DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Il processo che porta alla presa del potere, alla cui direzione lavora il partito di classe, è possibile solo in un'epoca di sconvolgimenti economico-politici e militari. Rappresenta il momento più alto e il compimento dell'azione rivoluzionaria: ma, proprio perché si tratta di un processo, nel corso storico della lotta di classe subisce una trasformazione che i comunisti hanno il dovere di conoscere e studiare. I brani qui sotto riportati di alcuni scritti di Marx e di Engels riassumono l'epoca delle lotte “sulle barricate”. Il mito distorto di quelle lotte si è poi travasato nella baraonda piccolo-borghese, lasciando alle generazioni proletarie combattenti una pesante eredità di dolorose sconfitte. Il fascino della barricata, l'avventurismo e volontarismo anarchico sono ancora oggi il residuo di un'epoca tramontata per sempre, ma sempre viva nell’angusta mentalità immediatista della piccola borghesia – un avventurismo insidioso che è stato sempre utilizzato dalle mezze classi per asservire agli interessi conservatori e reazionari del capitale le energie proletarie.

Nella rivoluzione di febbraio 1848, una sorta di “fratellanza d’interessi” spinse a Parigi una accanto all’altra contro la monarchia le due classi nemiche, il proletariato e la borghesia, in una rivoluzione – la cosiddetta “bella rivoluzione” – che in giugno si trasformerà in una sanguinosa repressione. Scrive Marx nel 1850: “Il proletariato parigino era stato costretto all’insurrezione di giugno dalla borghesia. In ciò era contenuta la sua condanna. Né un consapevole bisogno immediato lo spingeva a combattere per rovesciare con la violenza la borghesia; né esso era pari a questo compito.[…] solo la sua sconfitta lo convinse della verità che il più insignificante miglioramento della sua situazione è un’utopia dentro la repubblica borghese, un’utopia che diventa delitto non appena vuole attuarsi. Al posto delle sue rivendicazioni, esagerate nella forma, nel contenuto meschine e persino ancora borghesi, e che esso voleva strappare come concessioni alla repubblica di febbraio, subentrò l’ardita parola di lotta rivoluzionaria: Abbattimento della borghesia. Dittatura della classe operaia!”(da Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850).

In seguito, lungo il percorso della lotta di classe, l'esperienza della guerra franco-prussiana, che portò alla Comune di Parigi (1870-71), separerà due epoche: da una parte, ancora la cieca e fideistica fiducia nella guerriglia cittadina, nella “vampata insurrezionale” e nelle barricate; dall'altra, la necessità deterministica di quel processo, della sua organizzazione e della guerra rivoluzionaria, che Marx ed Engels individuano con grande precisione proprio sulla base dello studio di quelle prime esperienze. Era l'epoca (l'ultimo quarto del secolo XIX) in cui stavano facendo la loro comparsa i grandi eserciti permanenti, la “mobilitazione generale”, organismi sorti per militarizzare intere “nazioni” e mantenere grandi masse di uomini armati sottomessi alla disciplina del capitale. Questi eserciti borghesi dell'epoca dell'industrialismo sono invincibili se confrontati alle barricate che, tagliando di traverso le ancor piccole strade di Parigi, Vienna, Milano nella prima metà del secolo XIX e durante i mesi gloriosi della Comune, tentarono di opporsi alle forze soverchianti della classe nemica. La Comune non ebbe un esercito rivoluzionario centralizzato e soprattutto non ebbe il partito di classe, unico e dittatoriale, che ne organizzasse e dirigesse la strategia: solo la sua sconfitta li resero deterministicamente necessari. L'esperienza tragica della Comune, dunque, aprì la strada che, mezzo secolo dopo, porterà (come lezione di quell'esperienza) al partito di classe internazionale e all'Armata Rossa, nel mezzo di una guerra imperialista spaventosa, il primo conflitto mondiale: armi non solo teoriche e strategiche, ma forze combattenti e disciplinate, capaci di affrontare sul terreno militare la borghesia e di sconfiggerla. Altra via di uscita dalla società borghese da allora non sarà possibile: il processo che porterà alla rivoluzione comunista si muoverà, fino allo scontro decisivo, nel quadro voluto e imposto dallo scontro dinamico di due grandi eserciti contrapposti, sotto la direzione delle due classi nemiche in inconciliabile lotta – uno scontro che dovrà necessariamente proiettarsi su uno scenario mondiale, pena la sconfitta.

