DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Nella prima parte di questo lavoro, uscita sul numero scorso di questo giornale, abbiamo visto come la crisi economica di sovrapproduzione degli anni ’90 del ‘900, nella sua virulenza e profondità, abbia tra l’altro “bruciato” una montagna di capitale fittizio accumulato nelle banche, a loro volta cresciute a dismisura sulla sua base e infine in buona parte fallite (o salvate) l’una dopo l’altra – bolle finanziarie e immobiliari gonfiatesi all’ombra dell’impetuoso sviluppo economico quarantennale (ma, a un certo punto, senza più alcun “collegamento” con esso), sotto la supervisione e l’ala protettrice dello Stato e dietro il pungolo di una concorrenza sempre più aspra sul mercato mondiale. Nel periodo successivo, la crisi, per quanto meno virulenta, come possiamo vedere dalle tabelle seguenti, non viene affatto superata: i dati indicano chiaramente come il Giappone non riesca a uscire da uno sviluppo economico decisamente stentato, dalla “stagnazione” deflattiva e dall’elefantiaco debito pubblico – una situazione che nel 2012 spingerà il premier a prendere nuove misure, le quali, però, nonostante le illusioni alimentate da molti economisti che giuravano su un favorevole esito del “caso giapponese”, non porteranno ad alcun superamento della crisi. Vediamo ora che cosa è successo nell’ultimo quindicennio.

Il primo decennio del 2000

Il declino della potenza economica è rilevabile chiaramente dagli andamenti del PIL (1) rilevabili dalla tabella sottostante (notevole il decremento del 2009: del 5,2%):

 

Il declino della potenza economica è rilevabile chiaramente dagli andamenti del PIL (1) rilevabili dalla tabella sottostante (notevole il decremento del 2009: del 5,2%):

 

Country

1999

2000

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

Giappone

0,3

1,3

-0,3

2,7

2,9

2,6

2,2

2

-0,7

-5,2

3,9

-0,7

 

Il livello pro capite si manteneva comunque alto a causa del basso tasso di crescita della popolazione:

 

Country

1999

2000

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

Giappone

23.400

24.900

28.000

28.200

29.400

31.600

33.100

33.500

34.000

32.600

34.000

35.200

 

La bilancia commerciale,come abbiamo visto nella prima parte, ha rappresentato un settore essenziale dell'economia. Dal secondo dopoguerra, il Giappone esporta molto e investe all'estero l'eccesso di risorse che accumula. Il mercato interno è insufficiente ad assorbire l'intero volume della produzione industriale. Poiché il Giappone deve importare gran parte delle materie prime da cui dipendono le sue industrie, l'esportazione di una porzione cospicua della produzione annua è necessaria per raggiungere l'attivo nella bilancia commerciale. Nell'ultimo triennio, tuttavia, la crisi energetica innescata dal disastro di Fukushima, il rafforzamento dello yen e il rallentamento dell'economia mondiale, hanno avuto pesanti ripercussioni sull'interscambio, determinando nel 2011 il primo disavanzo con l'estero dal 1980, su base annua.

Come si vede dal raffronto tra import ed export, nel 2011, per la prima volta, il Giappone ha accusato un disavanzo, dovuto per l’appunto ai fatti di Fukushima e all’approviggionamento di combustibili fossili da Medio Oriente e Asia Orientale (che rappresentano da soli un terzo di tutto l'import nipponico). I reattori nucleari presenti fino al momento dell'incidente fornivano quasi il 30% del fabbisogno energetico. Petrolio, carbone e, soprattutto, gas naturale sono così destinati, almeno nel breve periodo, ad assumere un peso sempre maggiore tra le forniture in entrata. La forza dello yen, la crisi dell'Eurozona e il raffreddamento dell'economia cinese, sono all'origine del rallentamento dell'export nell'ultimo triennio. Mentre il settore dell'auto e dei macchinari, che rappresenta circa il 40% di tutte le forniture verso l'estero, ha reagito con efficacia alla delicata congiuntura internazionale, le grandi società produttrici di apparecchiature elettriche e dell'elettronica, invece, non sembrano in grado di contrastare la progressiva erosione delle quote di mercato da esse detenute da parte degli aggressivi competitor stranieri, in particolare le sudcoreane Samsung e LG. Da notare che Il Giappone è molto avanzato nella cosiddetta e-economy, nell'uso dei portali per l'accesso a internet (oltre 86 milioni di utenti nel 2005): sono molto diffusi l'e-commerce e le operazioni bancarie on line (i pagamenti elettronici sono ormai più numerosi di quelli effettuati nelle banche).

