DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

In Cina, il tempo delle riforme non finisce mai. D’altra parte, non è solo lo stato cinese a trovarsi nella necessità di ulteriori riforme: sono tutti gli stati, specie nella situazione di grave crisi economica attuale, ad essere costretti a riformarsi ancora, in un modo o nell’altro (tagliando spese, privatizzando, rilanciando i lavori sulle infrastrutture, dando maggiore impulso alla produttività, ecc.), per vincere o solo resistere sul mercato mondiale, di fronte alla concorrenza sempre più agguerrita degli avversari. Il recente Plenum del XVIII congresso del Partito “Comunista” Cinese, conclusosi il 12/11/2013 u.s., ha sancito una volta di più tale necessità.

Sul piano strettamente economico, si cerca sostanzialmente di proseguire sulla strada già tracciata dalla fine degli anni ’70, con altre privatizzazioni e l’ulteriore smantellamento delle imprese statali. La novità, non da poco, consiste nel fatto che tale strada diventa però sempre più impervia, essendo sempre più stretti e difficili i margini di manovra. In effetti, il P“C”C deve fare sempre più i conti con le innumerevoli e fortissime storture economiche, con le contraddizioni, i contrasti sociali e politici prodotti e accumulati da un sistema capitalistico che, come quello cinese, è stato ed è lanciato ormai da più di quarant’anni a folle velocità. Da un lato, quindi, l’esigenza, la necessità generale, di proseguire sulla solita strada dello sviluppo e delle riforme economiche; dall’altro, però, quella, ancora più forte, di sottoporre a controllo e vigilanza più stretta i numerosi problemi sociali, etnici e internazionali che si sono creati e accumulati divenendo sempre più gravi ed esplosivi.

Al suddetto Plenum, il primo compito pare sia stato affidato a un organismo apposito, responsabile dell’”implementazione e ideazione delle riforme e del controllo sulla loro attuazione”, sottoposto a sua volta al controllo ancora più centralizzato del P”C”C. La pressione dell’attuale crisi economica mondiale, la generale situazione dei mercati, la maggiore difficoltà a procedere ancora con uno sviluppo produttivo impetuoso basato soprattutto e ancora sulle esportazioni (e legato all’attività di imprese private con forte predominanza di capitale estero), costringono ora l’economia cinese a intraprendere con più decisione la strada, finora poco praticata (ma svariate volte minacciosamente indicata sopratutto dagli USA, come ieri veniva indicata al Giappone e oggi alla Germania) dello sviluppo economico rivolto al consumo interno. D’altra parte, qualche mese addietro il premier Xi Jinping dichiarava esplicitamente: “La crisi ha ridotto il volume delle esportazioni, è dunque a casa propria che i cinesi devono consumare i loro prodotti, ma per far questo, è necessario che il miliardo e 200 milioni di abitanti del paese abbiano soldi da spendere È la grande massa della popolazione rurale, potenziali consumatori, a non aver fatto sufficienti passi avanti. Ecco dunque l’obiettivo: far raddoppiare il reddito medio dei cinesi entro 10 anni, mentre le banche stanno già facendo il loro dovere per irrigare l’economia”.