Per fare maggiore chiarezza, rileggiamo un brano di Engels, tratto da Rivoluzione e controrivoluzione in Germania (1852; paragrafo XVII: L’insurrezione), in cui sono messi a nudo i caratteri e i limiti dell’azione insurrezionale che caratterizzarono l’epoca che va dal 1830 al 1850.

Scrive dunque Engels: “Ma l’insurrezione è un’arte, come la guerra e le altre arti. Essa è soggetta a norme d’azione determinate, le quali, quando vengono trascurate, portano alla rovina del partito che le trascura. Queste norme d’azione, che derivano logicamente dalla natura dei partiti e dalle circostanze con cui si ha da fare nel caso determinato, sono così semplici e chiare, che la breve esperienza del 1848 le ha rese abbastanza note al popolo tedesco. Prima di tutto, non si deve mai giocare con l’insurrezione, se non si è decisi ad accettare tutte le conseguenze del proprio giuoco. L’insurrezione è un’equazione con grandezze molto indeterminate, il cui valore può cambiare ogni giorno, le forze che si oppongono a voi hanno tutti i vantaggi dell’organizzazione, della disciplina e dell’autorità tradizionale; se non opponete loro delle grandi forze siete battuti e rovinati. In secondo luogo, una volta incominciata l’insurrezione, si deve agire con la più grande decisione, passare all’offensiva. La difensiva è la morte di ogni insurrezione armata; se rimane sulla difensiva, l’insurrezione è sconfitta prima di misurarsi col nemico. Bisogna sorprendere gli avversari mentre le loro forze sono disperse e avere dei nuovi successi, sia pure piccoli, ma ogni giorno; bisogna conservare l’ascendente morale datovi dalla prima sollevazione vittoriosa; raccogliere così attorno a voi quegli elementi vacillanti, che seguono sempre la spinta più forte e si schierano sempre dalla parte che ha dei successi; dovete costringere il nemico a ritirarsi prima che abbia potuto riunire le sue forze contro di voi”.

“Ad eccezione di alcuni pochi capitoli – scrive a sua volta Marx, nel testo citato più sopra – ogni periodo importante degli annali rivoluzionari dal 1848 al 1849 porta come titolo: Disfatta della rivoluzione! Chi soccombette in queste disfatte non fu la rivoluzione. Furono i fronzoli tradizionali prerivoluzionari, risultato di rapporti sociali che non si erano ancora acuiti sino a diventare violenti contrasti di classe, persone, illusioni, idee, progetti, di cui il partito rivoluzionario non si era liberato prima della rivoluzione di febbraio e da cui poteva liberarlo non la vittoria di febbraio ma solamente una serie di sconfitte. In una parola: il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario, facendo sorgere una controrivoluzione serrata, potente, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario”.

Quello che Marx ed Engels precisarono in tutta la loro vita di militanti rivoluzionari, cioè di studiosi attivi nel movimento reale che cambia lo stato di cose esistente, fu dunque il disegno strategico della Rivoluzione proletaria libera dai “fronzoli tradizionali”. Gli insegnamenti che verranno dall'esperienza storica (cioè le lezioni delle controrivoluzioni) costituiranno uno dei fondamenti della dottrina comunista. Il trionfo della rivoluzione futura avrà così le sue basi nella previsione e preparazione teorica, generale e strategica, in stretta fusione con la previsione e preparazione tattica, che permetteranno all'organizzazione, al partito in stretto contatto con la classe di cui è organo, di evitare errori militari e politici fatali.

In base a ciò, quando Marx dice che la Comune fu figlia dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori (la Prima Internazionale), intende dire propriamente questo: essa fu costretta a riconoscere e a mettere in pratica, per quanto le fu possibile in quei pochi mesi di vita, il principio teorico della necessità della demolizione della macchina statale borghese e della sostituzione sulle sue rovine dello stato della dittatura proletaria.