 

ESPORTAZIONI (in MLD$)

Country

1999

2000

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

Giappone

413

450

383,8

383,8

447,1

538,8

550,5

590,3

746,5

545,3

765,2

788

 

IMPORTAZIONI (in MLD$)

Country

1999

2000

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

Giappone

306

355

292,1

292,1

346,6

401,8

451,1

524,1

708,3

501,6

636,8

808,4

 

I tassi relativi ai prezzi al consumo indicano la permanenza della spirale deflattiva e una bassa fiducia dei consumatori.

 

Country

1999

2000

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

Giappone

-0,8

-0,7

-0,9

-0,3

-0,1

-0,3

0,3

0,1

1,4

-1,4

-0,7

-0,3

La Banca Centrale del Giappone mantiene una posizione anti deflazionistica, sostenendo che il ribasso del reddito delle famiglie si è fermato, che il consumo personale continua a mostrare segni positivi, e che il tasso di disoccupazione segue una via discendente:

Country

1999

2000

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

Giappone

4,7

4,7

5,4

5,3

4,7

4,4

4,1

3,8

4

5,1

5,1

4,6

 

E infine che le banche sono più disponibili a offrire prestiti. Il debito pubblico aumentava continuando a essere il maggiore tra tutti i Paesi industrializzati.

 

Country

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

Giappone

164,3

158

176,2

170

173

192,9

225,8

211,7

 

Rimaneva l'obiettivo della riduzione del deficit di bilancio (sceso nel 2007 al 3,8%, dopo aver toccato l'8% nel 2002 e 2003).

Il Giappone ha inoltre mantenuto una quasi totale stabilità nel partito al Governo: il partito liberal democratico (LPD), fatta esclusione per un momentaneo crollo (di breve durata) avvenuto nel 1993, si è sempre assicurato la maggioranza dei voti dell’elettorato fin dal 1955, per cui il sistema politico nipponico si è ritrovato con una realtà quasi monopartitica.

L’LPD ha sempre sviluppato una considerevole rete di appoggi intorno a quello che è definito come il “triangolo di ferro”: il legame molto stretto fra partito, burocrazia e business per l’investimento in grandi settori industriali e la creazione di vere e proprie lobbies nel settore agricolo. Il partito è al centro della gestione dell’economia nazionale, con molti interessi intrecciati nell’ambito economico e, ovviamente, una linea di continuità nella conservazione di tali interessi.

Le recenti misure

La vittoria elettorale del premier Shinzo Abe il 14 dicembre 2012 e la relativa linea politica, indicata come Abemonics, si pongono come un ulteriore tentativo di fare uscire il Giappone dal tunnel in cui si trova da tempo. Tassare il più possibile il “nocivo” risparmio privato, generare un’aspettativa di inflazione, favorire in tutti i modi il consumo delle famiglie così da innescare il “circolo virtuoso della crescita”: questa la ricetta keynesiana che gran parte degli stessi economisti occidentali consigliò ad Abe dopo la nomina a premier.

Lo scorso 27 dicembre, il governo del rieletto Shinzo Abe varava un nuovo pacchetto di aiuti da 3.500 miliardi di yen (29 miliardi di dollari) per favorire le regioni e le famiglie a basso reddito. L’obiettivo era di incrementare il PIL dello 0,7% e di centrare l’obiettivo, fissato un anno prima, di riportare l’inflazione al 2%. Circa 1.700 miliardi di yen (14 miliardi di $) vengono così destinati a interventi nelle aree colpite da disastri naturali; 600 miliardi di yen (5 miliardi di $) alla rivitalizzazione delle economie locali e 1.200 miliardi di yen alle piccole imprese colpite dalla congiuntura economica. “Con la veloce applicazione di queste misure, credo che potremo alimentare i consumi e risollevare l’economia delle province ed espandere il ciclo di crescita a tutte le regioni del paese”, dichiarava Abe durante un incontro con i deputati del suo partito (2). Le misure economiche producevano i loro effetti anche sull'export, a causa della politica monetaria ultra-espansiva della Banca del Giappone, che aveva condotto alla forte svalutazione dello yen nei confronti sia del dollaro che dell'euro. Il deprezzamento della valuta nipponica ha permesso d'incrementare i guadagni derivanti dalle forniture denominate in yen delle aziende giapponesi.

