DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

(Riunione Generale di Partito – Milano, 24-25/10/2015)

 

Questo lungo testo, che pubblicheremo in più puntate, ha costituito la base del Rapporto Economico, tenuto nel corso di questa Riunione Generale.

I- "Crisi del lavoro" o crisi del capitale?

Un recente articolo riportato sulla rivista "Internazionale"(1) riprende la questione dell'automazione dei processi lavorativi, argomento che la stampa borghese negli ultimi tempi propone sempre più di frequente, spesso con accenti preoccupati sulle sue possibili conseguenze sociali. L'esposizione, con richiami alla saggistica recente, traccia il percorso storico del rapido procedere dell'automazione, del suo espandersi a settori sempre nuovi della produzione e dei servizi, della tendenza alla progressiva riduzione dei lavori ancora affidati alla forza lavoro vivente. Di qui le perplessità sul futuro dell'occupazione e sul tipo di società che si prospetta, con l'inevitabile schierarsi nelle file degli ottimisti o dei pessimisti.

Gli ottimisti considerano che i processi di automazione abbiano già esaurito gran parte della loro capacità di sostituire le macchine agli uomini, gli altri annunciano l'avvento di una nuova rivoluzione industriale, destinata a mandare in soffitta diverse centinaia di occupazioni oggi demandate agli umani, domani surrogate da macchinari e software sempre più sofisticati e capaci perfino di automigliorarsi. Per quanto possa sembrare paradossale, spesso è proprio chi prevede un rilancio del processo di automazione, e dunque una crescente liberazione dell'umanità dal lavoro”, a vedere il futuro più nero, ma ciò è perfettamente coerente con una società fondata sul lavoro salariato, sull'appropriazione di tempo di lavoro vivente.

Il problema che viene sollevato da queste discussioni è in genere il seguente: come faranno milioni di esseri umani a sopravvivere senza un lavoro in conseguenza dell'aumento della produttività e della sua estensione a campi sempre più ampi di occupazione? Posta la questione in questi termini, la risposta coerente sarebbe quella di bloccare i processi di automazione o di rallentarli attraverso un intervento politico di regolazione degli eccessi, quali essi siano, che minaccino la stabilità del sistema determinando la "crisi del lavoro". Questa soluzione, nell'attuale fase di totale subordinazione dello Stato al Capitale, si proporrebbe con l'approfondirsi della crisi sociale e quindi con l'aperta dichiarazione della guerra di classe e la sua trasformazione in guerra imperialista.

La tendenza è rivolta a frenare l'anarchia delle forze economiche per evitare il loro deragliamento e il caos sociale che ne deriverebbe, e si associa ai rigurgiti dei nazionalismi, dei populismi di varia natura che spingono il proletariato a riconoscersi in soluzioni reazionarie. Le varianti apparentemente alternative, predicanti un ritorno alla terra e alla natura, lo "sviluppo sostenibile", la "decrescita", e ovviamente la pace universale che nascerebbe dal riconciliarsi dell'uomo con il pianeta, sono destinate anch'esse a rientrare pienamente nell'alveo reazionario e guerrafondaio. I sinceri fautori di questa via non possono rinnegare tra i loro padri i fieri avversari del progresso che militavano tra le componenti "rivoluzionarie" del nazismo, o ambientalisti coerenti come Konrad Lorenz, di cui è nota la piena e cosciente adesione in gioventù a quel movimento.

La risposta più reazionaria risiede nella promessa di "dare un lavoro a tutti", che se venisse onorata porterebbe alla creazione di posti di lavoro del tutto improduttivi capitalisticamente, al solo scopo di conservare la forma del lavoro salariato, e alla preparazione alla guerra. In tal modo verrebbe riconfermato il legame indissolubile tra il diritto all'esistenza e il lavoro che dà accesso a un salario, mentre il rilancio della produzione trainato dal riarmo, con il naturale esito di un nuovo conflitto generale, gonfierebbe l'occupazione, in attesa che le immani distruzioni della nuova ecatombe non creino i presupposti per un nuovo ciclo di espansione di lungo periodo. Entrambi gli sviluppi hanno già caratterizzato la fase storica che ha preceduto il secondo conflitto imperialista, nella variante democratica del New Deal come in quella totalitaria del nazifascismo. E' stata la guerra a salvare il capitale, non i lavori pubblici nè altri interventi finanziati dello Stato.