Ma proprio nel settore della produzione rivolta più al mercato e al consumo interno, settore sul quale sembra ormai puntare decisamente per mantenere almeno l’attuale livello della produzione (utilizzando il forte surplus valutario accumulato negli anni attraverso le esportazioni) la Cina si imbatte nella realtà di imprese con rilevante capitale statale, che non hanno proceduto in passato, come invece quelle private, a consistenti ristrutturazioni tecnologiche. Inoltre, proprio sulle imprese pubbliche, sui loro “ritardi strutturali”, su cui si dovrebbe maggiormente intervenire, si sono nel tempo consolidati fortissimi privilegi e corruzioni di ogni genere da parte dei funzionari pubblici, sia a livello centrale sia nelle amministrazioni provinciali. Privilegi e corruzione che diventano ora fattori di notevole freno e ostacolo alle auspicate riforme, sul piano politico-ideologico (emblematico al riguardo il recente processo e condanna di Bo Xilai, ex leader del P”C”C), come su quello amministrativo ed economico. In effetti, se osserviamo l’andamento dei consumi interni, riferendoci in particolare ai generi di prima necessità, questi negli ultimi anni sono sempre diminuiti: adesso si trovano intorno al 33% del PIL (erano intorno al 50% nel 1960 e 1970), mentre quelli, ad es., delle famiglie americane sono intorno al 70% e quelli della Germania al 60%. In anni recenti, anche per la forte pressione degli altri stati imperialisti (USA per primi), la Cina aveva in effetti cercato più volte di indirizzare la propria produzione verso il mercato interno, anziché ancora verso quello estero, dove incontrava ovviamente crescenti difficoltà, contrasti e rivalità. Ma quella strada era stata poi sempre accantonata, preferendo puntare ancora sulle esportazioni fin quando queste “tiravano” e facevano incamerare soprattutto rilevanti somme di valuta estera. La crescita economica tende adesso per forte “necessità” a spostarsi verso i settori legati al consumo interno: non solo generi alimentari ma anche produzione di energia, ferrovie, infrastrutture, turismo, vendite on-line, ecc. Una caratteristica peraltro comune a tanti paesi cosiddetti “emergenti”, in questa situazione di crisi economica globale: la riduzione della domanda mondiale generale, l’assottigliarsi dei profitti su mercati ormai saturi di merci costringono i paesi produttori a “interrogarsi” e a cercare di intervenire sui propri “modelli di sviluppo”. Oggi ad esempio pare che in Cina lo “slogan” alla moda dello sviluppo economico sia “bene e in fretta”, mentre prima era “in fretta e bene” (sottigliezze.. socialiste, ovviamente!).

Ma non saranno certo i ventilati, magri aumenti di salario a far risalire i consumi interni; ciò a causa del generale aumento dei prezzi, non solo dei generi alimentari, ma anche di case, assicurazioni sanitarie, spese per l’istruzione, ecc. L’ostacolo principale a uno sviluppo del mercato interno, oltre a quelli sopra ricordati, è costituito in Cina proprio dall’esistenza di quello stesso fattore che, per altro verso, invece le ha consentito di battere, fin qui, ogni record di esportazione: i bassi salari e il vero e proprio generalizzato pauperismo degli operai cinesi, della cui condizione di lavoro e di vita possiamo farci un’idea con il recente incendio nella fabbrica tessile di Prato (e la morte di sette proletari) come anche con le terribili condizioni di lavoro e di vita in tutte le altre “colonie” (sempre ovviamente… socialiste!) sparse in Italia come in tutto il mondo. Pauperismo cui fa riscontro una continua e smisurata crescita del reddito dei settori più privilegiati, che fa della Cina un paese con fortissime diseguaglianze sociali (alla faccia dell’ancora decantato “socialismo”, ad uso dei tanti allocchi sparsi in tutto il mondo).

Comunque, nonostante il continuo, progressivo smantellamento attuato nel corso degli ultimi quarant’anni, rimangono ancora e sempre in piedi molte imprese statali. La possibilità di una loro ulteriore ristrutturazione e privatizzazione, in funzione soprattutto della produzione per il mercato e il consumo interno, come anche quella della stessa edilizia o dei servizi di carattere sociale (scuole, sanità, ecc.), sembra oggi un compito estremamente difficile o comunque molto lento da portare avanti. Difficoltà rese poi ancor più gravi se si guarda ad esempio alla stessa situazione finanziaria. La Banca centrale cinese, nonostante la difficoltà delle imprese a capitale statale di rinnovarsi e ristrutturarsi, ha finora sempre privilegiato il credito proprio nei loro confronti, ritenendo di ottenere da esse maggiori garanzie. Ma anche così, nonostante il credito a loro favore, le imprese statali non sono riuscite a ristrutturarsi; quindi, mentre la Banca centrale cinese ha solo accumulato nel tempo, nei loro confronti, enormi crediti in sofferenza e difficilmente esigibili, le imprese private in gran parte sono state costrette a rivolgersi a banche private non ufficiali (banche-ombra) che hanno praticato nei loro confronti dei crediti-usurai. Alla fine, è stata necessaria la capitalizzazione delle stesse banche ufficiali a spese dello stato, insieme a quella delle amministrazioni locali (soprattutto per spese infrastrutturali); tutte misure, queste, che hanno fatto salire il debito pubblico dal 22 al 45% del PIL.