Questi risultati non hanno tuttavia arginato il deficit della bilancia commerciale, a causa dell'inarrestabile aumento del peso delle forniture energetiche.

Una delle misure più strombazzate è stata poi l’aumento dei salari per “aumentare consumi e investimenti”. In effetti, il capitale giapponese, nonostante il basso livello di disoccupazione e di sovrappopolazione operaia, aveva spennato ben bene i proletari negli ultimi decenni per affrontare e resistere alla concorrenza: dal 2000, il livello degli stipendi era calato a un tasso medio annuo dello 0,8%, rispetto, per esempio, alla crescita media del salario nominale del 3,3% negli Stati Uniti e nel Regno Unito e del 2,8% in Francia. Nel 1997, i salariati in Giappone ricevevano un totale lordo di 279 trilioni di yen; nel 2012, il totale era sceso a 244,7 trilioni di yen. In altre parole, i salariati giapponesi perdevano 34,3 trilioni di yen (circa 382 mld $) nel corso dell’ultimo decennio e mezzo. Come risultato, il reddito reale a disposizione delle famiglie era fortemente diminuito: da qui, il denunciato “sottoconsumo”, da superare con l’aumento dei salari.

L’intervento programmatico di Shinzo Abe del 6 gennaio 2014 era stato salutato con entusiasmo dai keynesiani europei, i quali avevano trovato la “conferma” che dalla crisi si poteva uscire non con un “ottuso” programma di austerity, bensì con la vecchia ricetta keynesiana.

Nei generali commenti alle elezioni politiche giapponesi del 14 dicembre, si osserva che “la vittoria in Giappone di Abe non è un trionfo: il consenso verso di lui è sceso e i problemi economici restano” (3). In effetti, la cosiddetta Abenomics, basata su un generoso quantitative easing e salutata come la “rivoluzione keynesiana” da prendere come modello alternativo a quello “austeriano” di marca “neoliberista”, non ha risolto nemmeno uno dei numerosi problemi “strutturali” che da decenni azzoppano un’economia tuttavia ancora potenzialmente forte e competitiva. I tentativi di ripresa produttiva devono fare i conti anche col problema dell’alto debito pubblico. Lo Stato deve in qualche modo raccogliere risorse ,se vuole essere più credibile di fronte agli investitori. La manovra contemplava pure l’aumento di tre punti delle imposte indirette (l’IVA). Ma in questo modo i salari più elevati, che avrebbero dovuto far aumentare i consumi e rilanciare la produzione, vengono spesi sotto forma di tasse da pagare allo Stato, vanificando ogni pretesa di rilancio dei consumi.

Il crollo dei consumi, verificatosi invece in seguito all’aumento di tre punti della tassa nazionale sui consumi, ha mostrato così l’estrema volatilità di una ripresa economica basata ancora su una fortissima iniezione di liquidità nelle arterie ormai sclerotizzate del capitalismo giapponese. La “scossa adrenalinica” ha avuto un grande impatto sul malato (in termini di crescita dell’inflazione, del PIL e degli indici di Borsa), ma è stato solo un “effetto-shock” di breve durata. Di qui, la decisione, presa a novembre scorso dal Primo Ministro giapponese, di sciogliere la camera bassa della Dieta e di indire elezioni anticipate (per l’appunto a dicembre), in modo da ottenere dall’elettorato un secondo e più forte mandato.

Nel primo trimestre del 2014, la crescita del PIL faceva registrare un risultato di proporzioni quasi “cinesi” (5,9% su base annua) e anche le esportazioni registravano un +6%, sempre su base annua, con una discreta crescita della produttività (+4,9%, negli investimenti di capitale delle imprese). Il giornale della nostrana Confindustria così commentava: “L’economia giapponese supera ampiamente le aspettative e torna a crescere a un ritmo robusto in tandem con il ritorno dell’inflazione, proprio mentre una Europa anemica sente avvicinarsi lo spettro della deflazione che ha attanagliato per vent’anni il Sol levante” (4). In realtà, il balzo del Pil nipponico si era verificato soprattutto per un’impennata dei consumi, di una corsa agli acquisti di beni durevoli in anticipo sull’aumento dell’Iva dal 5 all’8%, scattato poi il primo aprile. Dopo una politica monetaria ultraespansiva e una serie di stimoli pubblici all’economia, insomma, è bastato il primo provvedimento di irrigidimento fiscale varato dal governo per abbattere il Pil trimestrale. Così l’economia subisce una contrazione, che vari economisti si attendono in un ordine tra il -4% e il -6% annualizzato.

