DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

I miti economici, come i miti in generale, sono duri a morire. Ma lo scorrere del tempo, lo svolgersi della storia del Capitale e la stessa dinamica del processo di produzione capitalistica li sgretolano fino a farli crollare. Crollato miseramente il cosiddetto “socialismo in un solo paese” generato dalla controrivoluzione politica staliniana e dal processo di industrializzazione capitalista dell’URSS, un altro mito borghese, quello del welfare (la società del benessere, della prosperità e del progresso continui), si è sgretolato ormai da più di mezzo secolo sotto l’incalzare della stessa inesorabile legge della caduta tendenziale del saggio medio di profitto e delle crisi di sovrapproduzione che si sono abbattute e alternate in forma catastrofica.

Si è estesa infatti, in vastità e in profondità, nella società del welfare, la miseria dei salariati in rapporto alla ricchezza che questa stessa classe produce per il Capitale. Si è allargato il divario tra borghesia e proletariato: a un polo, troviamo un’immane ricchezza; al polo opposto, la profonda miseria. Da quando, a metà ‘800, è sorta la dottrina del proletariato rivoluzionario, un esercito di “scribi” (ideologi) e di “preti della borghesia” (così Lenin definiva gli “economisti”) si è messo al lavoro per tentare di confutare la dottrina comunista e di dimostrare l’assurdità della legge della miseria crescente, portando come prove l’aumento del reddito degli operai (il prezzo pagato per l’uso della forza lavoro: prezzo che, come il prezzo di produzione di tutte le merci, storicamente tende a diminuire) e dunque la possibilità per la classe operaia di disporre di merci divenute tipiche delle classi medie: automobili, frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie, televisori, telefonini, computer…

I dati economici che riportiamo spesso nel nostro giornale per mostrare la validità della legge ci servono anche sia per rispondere ai critici del comunismo, sia per mostrare, con gli stessi dati forniti dalla borghesia, che la tanto decantata (dalla piccola-borghesia di destra e di “sinistra”) società del welfare e dello Stato sociale non solo non ha diminuito le disuguaglianze sociali (“tra chi ha e chi non ha”, nel loro linguaggio mistificatorio, purgato da qualsiasi riferimento alla classi sociali; in termini scientifici: tra borghesia e proletariato), ma le ha accentuate e inasprite. Non solo non ha ridistribuito la ricchezza sociale prodotta, come i suoi apologeti sostengono o promettono da sempre, ma ha concentrato la ricchezza in strati sempre più piccoli della stessa borghesia. Non solo non sono diminuite la miseria e la disoccupazione, ma in virtù dello stesso successo del welfare queste sono aumentate. Tutti dati che confermano, se ancora ce ne fosse bisogno, la critica comunista alla società del Capitale.

Dopo i tanti “successi” della società del welfare nei primi trent’anni del dopoguerra, il rallentamento dei tassi di crescita dell’economia (il famigerato Pil) determinato dalla caduta tendenziale del saggio medio del profitto ha imposto allo Stato del welfare di riformarsi, cioè di ridurre o di ritirarsi da alcuni impegni sociali prima considerati sacri, inviolabili e intangibili (e per il cretinismo, soprattutto di “sinistra”, acquisiti per sempre). Attraverso le nuove riforme che si concentrano sulla riduzione del debito pubblico, non si vuole smantellare lo Stato-spendaccione, lo Stato-sciupone, ma lo Stato costretto ad accollarsi le spese crescenti di una politica di salvaguardia dell’Ordine costituito, intesa a spingere la “dittatura al consumo” di coloro stessi che, per l’economia classica di Smith e Ricardo, erano dei “senza riserve”, di null’altro in possesso che della propria forza lavoro e costretti a venderla per sopravvivere, e che per l’economia volgare dovevano diventare dei  “consumatori”. Ciò che si deplora e si vuole “snellire” è lo Stato-scialacquatore, non in generale, ma nello specifico campo dell’assistenza e previdenza sociale, i cui costi erano un tempo benedetti perché servivano a mantenere una rete di “garanzie” ed “automatismi” e ad attenuare e smorzare i più stridenti contrasti di classe. Nuove riforme, queste, che preoccupano molto tutto quel mondo variopinto della cosiddetta “sinistra” politica, sociale e sindacale, per le ripercussioni che possono avere sulla coesione sociale e sulla pace sociale, preludio possibile al riaccendersi della lotta di classe – che invece i comunisti degni di questo nome si augurano e auspicano.