L'altra risposta alla crisi "del lavoro" che aleggia di questi tempi rientra nel novero delle illusioni dure a morire sulla natura del capitalismo e sulla possibilità di contenerne le contraddizioni per via "democratica", senza passare attraverso la brutalità della repressione e della guerra. E' il cosiddetto "reddito di cittadinanza", o come lo si voglia chiamare, la garanzia universale del diritto di campare dignitosamente senza subire il ricatto dell'alternativa tra schiavitù salariale e disoccupazione (trasformata in alternanza con continuità di reddito). Sembrerebbe una soluzione logica alla mancanza di lavoro, l'uovo di colombo, se non fosse che per il capitale non è una scelta, ma una necessità sfruttare sempre più intensivamente la forza lavoro occupata e contenere i livelli salariali con la pressione di un adeguato esercito industriale di riserva; necessità che è diventata ancor più stringente da quando il meccanismo di accumulazione è entrato in crisi e lo Stato carica sul debito pubblico il fardello delle esposizioni del sistema bancario, inasprisce il prelievo fiscale e contrae il welfare. La richiesta democratica di espandere il welfare in modo da garantire a tutti una vita decente non è solo puerile, ma l'ennesimo inganno che orienta le energie proletarie verso obiettivi illusori e condanna il proletariato a piegarsi senza lotta. Il rituale attiene all'ipocrita religione dei "diritti", tanto più celebrati quanto più negati nella realtà della società di classe, dove la sola legge riconosciuta è quella dei rapporti di forza. Occupati e disoccupati sono parti di una stessa classe, entrambe vitali per la valorizzazione del capitale, che si espandono e contraggono in ragione delle fasi di espansione e contrazione della produzione. Ad ogni fase espansiva si allarga la schiera proletaria, mentre nella fase recessiva cresce la sua componente di disoccupazione, precarietà, sottoccupazione. In virtù di questo meccanismo, la miseria si espande di ciclo in ciclo; quanto più si sviluppa l'accumulazione tanto più aumenta in assoluto e in percentuale della forza lavoro la schiera di questi dannati alla ricerca di un salario. Nei paesi capitalisticamente più avanzati, una quota della ricchezza prodotta viene tuttora destinata al sostentamento dei disoccupati, ma in tempi di vacche magre la legislazione in materia si va facendo sempre più rigida e restrittiva. In Germania - che in questo campo fa scuola - i sussidi sono calanti e sono erogati solo se il sussidiato accetta qualunque occupazione gli venga assegnata, a qualunque condizione. La soluzione socialdemocratica ("dare un reddito a tutti": ovvero, la distribuzione della miseria) non è in contraddizione con la soluzione fascista che introdusse forme previdenziali e assistenziali pubbliche e attuò un allargamento del welfare finanziato dal riarmo. L'unica reale soluzione borghese rimane dunque la guerra.

La sola via d'uscita per evitare una nuova e forse definitiva carneficina mondiale si colloca oltre i confini dell'attuale sistema, ma limitarsi ad affermarlo potrebbe orientare all'alternativa utopistica, e un po' misera, di un mondo "pieno di esseri umani in attività gratificanti e ragionevolmente remunerate. Solo con l'aggiunta dei robot" (2) . Va invece riconosciuta la piena maturità storica del passaggio rivoluzionario al comunismo e la sua necessità in virtù dello stesso sviluppo delle forze produttive sociali, dove l'automazione gioca un ruolo decisivo, e delle contraddizioni di questo modo di produzione.