Secondo il Report sull’economia, reso noto a novembre dal governo Abe, l’inflazione era scesa di nuovo (0,9% su base annua, ben al di sotto dell’obiettivo del 2% fissato un anno prima dalla Banca Centrale Giapponese), e, a fronte di un leggerissimo miglioramento nel tasso di disoccupazione (dal 3,6% al 3,5% nel mese di ottobre), i dati confermavano il lungo trend discendente dei salari reali (-3% su base annua). Il potere d’acquisto dello yen era sceso di oltre il 30% rispetto al 2013; e, se questo ha aiutato solo un poco l’export giapponese, che deve comunque fare i conti con l’anemica economia europea, con un’oscillante ripresa americana e con la relativa frenata della locomotiva cinese, di certo ha anche aumentato non poco i costi dell’import: energia, materie prime industriali, componentistica e beni di consumo. Complice anche l’impennata dei prezzi delle importazioni, i redditi reali delle famiglie si sono invece contratti del 6%. La bilancia commerciale, un tempo vanto del Sol Levante, continua dunque a sperimentare giorni poco gloriosi, come si può vedere dalla tabella che segue:

BILANCIO DELLE PARTITE CORRENTI

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

170

165.

174

210

156.

142

160

120

 

Nel 2012, il surplus delle partite correnti si abbassa a circa 61 ML$. Per il 2013 scende ancora a 35 ML$, mentre per il 2014 sale a 67.

Si capisce allora perché il premier Abe intenda rilanciare il programma energetico nucleare, a onta di tutti i sondaggi fatti dopo il disastro dell’11 marzo 2011 a Fukushima (da notare che prima del 2011 il Giappone era il terzo Paese per consumo di energia nucleare, dopo Usa e Francia).

Costituzione e nazionalismo

Riguardo alla politica estera e alla sicurezza, il premier intende poi restaurare quella che lui e i suoi amici di partito chiamano la “dignità giapponese”: rivedere cioè l’articolo 9 della Costituzione, imposto nel 1947 dalle forze occupanti statunitensi. Ciò consentirebbe di accrescere le spese per la difesa e preparare le forze armate giapponesi in vista di un possibile scontro militare con la Cina, sempre più assertiva e aggressiva nei confronti dell’integrità territoriale giapponese e della sua sovranità nel Mar Cinese Orientale. Nel 2013, le relazioni con Cina e Corea del Sud raggiungevano i loro minimi storici.

Con Seoul, le tensioni diplomatiche del 2013 derivano dalla contesa attorno a un episodio della Seconda guerra mondiale, quando migliaia di donne sudcoreane sarebbero state forzate a prostituirsi per l’armata imperiale giapponese (mentre Abe sostiene fossero “volontarie”). Le pessime relazioni “diplomatiche” con Pechino (sul piano economico, l’interscambio commerciale è superiore a quello di qualunque altra “coppia” di paesi) riguardano invece la disputa territoriale sul gruppo di piccole isole del Mar Cinese Orientale, chiamate Senkaku in Giappone e Diaoyu in Cina. Da quando, nel settembre del 2012, Tokyo ha acquistato dal proprietario privato tre di queste isole contese – annesse al Giappone nel 1895, amministrate dagli USA dopo il 1945, e tornate in mano giapponese dal 1972 – , la Cina cerca di affermare quello che chiama un “dual control”, violando il controllo giapponese delle acque territoriali attorno agli isolotti. Mentre il primo ministro Abe ha reagito a queste azioni incrementando la potenza di fuoco della guardia costiera giapponese, le prospettive di dialogo bilaterale tra i due paesi sono ai minimi storici, non ultimo perché, con il governo Abe, Tokyo non potrà fare quello che Pechino chiede: riconoscere innanzitutto l’esistenza di una disputa territoriale con la Cina nel Mar Cinese Orientale. La violazione delle acque territoriali giapponesi sta comunque spingendo Abe a giustificare un incremento del budget della difesa e la necessità di rivedere l’articolo 9 della Costituzione.