Una delle direttive varate dal Plenum pare intenda “rimuovere” gli ostacoli a tale situazione: da un lato, liberalizzando le stesse banche-ombra e dando più peso alle banche private con capitale estero; dall’altro, riformando le banche statali, nel senso di liberalizzare ad es. i tassi di interesse o i tassi di cambio valutari, con l’obiettivo anche di togliere le posizioni di privilegio alle imprese statali e procedere a un loro ulteriore smantellamento e alla riduzione delle fortissime posizioni di privilegio politico-amministrativo che su di esse si sono cristallizzate.

In sintesi, fino alla fine degli anni ’70, il sistema finanziario in Cina era ancora in mano diretta dello stato. Da allora, attraverso varie riforme, è stato “consegnato” nelle mani della Banca centrale cinese, con il suo controllo, a sua volta, su quattro grandi banche commerciali statali. Ma il sistema, in tutto il successivo periodo, pare si sia rivelato sempre troppo rigido e “impacciato” in senso statalista rispetto alla forte dinamicità e complessità liberista impressa all’economia cinese, soprattutto negli ultimi due decenni. Questa situazione ha prodotto, tra l’altro, un sistema di istituti bancari non ufficiali che, pur praticando prestiti usurai, hanno attirato gran parte delle imprese private cinesi. Adesso, in sostanza, si vorrebbe “mettere ordine”, riformare ancora una volta il sistema bancario, per riadattarlo alle nuove esigenze economiche generali interne: le quali però, nel frattempo, vanno cambiando rapidamente, come effetto dei cambiamenti nei rapporti e negli equilibri economici tra i maggiori stati imperialisti. Insomma, assistiamo a una rincorsa continua, in Cina più che altrove, per riformare sia il sistema economico generale in funzione delle nuove condizioni mondiali sia, nello specifico, lo stesso sistema finanziario, da “adattare” alle nuove condizioni dell’economia cinese, oltre che da “risanare” (dicono loro) dalle grosse “infezioni speculative” “contratte” negli ultimi decenni, ovviamente bene accette nei periodi di prosperità, ma divenute un grosso problema nella situazione di crisi attuale, di generalizzata “infezione” di tutto il corpo del capitalismo mondiale.

Sul piano del controllo sociale e internazionale, il Plenum ha espresso un’altra esigenza più che reale, istituendo un cosiddetto “Comitato per la sicurezza dello stato”. Sul piano interno, si tratta di “migliorare i sistemi e le garanzie per garantire la sicurezza nazionale”. Inoltre: “Si dovrà prevenire e porre fine alle dispute sociali e potenziare la sicurezza pubblica”, considerando che in Cina si sono verificati nel 2011 ben 180mila “incidenti di massa”. In sostanza, un ulteriore, chiaro ed esplicito giro di vite alla repressione interna, la quale dimostra la crescente preoccupazione del P”C”C, rappresentante del grande capitale cinese, per gli effetti sociali della continua, inarrestabile crescita economica capitalistica. Crescita che oramai non solo non ammette più soste, ma che dovrà cercare, in termini di occupazione, di assorbire quanto più possibile anche l’ulteriore esodo massiccio e continuo dalle campagne, se vuole far fronte alle pericolose tensioni sociali. Che aumentano sempre più, e con esse aumenta anche la necessità di doverle fronteggiare, “scaricandole” in qualche modo e misura sul fronte dei rapporti interetnici o interimperialistici.