In questa prospettiva, la domanda da porsi non è "come faranno milioni di esseri umani a sopravvivere senza lavoro?", ma, con il progresso dell'automazione, "come farà il Capitale a sopravvivere senza sfruttare il lavoro di milioni di esseri umani?". Il cuore del problema risiede nella tendenza del Capitale a sviluppare oltre ogni limite la produttività del lavoro, ed è in primo luogo un problema del Capitale, che ha bisogno di aggiogare masse crescenti di forza lavoro per compensare il calo relativo del capitale variabile in rapporto al capitale complessivo (3). Dallo sviluppo della produttività, dall'automazione, l'umanità ha solo da guadagnarci, a patto che risolva il problema urgente dell'opposizione feroce del capitale al dispiegarsi delle potenzialità liberatorie contenute nelle forze produttive che esso stesso ha sviluppato e che invece rivolge contro il proletariato e contro l'intera umanità.

II - Perché il capitale rivoluziona costantemente le condizioni di produzione

Ciò che non si trova nell'articolo citato all'inizio, come in genere nelle pubblicazioni sull'argomento, è un chiaro riferimento ai motivi alla base degli incrementi di produttività attraverso lo sviluppo dell' automazione, al solo aspetto che può dare ragione del corso del fenomeno, della sua direzione e delle conseguenze ultime. Perché la dinamica capitalistica procede attraverso continue innovazioni e incrementi di produttività, attraverso un continuo rivoluzionamento delle condizioni di produzione? Dove l'origine di questa smania di produrre sempre nuove merci con sempre nuove tecniche, che trascina le generazioni in un vortice di rapidi cambiamenti dei modi di esistenza e di lavoro e, invece di attenuarle, approfondisce le distanze tra le classi e rafforza il dominio del capitale sulla società? Per rispondere ci affidiamo come sempre alle pagine di Marx, quanto mai attuali sebbene datate ormai un secolo e mezzo; perché nonostante tutti questi rivoluzionamenti, il capitalismo funziona con le medesime leggi, e se fa trionfare l'innovazione non è per amore del nuovo, ma per salvare il vecchio, il mondo diviso in classi.

Anzitutto, lo scopo dell'aumentata produttività non è, dal punto di vista dell'interesse del capitale, l'aumento del prodotto. A differenza di forme storiche precedenti, compresa la produzione semplice (del produttore individuale), il capitale è indifferente tanto all'aumento della produzione come tale quanto in rapporto allo sforzo di lavoro umano, aspetto che interesserà la futura società comunista dove il surplus sarà concepito solo come accantonamento di riserve per le necessità di specie, da ottenere con il minimo dispendio di energie umane in rapporto allo sviluppo dei mezzi di produzione sociali.

Eppure, in regime capitalistico si opera una mistificazione per la quale questa capacità di produrre di più con meno impiego di lavoro diventa una prerogativa che distingue il capitale dalle forme storiche precedenti e ne giustifica l'esistenza presente e futura. Il capitale si impossessa dei progressi della scienza e della tecnica, di tutte le risorse sociali che possono promuovere il progresso tecnico scientifico, le applica al processo di produzione immediato rendendolo un processo sociale su larga scala, dove la forza produttiva appare come prerogativa del capitale anziché come forza produttiva del lavoro. Di fronte all'operaio, questo aspetto sociale del lavoro si pone “come elemento non soltanto estraneo, ma ostile e antagonistico, apparendo oggettivato e personificato nel capitale” (Marx) (4).

In realtà, per il capitale è da considerarsi produttivo solo il lavoro che produce direttamente plusvalore, quindi soltanto il lavoro consumato direttamente nel processo di produzione per valorizzare il capitale” (Marx) (5). Poiché la produzione di plusvalore corrisponde al pluslavoro, alla parte della giornata lavorativa in cui l'operaio non lavora per sé (lavoro necessario), ma per il capitale, questo cerca di appropriarsene in parti crescenti, riducendo tendenzialmente a zero il lavoro necessario. Nella fase storica in cui ancora predominava unicamente l'impiego della forza lavoro vivente sul lavoro morto, oggettivato (plusvalore assoluto), l'operaio era sottoposto formalmente al capitale in quanto salariato, ma conservava il controllo sul processo lavorativo o su una parte di esso. Il macchinismo e l'automazione potenziano enormemente la produttività, comprimono il tempo di lavoro in cui l'operaio lavora per sé, incrementano il plusvalore relativo (la parte non pagata del lavoro salariato).“Il capitale non può fare a meno di metter sotto sopra le condizioni tecniche e sociali del processo lavorativo, cioè lo stesso modo di produzione, per aumentare la forza produttiva del lavoro, per diminuire il valore della forza lavoro mediante l'aumento della forza produttiva del lavoro, e per abbreviare così la parte della giornata lavorativa necessaria alla riproduzione di tale valore” ( Marx) (6) .