Debito pubblico e liquidità

Per il Giappone, la cosiddetta “trappola della liquidità”, come abbiamo visto, è stata ed è dunque una realtà ben consolidata. Ma contro i bassi profitti attuali (la crisi di sovrapproduzione), non c’è misura monetaria e fiscale in grado, alla lunga, di costringere il capitalista a investire o il consumatore a comprare. Tra l’altro, il tasso di risparmio del Giappone è costantemente diminuito, passando dal 20% del reddito familiare prima degli anni Settanta, al 15% nei primi anni Ottanta, al 10% nel 1990, al 5% nel 2000, al 2% nel 2009. Oggi questo tasso si aggira intorno al 3%. Molti osservatori ritengono che la “capacità del Giappone di sostenere alti deficit pubblici, bassi tassi di interesse ed esportazioni di capitale netto, è stata possibile grazie al suo alto tasso di risparmio privato, che ha mantenuto positivo il livello di risparmio nazionale. Ma, considerata oggi la scarsa propensione al consumo da parte delle famiglie, il circolo vizioso di deficit e debito presto azzererà il risparmio nazionale” (5). L’economista Mauro Bottarelli concorda con questa nera previsione e rincara la dose: “Abe comincia ad aver paura che la situazione stia sfuggendo dal suo controllo. E qualcuno questo lo sa da tempo, visto che nella settimana conclusasi il 14 novembre scorso gli investitori a livello globale hanno ritirato dai fondi azionari giapponesi qualcosa come 3,8 miliardi di dollari, il più grosso outflows di capitale dal maggio 2010. I fondi azionari USA hanno invece conosciuto a fine dicembre un inflows di 36,5 miliardi, il flusso in entrata più alto dal 1992”. Continua Bottarelli: “Vi dicono niente tutti questi dati messi assieme? A me sì. Ovvero, il Giappone è sulla strada del non ritorno, e chi investe per professione ha già incassato il premio e ora scappa a gambe levate lasciando le speranze nell’Abenomics a Krugman e ai suoi gonzi adoratori europei” (6). In effetti, è almeno dal 1998 che il celebre economista americano invita i leader giapponesi a una più intelligente (leggi: keynesiana) “gestione dell’inflazione”, attraverso l’immissione nel sistema economico di nuovo denaro in grado di generare aspettative di leggera inflazione.

Da quasi vent’anni, il Giappone fa tentativi e sperimenta di tutto e di più, fuorché affrontare di petto i famigerati “problemi strutturali”. Ecco il circolo vizioso giapponese di lunga durata: quantitative easing a gogo, spesa pubblica finanziata in deficit e continui tentativi di tenere il debito pubblico sotto controllo aumentando le tasse. Il risultato è quello che vediamo: debole, se non inesistente, crescita, deficit del 10% sul PIL e debito pubblico molto oltre il 220% sul PIL, il più alto del mondo. C’è da dire che il debito, per finanziare il quale lo Stato destina una percentuale sempre più alta delle sue entrate fiscali (si viaggia verso il 30%), e sul quale paga tassi di interesse sui decennali intorno allo 0,82% (e quindi minori di quelli tedeschi e americani), il debito è detenuto quasi tutto da giapponesi, cosa che solo in parte rappresenta anche un punto di forza per il sistema-Paese.

