occupato la fabbrica. Che potevano fare di più? Con queste premesse (“salvare l’azienda per salvare il posto di lavoro”), è stato inevitabile che tutti i falsi amici della Fiom (i Rinaldini, i Cremaschi & Co) abbiano elogiato il carattere etico-individuale della scelta e celebrato l’attaccamento feticistico all’azienda, minimizzando al contempo ogni volontà di estensione della lotta e insistendo sulla possibilità dell'autogestione […]

Il limite più grosso di ogni lotta di difesa economica è la sua tendenza immediata a chiudersi entro i limiti dell’azienda, della categoria, della località – a presidiare un perimetro noto e familiare. Ed è una tendenza che naturalmente viene alimentata e incoraggiata dall’opportunismo sindacal-politico: il quale sa bene, per esperienza storica, che finché i lavoratori se ne stanno chiusi dentro a quest’autentica gabbia il potere li tiene in pugno. […] E’ solo quando i lavoratori spezzano e si lasciano alle spalle queste catene, irrompendo nelle strade e nelle piazze, puntando sulle Camere del Lavoro (da rioccupare cacciandone a pedate e bastonate i traditori opportunisti, per tornare a farne veri luoghi di organizzazione della lotta sul territorio) e sui nodi nevralgici e simbolici del potere – è solo allora che la classe dominante ha davvero paura.

Il mito dell’autogestione e l’allargamento del fronte di lotta

[…] A questa tendenza, immediata e istintiva, a chiudersi entro i limiti dell’azienda, della categoria, della località, va poi ad aggiungersi (spesso come sua logica conseguenza) un pericolo altrettanto grande: il mito disastroso dell’autogestione, cioè di voler dimostrare (a chi, poi?) di essere in grado di gestire l’azienda in proprio, anche senza un padrone, magari anche... meglio del padrone (privato o pubblico che sia). Un mito che ha anch’esso una storia lunga, dall’anarchismo ottocentesco fino ai giorni nostri (ricordate l’ubriacatura spontaneista per le fabbriche autogestite dagli operai argentini, pochi anni or sono?). E che dimentica (o finge di dimenticare) che una fabbrica autogestita produce comunque per il mercato capitalistico; che, padrone o non padrone, si lavora comunque per il capitale; che, diventati “padroni diffusi”, “padroncini di se stessi”, si deve poi fare i conti con le leggi del profitto, della concorrenza, della produttività, ecc. ecc. In perfetta buona fede, non c’è dubbio, questo hanno fatto gli operai dell’INNSE: hanno salvato l’azienda per il capitale, per un nuovo padrone, ma né l’uno né l’altro li ricompenserà. Così facendo, hanno finito per trascurare l’unica strategia che può essere vincente sul lungo periodo: quella dell’allargamento del fronte di lotta e della creazione di stabili organismi in grado di sostenere quella lotta anche nei momenti di riflusso.

La lotta istruisce

Si dice: la lotta istruisce. Sì, la lotta istruisce più di quanto si possa credere: crea organizzazione, permette di ricostruire una memoria perduta. Ma, per non essere puro attivismo fine a se stesso, ha bisogno della sua finalità di classe. Che il titolare della proprietà rivendichi il diritto di vendita dell’intera massa dei mezzi di produzione (macchinari di grande pregio per la costruzione di altre macchine, che per anni e anni hanno schiacciato i lavoratori sotto l’imperio del profitto e dell’accumulazione di capitale e arricchito un’intera filiera di imprenditori, banche, piccoli e medi padroncini, ceti medi, intellettuali, avvocaticchi, sindacalisti e quaquaraquà), che il titolare speculi in questa transizione economica e che dal suo canto la speculazione edilizia cerchi di avventarsi sull’intera area, una volta risolto il problema, con la forza o con qualche compromesso, dove sta lo scandalo? La proprietà privata dei mezzi di produzione non è forse sacra per la borghesia? Che il compratore dei macchinari li destini poi al suo uso naturale o li invii alla rottamazione, è qualcosa di nuovo? Il film non è stato visto infinite volte? Eppure, ci sono degli imbecilli della cricca del gazzettume di sinistra e delle vecchie corporazioni sindacali e delle più giovani parrocchie sindacali, che continuano a blaterare di “difesa della professionalità” e del “territorio”, di “fabbriche da salvare”, di “ autogestione”, di “difesa del reddito operaio”, quando sanno benissimo che la crisi è crisi di sovrapproduzionecrisi di valorizzazione di merci e di capitali, che il profitto si è ridotto all’osso e che ciò che si prospetta agli operai è un’epoca di lacrime e sangue.

Non illudetevi!

[…] Noi comunisti diciamo agli operai dell’INNSE: Non illudetevi! I termini dell’accordo sono tali per cui nulla, assolutamente nulla, potrà impedire al nuovo padrone di fare marcia indietro su questo o su quel punto (cassa integrazione, licenziamenti, assunzioni parziali, delocalizzazione, ecc.), prendendo a pretesto la “congiuntura sfavorevole del mercato”. I termini dell’accordo sono vuote parole, se non c’è un rapporto di forze favorevole a imporli. E questo rapporto di forze favorevole si può costruire solo attraverso la mobilitazione di altre categorie, attraverso il ricorso a metodi incisivi che colpiscano davvero la controparte e non risultino soltanto in un drammatico sacrificio personale, attraverso la creazione di un vero fronte proletario in grado di sostenere tutti gli aspetti di una vertenza (delle tante vertenze che sono già aperte e che si apriranno), prima, durante e dopo, e di esercitare una reale, costante vigilanza dei proletari.

Obiettivi e metodi di lotta

Si può costruire, questo rapporto di forze favorevole, solo attraverso il ricorso all’arma dello sciopero generale, senza limiti di tempo e di spazio, ogni qualvolta un settore, una categoria, un gruppo di operai sia minacciato (“un’offesa a uno è un’offesa a tutti!”): la lotta implica organizzazione e direzione, e lo sciopero generale, per essere efficace, implica la messa in campo di quello che dovrà tornare a essere quell’esercito proletario che da troppo tempo – per l’azione congiunta dei suoi nemici e dei suoi falsi amici – manca dalla scena. Allora sì, le diverse forze si disporranno secondo il loro ruolo storico e dimostreranno da che parte stanno: e così, nei fatti piccoli e grandi della lotta, i proletari comprenderanno che non si tratta solo di vincere questa o quella battaglia, di strappare questa o quella concessione (vittorie e concessioni che sono sì possibili, ma che vengono presto svuotate e rimangiate), ma che è tutto un sistema sociale che va distrutto – quello del profitto, della concorrenza, della guerra... in una parola, del modo di produzione capitalistico in quanto tale.

E comprenderanno anche la necessità vitale e irrinunciabile del partito rivoluzionario, l’unica forza in grado di dirigerli verso quello sbocco, preparando nel presente di lotte anche parziali, anche di difesa, le condizioni per il futuro.

Così scrivevamo sette anni fa, e i duri fatti della realtà ci hanno dato ragione. Che i proletari traggano le giuste lezioni da certe esperienze – per non dover ogni volta imboccare strade che non conducono da nessuna parte!

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista)

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