L'incremento della produttività in regime capitalistico non nasce dunque dalla necessità di produrre di più, nè di produrre con meno sforzo di lavoro, ma di incrementare il plusvalore estorto alla forza lavoro occupata. La crescita della produttività è in funzione della crescita dello sfruttamento, e solo in conseguenza di questo risultato si determina l'aumento del prodotto.

III - Crescita e ristagno della produttività

La tendenza capitalistica all'incremento della produttività del lavoro è ampiamente suffragata dai dati statistici del secondo dopoguerra: negli USA, il prodotto per ora lavorata è passato in sessant'anni da 1 a 8, dunque in un'ora si produce oggi quanto nel 1950 si produceva in un'intera giornata lavorativa di otto ore. Oggi, rispetto al 1950, un operaio americano produce quanto 7 operai, un giapponese quanto 30, un tedesco produce per 8.5, un italiano per 10, un francese per 8.3, un britannico per 6. Nei capitalismi industriali di più recente sviluppo la produttività cresce più rapidamente, sia perché l'accumulazione di capitale è più rapida nei giovani capitalismi, sia per il passaggio in breve tempo da un livello di composizione organica basso all'avvio dell'industrializzazione a uno sempre più prossimo a quello medio mondiale. Se un operaio coreano produceva nel 2011 quanto 7 operai nel 1985, significa che in meno di trent'anni l'industria coreana ha incrementato la produttività quanto gli US in oltre 60 anni (7).

TAB. 1. Produzione oraria, Produzione e ore lavorate nella manifattura dal 1979 al 2011 in 8 paesi

Tassi di incremento annuo

Ciclo lungo

Ciclo post crisi

Country Indicator

1979- 2007

1979-2011

1979-1990

1990-2000

2000-2007

2007-2011

2009-2010

2010-2011

United States

Output per hour

4.5

4.2

3.0

4.3

6.1

3.8

11.2

2.0

Output

3.1

2.7

2.3

4.2

2.9

-0.3

11.2

4.3

Hours

-1.3

-1.4

-0.6

-0.1

-3.1

-3.9

0.0

2.2

France

Output per hour

3.5

3.2

3.2

3.9

3.3

1.1

6.1

2.2

Output

1.3

0.9

0.9

1.9

1.2

-1.8

3.6

1.2

Hours

-2.1

-2.2

-2.3

-1.9

-2.1

-2.9

-2.3

-1.0

Germany

Output per hour

3.2

2.5

2.1

3.4

4.2

-1.9

7.6

4.5

Output

1.6

1.0

1.2

0.6

3.0

-2.4

11.3

8.1

Hours

-1.6

-1.5

-0.9

-2.6

-1.2

-0.5

3.5

3.5

Italy

Output per hour

2.3

2.1

3.4

2.5

0.9

0.0

9.4

-0.4

Output

1.6

1.0

2.6

1.3

0.8

-3.5

7.0

0.6

Hours

-0.7

-1.1

-0.8

-1.2

-0.1

-3.5

-2.1

1.0

Japan

Output per hour

3.6

3.4

3.8

3.3

3.8

2.2

14.8

-2.8

Output

2.7

2.3

4.7

0.8

2.6

-1.4

18.2

-3.6

Hours

-0.9

-1.1

0.9

-2.4

-1.1

-3.5

3.0

-0.8

United Kingdom

Output per hour

3.7

3.4

3.5

3.0

4.5

2.2

4.4

4.5

Output

0.6

0.4

0.9

0.9

0.1

-1.7

3.8

2.1

Hours

-3.0

-2.9

-2.5

-2.1

-4.3

-3.8

-0.6

-2.3

South Korea

Output per hour

NA

NA

NA

10.5

8.1

4.1

8.5

6.0

Output

8.7

8.5

10.8

8.4

6.8

5.6

14.7

7.2

Hours

NA

NA

NA

-1.9

-1.1

1.5

5.7

1.1

Czech Rep.