L’economia agricola

Tra le misure promesse nel dicembre 2012 dal governo Abe per incrementare la produttività totale ed eliminare consistenti sacche di inefficienza sistemica, spiccava quella relativa al regime delle protezioni nei confronti dei coltivatori, delle società farmaceutiche, degli studi professionali, ecc. Soprattutto la produzione agricola ha sempre goduto in Giappone di massicci sussidi e di imponenti barriere protezionistiche, cause di continui battibecchi con gli Stati Uniti, con i competitori asiatici, ma soprattutto di forte malessere per una consistente fascia di popolazione giapponese. L’agricoltura del Giappone è rimasta molto indietro rispetto all’industria, e nemmeno la ristrutturazione negli assetti proprietari delle terre (concentrazione e razionalizzazione del capitale “verde”) e la rivoluzione biotecnologica degli anni Novanta hanno modificato il quadro. Ciò che sta avvenendo nel comparto del riso forse annuncia una ripresa dell’iniziativa governativa: “A partire dal 2014, la consolidata politica giapponese sulla produzione e sulla vendita del riso subirà un radicale cambiamento. Il controllo delle quote, che ha radici storiche molto lontane, dal 1970, è stato impostato con l’obiettivo di mantenere il prezzo del riso alto e di garantire agli agricoltori un sussidio statale annuale. Nell’arco di quattro anni, entro la fine del 2018, dovrebbe essere eliminato ogni tipo di aiuto economico da parte del governo e i prezzi liberalizzati. La conseguenza, secondo alcuni analisti giapponesi, sarebbe un notevole incremento della produzione del 40% rispetto all’attuale e un importante abbassamento dei prezzi. Ciò permetterebbe di rendere il riso giapponese molto competitivo sui mercati esteri e incrementare le esportazioni come mai avvenuto prima. […] La Cina si trova in una condizione opposta rispetto a quella giapponese. Il più grande produttore di riso al mondo ha invece mantenuto i prezzi troppo bassi fino a oggi. Ma In questi ultimi anni si è registrata una differenza enorme tra i guadagni pro-capite dei cittadini cinesi che vivono nelle città e coloro che vivono di agricoltura nelle campagne. Se il governo tenterà di appianare tale differenza, ed è costretto a farlo presto, dato che rappresenta un problema socio-politico di dimensioni enormi, il costo dei prodotti agricoli cinesi è destinato ad aumentare notevolmente. In questa ottica, il Giappone quanto gli altri grandi produttori del Sud-Est asiatico, potrà quindi cominciare a competere addirittura sul mercato cinese. Un pericolo non indifferente per Pechino, dunque, che scorge una minaccia capace di toccare il delicato equilibrio fra esportazioni, demografia e industria alimentare» (7).

Demografia e tecnologia

La forza lavoro del Giappone rappresenta una percentuale sempre più decrescente della popolazione generale del Paese. Lo si vede nelle due tabelle seguenti:

POPOLAZIONE

 

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

2012

127.417.200

127.463.600

127.433.500

127.288.400

127.078.700

126.804.400

126.475.700

127.368.100

 

 

FORZA LAVORO

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

66.400.000

66.440.000

66.690.000

66.500.000

66.170.000

65.700.000

65.930.000

 

A cominciare dalla seconda metà degli anni Settanta, le industrie giapponesi, per reagire ai contraccolpi della crisi economica internazionale, hanno impiegato sempre più donne lavoratrici a basso costo (soprattutto casalinghe part-time), grazie anche alla diffusione delle tecnologie informatiche, sia nelle industrie che negli uffici. Il rapido aumento dell’impiego femminile ha prodotto un netto calo del tasso di natalità media, che è sceso da 2,05 nel 1974 a 1,34 nel 1999.

Dalla trappola demografica, che affligge tutti i Paesi capitalisticamente più avanzati (o “vecchi”) del pianeta, il capitale potrà uscire solo aumentando di nuovo la produttività del lavoro, cosa che presuppone la condizione di profittabilità dell’investimento capitalistico in attività che creino ricchezza, e non si limitino a farla semplicemente circolare, creando l’illusione della creazione di ricchezza dalla semplice “movimentazione” della stessa.

Per il capitale ha senso investire in tecnologia (e quindi in ricerca scientifica teorica e applicata) solo perché le macchine hanno la prerogativa di allungare quella parte della giornata lavorativa che genera plusvalore, mentre restringe quella parte retribuita con il salario. Nell’epoca capitalistica, la tecnoscienza permette al capitale di ampliare il tempo del pluslavoro (il lavoro erogato dal salariato a titolo gratuito, base materiale del plusvalore), senza allungare i limiti assoluti della giornata lavorativa o, anzi, a volte accorciandoli. La produttività del lavoro coglie l’essenza del processo capitalistico come si svolge nella realtà, non nella testa dei feticisti della tecnologia, i quali ignorano che anche la tecnologia è, in primo luogo, un rapporto sociale. Il robot, insomma, ha un senso capitalistico solo se riesce a incrementare il saggio di sfruttamento dei lavoratori, cosa che deve armonizzarsi con un altro e più decisivo saggio ai fini dell’accumulazione: il saggio del profitto, il quale è influenzato dalla composizione organica (rapporto tra “capitale tecnologico” e “capitale umano”, espresso in termini di valore) delle imprese capitalistiche. Se il governo giapponese, come è riuscito a fare, tra l’altro fortemente, almeno fino alla metà degli anni ’90, non riesce a orientare nuovamente il sistema-Paese verso una rapida crescita della produttività del lavoro (non solo industriale), superiore a quella delle altre forti economie, riconquistando in tal modo i mercati perduti nell’ultimo ventennio dinanzi a competitori divenuti nel frattempo più agguerriti e attrezzati, gli sarà impossibile uscire dalle secche della situazione attuale e sperare di ritornare al “glorioso passato”.