E’ in questo obiettivo di far crescere sempre più la produttività del lavoro (cioè diminuire nel capitale variabile la parte che va alla riproduzione della forza lavoro, il salario, e aumentare la parte che va al pluslavoro, il profitto) che si cela la crescente miseria relativa dei salariati. Scrive infatti Marx: “Qual è ora la legge generale che determina l’aumento o la diminuzione del salario e del profitto nel loro rapporto reciproco? Essi stanno in rapporto inverso. La quota del capitale, il profitto, sale nello stesso rapporto in cui cade la quota del lavoro, il salario viceversa. Il profitto sale nella misura in cui il salario cade, esso cade nella misura in cui il salario sale”. E ancora: “Un rapido aumento del capitale è parimenti un rapido aumento del profitto. Il profitto può crescere rapidamente solo se il prezzo del lavoro, il salario relativo, diminuisce con la stessa rapidità. Il salario relativo può diminuire, anche se il salario reale sale insieme al salario nominale, al valore in denaro del lavoro; ma non nello stesso rapporto in cui sale il profitto. Se, per esempio, il salario cresce, in un buon periodo d’affari, del 5 per cento, mentre il profitto aumenta del 30 per cento, il salario relativo, proporzionale, non è aumentato, bensì diminuito” (Lavoro salariato e capitale).

La crisi e il rallentamento della crescita economica, del Pil, che dagli anni ’70 del XX secolo, fra alti e bassi, si prolungano fino ai giorni nostri, hanno avuto riflessi anche sul Welfare. La borghesia lo ha considerato particolarmente costoso, ed ecco allora farsi avanti i nuovi riformisti, epigoni dei vecchi, che a colpi di “riforme” hanno voluto drasticamente alleggerirlo. Se i vecchi riformisti, avendo davanti lo spettro della rivoluzione comunista, prospettavano, attraverso la “programmazione economica”, l’“estensione della legislazione sociale” e le “riforme di struttura” (cioè la lenta e graduale abolizione della miseria e l’accorciamento delle distanze sociali), i nuovi riformisti, facendosi forti dell’opera di smantellamento di qualsiasi tradizione e organizzazione di classe operata dai loro predecessori, hanno spinto al massimo la riduzione del costo del lavoro (=aumento della produttività) e delle pensioni, l’allungamento del periodo di attività lavorativa, la flessibilità nell’impiego della forza lavoro; inoltre, hanno dedicato una particolare attenzione a quelli che con il loro linguaggio mistificatorio chiamano “ceti deboli”. “Ceti deboli”, che “deboli” debbono rimanere: nel senso che, per difendere le loro condizioni di vita, debbono restare sul terreno elettorale, non debbono riconoscersi come proletari (cioè come classe sociale con interessi contrapposti alla borghesia al capitale e al suo Stato), non debbono scendere sul solo terreno che può realmente offrire le uniche possibilità di difesa – quello dell’aperta lotta di classe.

Il nostro augurio (ed è per questo che noi lavoriamo) è che il “ritirarsi dello Stato sociale” – non per la cattiveria di questo o quel settore della borghesia o di qualche partito politico, ma per necessità dettata da leggi materiali – e al contempo l’avanzare della crisi economica mettano in moto la classe operaia e che i contrasti di classe che la società del welfare era riuscita in parte ad attenuare incanalandoli nell’alveo democratico tornino a esplodere con violenza, permettendo così al partito rivoluzionario di far penetrare nella classe in lotta il programma comunista e, nell’immediato, quelle rivendicazioni (abbassare la produttività del lavoro, diminuire l’orario della giornata lavorativa e quello notturno in particolare, imporre forti aumenti salariali), che sono le uniche che possono permettere, oggi, di “vendere cara la pelle”.

E’ in queste lotte di difesa immediata, vera scuola di guerra sociale, che la classe operaia incomincia a dotarsi di propri organismi di difesa e organizzazione e impara così a prepararsi, quando le condizioni si presenteranno (e si presenteranno!), per l’assalto allo Stato borghese, per distruggere la società il cui fine fondamentale è l’estorsione del pluslavoro-profitto, e per passare infine a una società, il comunismo, dove il lavoro salariato sarà abolito e la società sarà fondata sul lavoro gratuito dei suoi membri.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista)

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