Output per hour

NA

NA

NA

NA

9.7

8.3

13.0

10.1

Output

NA

NA

NA

NA

9.4

5.4

13.8

9.8

Hours

NA

NA

NA

NA

-0.3

-2.7

0.8

-0.3

Fonte: U.S. Department of Labor, Bureau of Labor Statistics.Per Output si intende il valore aggiunto reale (real value added) in moneta nazionale corrente (national currency units). I dati per la Germania pre-1991 si riferiscono alla Germania Ovest. NA=dati non disponibili. Ultima modifica: 6 dicembre 2012.

 

 

La Tabella 1 riporta i tassi di incremento di produttività nei sei "grandi" e in due emergenti in un periodo che corrisponde grossomodo all'ultimo "ciclo lungo” (1973-2007), così definito nei lavori di Partito sul "Corso del capitalismo mondiale", più la fase successiva alla crisi 2008-2009. Il ciclo lungo è di espansione della produzione industriale, ma a tassi di incremento annuo decrescenti rispetto al ciclo precedente. La produttività dei 6 “grandi” (o ex tali) cresce nel periodo alla media del 3,5% annuo, ma con andamenti differenziati: Stati Uniti e Germania mostrano ritmi di incremento crescenti, col massimo (rispettivamente +6,1 e +4,2 annui) negli anni pre-crisi. In questa fase anche il Regno Unito recupera bene rispetto al relativo calo del decennio 1990-2000, portando l'incremento al 4,5. Francia e Giappone mostrano incrementi abbastanza stabili nel tempo, mentre l'Italia dà segni di declino fin dal decennio 1990-2000. In linea generale, i paesi che tengono il passo dal punto di vista capitalistico mostrano andamenti della produttività crescenti. D'altra parte, la crescita della produttività è la risposta capitalistica alle contraddizioni del processo di accumulazione; essa porta con sé la crescita della massa dei profitti, pur se al prezzo della tendenza al calo del loro saggio.

In tutti questi paesi, si registra un decremento delle ore totali lavorate, alla media del 2,3% annuo. La crescita della produzione è sospinta dalla crescita della produttività oraria che si esprime nella diminuzione delle ore totali lavorate, non solo in rapporto al prodotto, ma anche in assoluto. Il rapporto tra prodotto e ore lavorate, esprime in modo inequivocabile la crescita della composizione organica media, senza escludere per questo che una parte dell'incremento della produzione si debba all'intensificazione dei ritmi, al prolungamento della giornata lavorativa nelle singole aziende, ecc. La diminuzione delle ore di lavoro e il contemporaneo aumento del prodotto sono il risultato del calo della quota di capitale variabile totale impiegato nella produzione. Solo una crescita delle giornate lavorative avrebbe compensato questo calo con l'aumento della forza lavoro totale e consentito una crescita della produzione a ritmi più sostenuti. I dati – parziali – dei due “emergenti” indicano incrementi di produttività molto elevati, com'è tipico dei capitalismi più giovani che partono da una composizione organica media relativamente più bassa. Ma anche in questo caso, almeno per i dati a disposizione, la tendenza dell'occupazione dell'industria, espressa dal trend delle ore lavorate, è calante.

Nel periodo post-crisi, l'incremento medio di produttività dei paesi considerati scende all'1,2% annuo, e anche qui il passo più sostenuto lo tengono gli Stati Uniti. Da sottolineare il notevole balzo della produttività negli anni 2009-2010, dopo il crollo del 2008, com'è caratteristico dei periodi di ripresa. In questa fase, si registra anche un aumento delle ore lavorate (in Germania e Giappone, oltre che nei due emergenti), in controtendenza con i processi osservati nei decenni precedenti.

Che cosa è accaduto dopo la crisi del 2008?