Mentre la Comune realizzava i suoi possibili obiettivi pagando un prezzo enorme, assediata da due eserciti, nella lettera del 12 aprile 1871, Marx ricorda a Kugelmann: “Se tu rileggi l’ultimo capitolo del mio 18 Brumaio troverai che io affermo che il prossimo tentativo della rivoluzione francese non consisterà nel trasferire da una mano ad un’altra la macchina militare e burocratica com’è avvenuto fino ad ora, ma nello spezzarla, e che tale è la condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare sul continente”. Eccole, la distruzione della macchina statale borghese (una macchina politica, militare e amministrativa che ha fatto il suo tempo) e la sua sostituzione con una macchina nuova e differente che dovrà presentarsi sul terreno dello scontro ultimo con i caratteri di una organizzazione di combattimento: la dittatura del proletariato sarà una fase di transizione, destinata ad aprire le porte alla futura società senza classi.

Quando Engels scrive nel 1893 il saggio L'Europa può disarmare?, è iniziata l'epoca della maturità degli eserciti di massa, prodotto diretto della civiltà industriale capitalistica giunta alla sua fase imperialista. La possibilità che gli “accordi di pace” della fine del secolo si potessero trasformare, per merito di questo o quello Stato, in un disarmo generale viene decisamente esclusa. Ma Engels cerca comunque di prendere in considerazione anche questa remota eventualità e la studia criticamente. La guerra, annunciata dal conflitto franco-prussiano, diventerà a quasi mezzo secolo di distanza guerra mondiale, non certo disarmo generale.

L’Introduzione a La guerra civile in Francia (1871) di Marx – scritta nel 1891 da Engels – ne conferma le previsioni: “E non si è verificata alla lettera la previsione che l’annessione dell’Alsazia-Lorena spingerebbe la Francia nelle braccia della Russia e che dopo questa annessione, la Germania o sarebbe divenuta il servo patentato della Russia o sarebbe stata costretta, dopo una breve guerra, ad armarsi per una nuova guerra di razza contro le razze latine e slave coalizzate? L’annessione delle province francesi non ha forse gettato la Francia nelle braccia della Russia? […] E non vediamo forse quotidianamente sospesa sul nostro capo la spada di Damocle, la minaccia di una guerra, nel primo giorno della quale tutti i trattati ufficiali di alleanza tra i principi se ne andranno in fumo, di una guerra di cui nulla è certo, quanto l’incertezza del suo esito, di una guerra di razza che sottoporrà l’intera Europa alle devastazioni e ai saccheggi di 15 o 20 milioni di armati, e che se non imperversa già, è soltanto perché anche il più forte degli Stati militari è colto dal panico dinnanzi alla totale impossibilità di intravederne il risultato finale?”.

Gli eventi, le alleanze, i massacri sono deterministicamente anticipati. L'indagine materialista di Engels spiega che la corsa agli armamenti costituisce un fattore ineliminabile dello sviluppo economico e tecnico-militare capitalistico, fino a un punto di non ritorno dettato dalle leggi della dinamica capitalista, dalla violenta concorrenza economica fra gli Stati che si esprimerà come conflitto nazionalistico. Gli eserciti europei ricevono da quella corsa un'accelerazione straordinaria, causa ed effetto della lotta per la supremazia sul continente. La lotta politica fra le classi entrerà apertamente in scena, spinta agli estremi con mezzi militari: “la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile” (la parola d'ordine lanciata da Lenin) avrà pertanto il compito di far maturare la lotta di classe in guerra rivoluzionaria. Il legame tra guerra e rivoluzione, già messo in evidenza da Marx al tempo della Comune, era chiaro: “Però non era possibile difendere Parigi senza armare i suoi operai, senza organizzarli in una forza di guerra effettiva, senza allenarli alla guerra attraverso il combattimento stesso. Ma Parigi in armi era la rivoluzione in armi. Una vittoria di Parigi sull’aggressore prussiano sarebbe stata una vittoria dell’operaio francese sul capitalista francese e i suoi parassiti statali”.