Il fallimento delle misure sopra ricordate dimostra decisamente che le ricette monetarie, valutarie, possono spostare (il più delle volte provvisoriamente, come nelle alterne fregature reciproche tra mercanti–briganti imperialisti) i rapporti di forza nei mercati internazionali, sopratutto nelle situazioni di crisi economica ancora debole e superficiale. Nelle situazioni di grave e prolungata crisi economica, come quella cui assistiamo e che viviamo almeno dal 2007, quelle misure e ricette monetarie, i quantitative easing, ecc., mostrano invece il respiro ancora più corto, perfino nelle illusioni che inizialmente alimentano come àncore di salvezza.

Le nostre lezioni

Nella situazione attuale, tutti gli stati capitalistici, vecchi, maturi, emergenti, arretrati, sono dunque generalmente e maggiormente protesi ad accrescere la produttività del lavoro, a investire in tecnologia e scienza, per accrescere così il plusvalore estorto agli operai. E’ questo il solo modo, quello classico, generalmente sperimentato e riconosciuto, da cui essi devono partire per poi “eventualmente” conquistare (o riconquistare) i mercati. E gli stati capitalistici vi si preparono nell’unico modo che hanno sempre portato avanti: accrescendo e intensificando lo sfruttamento proletario, accentuando la reciproca concorrenza e ostilità. In questo compito, sul piano esterno, trovano delle resistenze, ma nello stesso tempo una spinta, nella stessa guerra economica sempre più aspra e globalizzata per i mercati mondiali; sul piano interno, trovano resistenze nell’affrontare le cosiddette riforme di struttura, quelle che richiedono investimenti per guadagni in tempi più lunghi; oppure nel parassitismo sociale e nelle magagne della corruzione, ormai infiltrati in tutti pori e meandri della società e delle macchine politico istituzionale e amministrative. Gli episodi e i focolai di guerra sempre più diffusi, il clima di guerra generalizzata che si va respirando, rappresentano l’incapacità sempre maggiore del sistema capitalistico di far fronte ai propri problemi, inasprendo la sola guerra economica, commerciale o valutaria. Purtroppo non incontrano ancora alcuna resistenza, o una resistenza ancora molto debole, nella formazione di una decisa opposizione e organizzazione operaia mondiale. La lunga controrivoluzione sviluppatasi a partire dagli anni ’20 del secolo scorso, portata avanti con tutti i mezzi (da quelli economici a quelli ideologici, a quelli militari) dalla classe borghese dominante a livello mondiale, il servilismo nei suoi confronti delle organizzazioni economiche operaie ufficiali, hanno fatto terra bruciata attorno alla formazione di vere organizzazioni classiste. Ma le contraddizioni sempre maggiori del sistema capitalistico, mentre preparano le premesse per guerre sempre più generalizzate, non potranno non risvegliare anche il proletariato mondiale e con esso il suo istinto di classe. Nello stesso tempo, non potranno non risvegliare anche la sua coscienza di classe: la formazione del partito comunista internazionale, sulla base di quello apparso sulla scena storica fin del 1848. A questo compito, noi lavoriamo: per dare al proletariato una guida e un indirizzo che possano far uscire la specie umana da questo infernale regime capitalistico, in direzione del comunismo.

NOTE

(1) Fonte delle tabelle: CIA World Factbook

(2) La Repubblica, 27/12/2014.

(3) Limes, 22/12/14.

(4) Il Sole 24 Ore, 15/5/2014.

(5) Economics, Business & Finance, 24/2010

(6) Affari e Finanza, 29/12/2014.

(7) P. Balmas, BloGlobal, 9/5/2014.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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