Tab.2 - Prodotto per ora lavorata (1) e prodotto per addetto (2) nell'industria manifatturiera

USA

JAP

GER

ITA

FRA

UK

KOR

CZ

1

2

1

2

1

2

1

2

1

2

1

2

1

2

1

2

2007

100

100

100

100

100

100

100

100

100

100

100

100

100

100

100

100

2008

98.1

97.7

104.2

102.8

96.0

97.0

98.0

97.2

96.6

97.0

101.1

100.4

100.7

102.3

108.9

109.5

2009

102.1

99.7

97.7

90.3

82.4

94.2

91.9

85.2

95.7

94.2

100.0

97.3

101.8

102.5

110.4

108.0

2010

113.6

114.1

112.1

108.9

88.6

101.5

100.5

94.6

102.3

101.5

104.5

103.5

110.6

113.0

124.8

124.7

2011

115.8

117.2

108.9

105.7

92.6

103.6

100.1

94.9

104.6

103.6

109.1

107.5

117.2

119.2

137.4

135.3

Source: U.S. Department of Labor, Bureau of Labor Statistics, December 2012. Tratto da Table 1. Output per hour in manufacturing, 19 countries, 1950-2011.

La Tabella 2 permette di confrontare la produttività oraria con quella per addetto. In linea generale entrambe le forme vanno rapportate a variazioni nel livello di composizione organica, ma la differenza tra i dati dell'una e dell'altra può dare indicazioni sull'utilizzo più o meno intensivo o prolungato della manodopera.

Tra i cosiddetti “grandi”, negli anni successivi alla crisi solo gli Stati Uniti registrano un incremento considerevole di produttività (+18% sul livello più basso del 2008). La superiore crescita della produttività per addetto (+ 20%) su quella oraria è indicativa del contemporaneo ricorso all'intensificazione dello sfruttamento o al prolungamento della giornata lavorativa. Il recupero della Germania è decisamente inferiore; la produttività oraria nel 2011 è ancora ben sotto il livello pre-crisi, e il pur limitato recupero della produttività per addetto suggerisce che il capitalismo tedesco si stia affidando all'incremento del plusvalore assoluto, e abbia riservato gli investimenti in innovazione e capitale fisso nell'area di diretta influenza dell'Europa centro-orientale, ad un saggio di profitto più elevato (8). In quest'area, la Rep. Ceca incrementa la produttività oraria (estrazione di plusvalore relativo) di circa il 25% sul 2008! Il Giappone ha un buon recupero nel 2010, vicino a quello Usa, ma già nel 2011 la produttività si contrae. Negli stessi anni la produttività per addetto si mantiene inferiore a quella oraria, indice di un sottoutilizzo della manodopera occupata (contratti di solidarietà, part-time, sospensione della produzione, ecc.). Tuttavia, rispetto al livello minimo del 2009, in Giappone il recupero di produttività da intensificazione del lavoro o prolungamento della giornata lavorativa è superiore a quella oraria (+ 17% contro + 11%). Anche qui, come in Germania, la tendenza è a intensificare l'estrazione di plusvalore assoluto contenendo gli investimenti in innovazione e capitale fisso (l'età media delle macchine delle industrie giapponesi è di 15 anni, la più alta da 30 anni, superiore a quella di Stati Uniti e Germania (9). Francia e Regno Unito incrementano entrambe le forme di produttività di circa il 10% sul punto più basso del 2009. L'incremento di produttività della Corea, simile a quello degli Stati Uniti, attesta che il capitalismo coreano si avvicina ormai ai ritmi di crescita dei “grandi” e si colloca nella fase matura di estrazione di plusvalore relativo.

Complessivamente, tra i 6 “big” solo gli Usa mantengono un ritmo di accumulazione adeguato (che significa soprattutto investimenti in capitale fisso). La corsa dell'accumulazione procede ancora a ritmi elevati per i due emergenti presi ad esempio, rappresentanti delle due aree capitalisticamente più dinamiche: Europa “tedesca” e soprattutto Asia orientale. In Europa occidentale e Giappone gli indici di produttività attestano che il livello degli investimenti in capitale fisso si mantiene relativamente basso. Nel caso dell'Italia, gli indici segnano un evidente declino. Rispetto al punto più basso del 2009 il recupero di produttività oraria la riporta solo al livello pre-crisi, ma quella per addetto, pur recuperando l'11% circa sul 2009, rimane ben al di sotto rispetto al 2007, segno che la manodopera occupata rimane ampiamente sottoutilizzata. Il capitalismo italiano non dispone di un'area di influenza paragonabile a quella tedesca dove indirizzare gli investimenti di capitale fisso a un saggio di profitto superiore rispetto a quello domestico, e non è in grado nemmeno, in questa fase, di utilizzare appieno la forza lavoro occupata.