Quando insistiamo nel criticare con forza i negatori del partito di classe e gli adoratori della spontaneità, ci basiamo anche sulla esperienza concreta della storia che ha provveduto a ridimensionare i tanti sogni velleitari di natura ribellistica delle mezze classi. Che alcune lotte assumano o meno un carattere violento, negli scontri di strada con le “forze dell’ordine”, non cambia minimamente il percorso di preparazione rivoluzionaria del proletariato. Per lo più, questi scontri si presentano come “desideri”, come “estetica del gesto violento”, aspirazione e invocazione di un'“immaginazione al potere” che non sposta di un millimetro i rapporti di forza tra le classi. Tanto meno lo spostano il pacifismo, la diserzione (individuale o di massa), il rifiuto di prestare il servizio militare o un astratto “sciopero contro la guerra” scollegato dalle vicende delle lotte proletarie. Le due rivoluzioni, la Comune del 1871 e l'Ottobre Rosso del 1917, hanno avuto il medesimo innesco: lo stato di guerra fra borghesie si è trasformato in guerra di classe rivoluzionaria, condotta con le armi in pugno non abbandonando il campo, ma accettando lo scontro. Gli eserciti, oggi, hanno assunto una potenza distruttiva enorme, capace di mettere a ferro e fuoco l'intero pianeta: nonostante ciò, la crescita della massa mondiale dei “senza riserve” rappresenta un potenziale rivoluzionario altrettanto possente. Molte sono le variabili che possono spingere in avanti il movimento proletario, il cui numero non è fattore determinante. Solo la presenza e la direzione di un unico partito di classe, unito teoricamente e strategicamente, e presente in ogni fase della vita della sua classe, organizzato internazionalmente (il Partito Comunista Mondiale), rappresentano la determinazione significativa.

Per esperienza acquisita, Engels si esprime duramente nei confronti dell'insurrezionalismo improvvisato e dell'esaltazione delle barricate: mette sulla graticola della critica non solo le confuse illusioni riformiste, ma anche l'impazienza individualista. Tutte le sue argomentazioni sono una vera e propria requisitoria contro la mitizzazione delle lotte di strada e delle barricate: queste, egli dice, si dimostrarono efficaci fino alle rivoluzioni del 1848; e aggiunge che, in date circostanze, questi metodi di lotta si possono considerare appropriati e necessari, ma certo non dal punto di vista della lotta generale rivoluzionaria: le barricate possono servire durante gli scioperi e negli scontri con la polizia, sono anch’esse forme di allenamento alla lotta di classe; ma non compariranno più come protagoniste della guerra rivoluzionaria.

Nell’Introduzione del 1895 a Le lotte di classe in Francia, Engels chiarisce ampiamente questa realtà di fatto: “Non ci si faccia illusioni, una vera vittoria dell’insurrezione sull’esercito nella lotta di strada, una vittoria come tra due eserciti, è una delle cose più rare. Gli insorti stessi del resto ben di rado hanno contato su di essa. Si trattava per essi soltanto di paralizzare le truppe con influenze morali, che nella lotta tra gli eserciti di due paesi belligeranti non entrano affatto in gioco o vi entrano in misura molto piccola. Se la cosa riesce, la truppa rifiuta di marciare, oppure il comando perde la testa, e l’insurrezione vince. Questo non riesce, e allora si verifica che, se anche l’esercito è inferiore come numero, si impone la superiorità derivante dal miglior armamento e dalla migliore istruzione militare, dalla unità di comando, dall’impiego razionale delle forze combattenti e dalla disciplina. Il massimo che l’insurrezione può dare in un’azione veramente tattica è la costruzione e la difesa razionale di una barricata singola. L’appoggio reciproco, la disposizione e l’impiego delle riserve, in una parola la cooperazione e il collegamento nell’azione dei distaccamenti singoli, indispensabili anche soltanto per la difesa di un solo rione della città, per lo più non possono essere ottenuti o possono essere ottenuti in modo estremamente difettoso. Della concentrazione delle forze combattenti in un punto decisivo non si può dunque nemmeno parlare. Perciò la resistenza passiva è la forma di lotta che prevale; l’attacco si scatena qua e là. Ma solo in via di eccezione, sotto forma di incursioni e attacchi di fianco occasionale; di regola però si riduce all’occupazione delle posizioni abbandonate dalle truppe in ritirata. A questo si aggiunge che l’esercito dispone di artiglieria e di truppe del genio perfettamente equipaggiate e istruite, mezzi di lotta che mancano quasi sempre agli insorti. Nessuna meraviglia dunque che anche le lotte sulle barricate combattute col più grande eroismo – a Parigi nel giugno 1848, a Vienna nell’ottobre 1848 e a Dresda nel maggio del 1849 – terminassero con la sconfitta dell’insurrezione, non appena i capi che dirigevano l’attacco, immuni da riguardi politici, agirono con criteri puramente militari e i soldati rimasero loro fedeli”.