Le settimane fra novembre e dicembre 2013 hanno fatto registrare, al riguardo, un significativo salto di qualità: anzi, una sorta di escalation. Da un lato, c’è stato l’attentato a Piazza Tienanmen a Pechino, attribuito a terroristi islamici di etnia uigura (la regione dello Xinijiang, nel nord ovest della Cina, di cui è originaria quella etnia, è uno snodo fondamentale per gli interessi energetici della Cina nell’Asia centrale), che non potrà in futuro che accentuare ancora maggiormente il controllo e il dominio cinese sulla regione. Dall’altro, c’è stata la creazione di una “zona per l’identificazione della difesa aerea” attorno alle isole Senkaku/Diaouyu, contese col Giappone (con il seguito, nei giorni seguenti, di pattugliamenti aerei USA e coreano-giapponesi) – segnale dell’alto livello cui è giunta ormai la crisi economica mondiale, della forte contesa che si va sviluppando attorno alle fonti di energia e dei suoi inevitabili riflessi sociali. Il grande livello dello sviluppo economico e l’acutezza dei contrasti sociali interni paiono non consentire più alla Cina di continuare nella sua vecchia e sorniona politica del soft power. Si tratterà, adesso e sempre più, di cominciare a mostrare i muscoli e di sbattere forte i pugni nei confronti della potenza USA, che vorrebbe invece continuare a mantenere, ovviamente, il vecchio ruolo di “garante dell’ordine” anche nella regione del sud Pacifico, nonché di “protettrice” degli interessi delle altre potenze imperialiste, quali il Giappone o la Corea del sud. La Cina sembra, insomma, voler far valere, anche sul piano dei rapporti interimperialistici, la stessa forza e potenza che esprime ormai chiaramente sul piano più specificamente economico, come d’altra parte dimostrano anche i dati sul suo crescente riarmo. Attorno alle isole Senkaku, non sono in ballo dunque solo e semplicemente interessi economici (in particolare, quelli energetici, d’altra parte sempre più vitali per mantenere alti i profitti). Si tratta anche di dimostrare, con i fatti, la volontà di non voler subire in modo passivo, come in passato, l’azione del gendarme USA o, tramite esso, delle stesse potenze di grado inferiore. La clamorosa rivalità per l’interdizione nell’area e sulle isole contese col Giappone, il ruolo attivo che la Cina sta cercando sempre più di giocare, hanno il significato di un altro test rispetto al tipo di reazione USA e dei suoi vecchi alleati. La Cina, grandissima consumatrice di energia, dipendente per la propria fornitura soprattutto dal commercio interno al mar Cinese, dovrà dimostrare, con crescente determinazione, di voler affermare la propria sovranità su tutte le acque su cui si svolgono i suoi commerci. I paesi limitrofi all’interno dell’ASEAN, dal canto loro, pare si stiano organizzando per chiedere aiuto agli USA, i quali vanno spostando la propria attenzione sempre di più verso quest’area. La situazione è resa ancora più intricata dal fatto che proprio Cina e USA, i grandi rivali imperialisti di quest’epoca, sono, sul terreno economico, fortemente interdipendenti (è prossimo il 24° incontro della Commissione congiunta sul commercio Cina-USA).

Come si vede, gravissimi problemi si addensano anche sul fronte cinese e nell’area del sud Pacifico, come abbiamo già avuto modo di indicare in un articolo di alcuni mesi fa (“Politiche e geo-strategie nell’Asia Sud-orientale”, Il programma comunista, n.5/2013). L’evoluzione ulteriore della crisi economica mondiale si incaricherà, come sempre, di “sciogliere i problemi”. Ma potrà farlo nell’unico modo in cui è sempre stato possibile al sistema capitalistico: creando problemi ancora più gravi e preparando conflitti bellici sempre più generalizzati. Solamente la lotta internazionale del proletariato, la sua organizzazione di difesa economica immediata e soprattutto la sua organizzazione politica nel Partito comunista internazionale, potranno impedire questa crescente corsa verso altre follie belliche imperialiste e indirizzare le forze verso l’abbattimento del sistema economico capitalistico, in direzione del comunismo.

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2014)

 
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