Il dato significativo che esce da questa pur parziale disamina è che nella maggior parte dei capitalismi maturi la risposta alla crisi non si avvale di investimenti in innovazione alla ricerca di produttività crescente. Ne deriva un ristagno dell'accumulazione, la cui dinamica procede più grazie agli investimenti diretti esteri che a quelli interni. L'eccezione americana dipende dalla struttura fortemente centralizzata del suo capitalismo, dal forte sostegno pubblico alle imprese e dalla tendenza al rientro di una parte degli investimenti esteri di grandi imprese (rilocalizzazione) in anticipo su un processo analogo avviato negli ultimi anni da alcuni concorrenti (Germania, Italia).

D'altra parte, il generale ritardo degli investimenti anche nella fase post-crisi, quando dovrebbero ripartire alla grande, è frutto di un capitalismo ultramaturo che deve affidarsi anche all'estrazione di plusvalore assoluto per ottenere saggi di profitto più elevati rispetto a quelli – evidentemente insostenibili – consentiti della composizione organica media data (10).

(1 – Continua)

 

NOTE

1- John Lanchester, Il capitalismo dei robot Internazionale, 27 marzo 2015.

2- John Lanchester, cit.

3- La crescente produttivitdel lavoro [...] si manifesta dunque nella diminuzione della massa di lavoro paragonata alla massa dei mezzi di produzione messa in movimento, ossia si manifesta nella diminuzione della grandezza del fattore soggettivo del processo di lavoro a paragone dei suoi fattori oggettivi.(Il Capitale, Editori Riuniti, 1980, Libro I, p. 681-682).

4- Il Capitale: Libro I, Capitolo VI inedito, La Nuova Italia, 1974, p. 58.

5- Idem, p. 73.

6- Il Capitale, Libro I, cit. p. 354.

7- La fonte dei dati sul sito dell' U.S. Department of Labor, Bureau of Labor Statistics, December 2012; Table 1. Output per hour in manufacturing, 19 countries, 1950-2011. Table 2. Output per employed person in manufacturing, 19 countries, 1950-2011.

8- Si veda al proposito P. Legrain, L'economia disfunzionale tedesca Il Sole24Ore, 30.09.2014. L'economia tedesca dal 2000 caratterizzata da bassi salari e sottoinvestimento. La riduzione dei costi ha favorito la competitivite il surplus delle partite correnti, ma l'altra faccia della medaglia sono la debole domanda interna e uno sviluppo asfittico. Le aziende non investono di pinel paese (gli investimenti sono scesi dal 22,3% del Pil del 2000 al 17% nel 2013) perchricavano un saggio del profitto pielevato dagli investimenti nell'area dell'Europa centro-orientale, a monte della catena di valore, dove si producono molti pezzi di prodotti "made in Germany".

9- "Macchine troppo vecchie", Internazionale, 8 maggio 2015.

10- “Per uscire dalla crisi il capitalismo si sforza di produre pia basso costo, utilizzando al massimo tutti i perfezionamenti tecnici. All'uscita dalla crisi si stabilito un certo rapporto, pibasso del precedente, tra capitale variabile e capitale totale. Produzione ed accumulazione ricominciano, e con l'aumento del capitale totale per un certo tempo aumenta anche il capitale salari e la domanda di lavoro. Durante questo intervallo normale il numero dei salariati tende ad aumentare, domanda e offerta di lavoro sono presso a poco equilibrate.(Elementi di economia marxista, Edizioni il programma comunista, 1991, p. 70).