Sul piano tecnico-militare, le barricate possono costituire solo uno sbarramento. Su di esse non si può fondare una vera battaglia generale. Lo sbarramento non cresce, resta quello per cui è nato: un impedimento al passaggio delle forze nemiche (sempre che queste non lo aggirino, per esempio sventrando gli edifici vicini). Oggi, con la trasformazione dei mezzi bellici in mezzi di distruzione di massa (aerei, navi, carri armati, missili e droni...), la barricata non è nemmeno più proponibile come mezzo d’impedimento all'avanzata del nemico: ricordiamo il bombardamento del ghetto di Varsavia nel corso dell'ultimo conflitto interimperialistico e soprattutto le devastazioni operate a Tall Al-Zaatar e a Gaza e dintorni negli ultimi decenni (e nell’immediato ieri, o ancor più di recente, quanto sta succedendo in Ucraina e in Siria): il massacro di civili e la distruzione di strutture produttive sono diventati lo scopo decisivo delle guerre, al di sopra del quale s'impone la dichiarazione di uno stato d'ordine, l'aperta dittatura, nei confronti del proletariato. Di fronte alle barricate e al lancio di pietre a Gaza, c'è un esercito che agisce come una polizia, il cui scopo non è la vittoria sul nemico, ma la restaurazione di un ordine (anzi il suo mantenimento!), la repressione, gli arresti, le uccisioni, l'annientamento della popolazione. Il sentimento, lo “spirito rivoluzionario” del combattente proletario palestinese, in questo contesto, porta solo a un doloroso e inutile sacrificio. I combattenti armati di sassi non fanno parte di un esercito, non sono un distaccamento strategico, non sono soldati ma vittime sacrificali, scudi umani. Di fronte a questo incubo, il peggio che può capitare a un vero esercito rivoluzionario è quello di avere tra le sue file dei sognatori, dei pacifisti mascherati da antimilitaristi, mentre la rivoluzione ha bisogno di militanti, di militi.

Nella lotta di strada, nella lotta di difesa economica e sociale, la barricata si mostra utile: ma non si può pensare l'azione rivoluzionaria come una sommatoria di barricate autonome e di organismi combattenti, non tenuti insieme da una solida disciplina. Paradossalmente, la barricata, sbarramento solido, può essere utile solo se si libera dai suoi ceppi, solo se si disciplina alla mobilità tattico-strategica dell'esercito proletario: solo se i rivoltosi diventano soldati della rivoluzione, forze mobili offensive. Tornando alla lotta di strada, se viene contenuta dai corpi di polizia, vuol dire che è considerata una realtà marginale, non pericolosa: la polizia “usa” i rivoltosi, li rintuzza, li controlla, li terrorizza, ne misura l'energia, li studia per individuare i capi, “tratta con loro”. Non li combatte veramente: li contiene.

Questa forma di lotta ha ben poco a che vedere con un vero movimento rivoluzionario, contro cui verrà impiegato l'esercito: può solo essere l’allenamento al necessario e intelligente uso della violenza. Allora, operare nelle file dell'esercito per spingere i soldati dalla parte della causa proletaria diverrà decisivo, perché senza il passaggio dell'esercito dalla parte proletaria non c'è per la lotta rivoluzionaria alcuna possibilità di vittoria. L'esercito è la massa critica che decide il corso della rivoluzione.

Scrive ancora Engels: “Già nel 1849 la barricata aveva perduto il suo fascino. Il soldato non vedeva più dietro ad essa ‘il popolo’, ma ribelli, mestatori, saccheggiatori, spartitori di bottino, la feccia della società. […] Un’insurrezione che attiri le simpatie di tutti gli strati popolari è difficile che si riproduca; nella lotta di classe non avverrà infatti mai che tutti gli strati medi si raggruppino in modo così esclusivo attorno al proletariato da far scomparire il partito della reazione raccolto attorno alla borghesia. Il ‘popolo’ apparirà sempre diviso, e verrà perciò a mancare una leva potente che fu tanto efficace nel 1848”.

Il rovesciamento del fronte, la vittoria della rivoluzione, si avrà quando il soldato vedrà negli “insorti” la classe che lo porterà alla vittoria, quando avrà compreso di avere dinanzi a sé una nuova classe vittoriosa, cui egli stesso sente di appartenere. A questo punto, egli non vede più “ribelli, mestatori, saccheggiatori”, ma la classe vincente: la sua, la nostra.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista)

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