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista)

INTERNATIONAL COMMUNIST PARTY PRESS
ARTICOLI GUERRA UCRAINA
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  • Il proletariato nella seconda guerra mondiale e nella
    Il proletariato nella seconda guerra mondiale e nella "Resistenza" antifascista
      PDF   Quaderno n°4 (nuova edizione 2021)
  • Storia della Sinistra Comunista V
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  • Perchè la Russia non era comunista
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  • 1917-2017 Ieri Oggi Domani
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  • Per la difesa intransigente ...
    Per la difesa intransigente
NOSTRI TESTI SULLA "QUESTIONE ISRAELE-PALESTINA"
  • Israele: In Palestina, il conflitto arabo-ebreo ( Prometeo, n°96,1933)
  • Israele: Note internazionali: Uno sciopero in Palestina, il problema "nazionale" ebreo ( Prometeo, n°105, 1934)
  • I conflitti in Palestina ( Prometeo, n°131,1935)
  • Gli avvenimenti in Palestina (Prometeo, n°132,1935)
  • Israele: Fraternità pelosa ( Il programma comunista, n°21, 1960)
  • Israele: Il conflitto nel Medioriente alla riunione emiliano-romagnola (Il programma comunista, n°17, 1967)
  • Israele: Nel baraccone nazional-comunista: vie nazionali, blocco con la borghesia ( Il programma comunista, n°20, 1967)
  • Israele: Detto in poche righe ( Il programma comunista, n°18, 1968)
  • Israele: Spigolature ( Il programma comunista, n°20, 1968)
  • Israele: Un grosso affare ( Il programma comunista, n°18, 1969)
  • Incrinature nel blocco delle classi in Israele(Il Programma comunista, n°17, 1971)
  • Curdi palestinesi(Il Programma comunista, n°7, 1975 )
  • Dove va la resistenza palestinese? (I)(Il Programma comunista, n°17, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (II)(Il Programma comunista, n°18, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (III)(Il Programma comunista, n°19, 1977)
  • Il lungo calvario della trasformazione dei contadini palestinesi in proletari(Il Programma comunista, n°20-21-22, 1979).
  • In rivolta le indomabili masse sfruttate palestinesi ( E' nuovamente l'ora di Gaza e della Cisgiordania)(Il Programma comunista, n°8, 1982)
  • Cannibalismo dello Stato colonialmercenario di Israele(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Le masse oppresse palestinesi e libanesi sole di fronte ai cannibali dell'ordine borghese internazionale(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • La lotta delle masse oppresse palestinesi e libanesi è anche la nostra lotta- volantino(Il Programma comunista, n°13, 1982)
  • Per lo sbocco proletario e classista della lotta delle masse oppresse palestinesi e di tutto il Medioriente(Il Programma comunista, n°14, 1982)
  • La lotta nazionale dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Sull'oppressione e la discriminazione dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°19, 1982)
  • La lotta nazionale delle masse palerstinesi nel quadro del movimento sociale in Medioriente(Il Programma comunista, n°20, 1982)
  • Il ginepraio del Libano e la sorte delle masse palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1984)
  • La questione palestinese al bivio ( Il programma comunista, n°1, 1988)
  • Il nostro messaggio ai proletari palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1989)
  • Una diversa prospettiva per le masse proletarie (Il programma comunista, n°5, 1993)
  • La questione palestinese e il movimento operaio internazionale ( Il programma comunista, n°9, 2000)
  • Gaza, o delle patrie galere (Il programma comunista, n. 2, 2008)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • A Gaza, macelleria imperialista contro il proletariato ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • Il nemico dei proletari palestinesi è a Gaza City ( Il programma comunista, n°1, 2013)
  • Per uscire dall’insanguinato vicolo cieco mediorientale (Il programma comunista, n° 5, 2014)
  • Guerre e trafficanti d’armi in Medioriente (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • Gaza: un ennesimo macello insanguina il Medioriente-Volantino (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • L’alleanza delle borghesie israeliana e palestinese contro il proletariato (Il programma comunista, n°6, 2014)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario  ( Il programma comunista, n°3, 2021)
  • A fianco dei proletari e delle proletarie palestinesi! ( Il programma comunista, n°5-6, 2023)
  • Il proletariato palestinese nella tagliola infame dei nazionalismi ( Il programma comunista, n°2, 2024)
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