DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Il corso storico del modo di produzione capitalistico dalla seconda guerra imperialista ad oggi riconferma la validità della lettura marxista della sua dinamica e dei suoi esiti inevitabili: guerra o rivoluzione.

Il presente articolo riprende il lavoro intrapreso dal nostro partito fin dagli anni Cinquanta del secondo dopoguerra, con l'intento di leggere, nella dinamica del capitale mondiale espressa nelle statistiche e nei mutamenti sociali ed economici, la strutturale convivenza tra espansione economica e contemporanea maturazione delle condizioni che preparano crisi sempre più catastrofiche, a conferma dell'inevitabilità del riproporsi dell'alternativa tra guerra e rivoluzione. Al di là delle alterne vicende del capitale mondiale, del suo procedere non lineare attraverso crisi e riprese, l'analisi condotta attraverso le categorie marxiste consente di tracciarela direttrice di lungo periodo che decreta la finitezza storica di questo modo di produzione e la necessità del suo superamento. Il motore di questa dinamica, tanto del suo trionfo su scala planetaria quanto della sua tendenziale rovina si trova nella produzione, là dove il capitale si valorizza e trae alimento per la sua crescita.

Nell'illustrare la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto, Marx sottolinea ancora una volta che il tratto caratteristico dello sviluppo capitalistico è l'aumento della produttività sociale del lavoro, e il fatto che, verificandosi questo aumento entro i limiti ristretti delle forme di produzione date, ne derivano conseguenze contraddittorie :

Riappare qui la legge ... per la quale, con la relativa diminuzione del capitale variabile e quindi con l'evoluzione della produttività sociale del lavoro, una massa sempre crescente di capitale complessivo è necessaria per mettere in movimento la stessa quantità di forza lavoro e assorbire la stessa massa di pluslavoro. La possibilità di un relativo eccesso di popolazione operaia si sviluppa quindi nella stessa proporzione in cui si sviluppa la produzione capitalistica [...] In altre parole: affinchè l'elemento variabile del capitale complessivo rimanga non soltanto lo stesso in senso assoluto, ma cresca in senso assoluto, nonostante la diminuzione della sua espressione percentuale in quanto parte del capitale complessivo, il capitale complessivo deve crescere in proporzione maggiore della diminuzione della quota percentuale del capitale variabile”. (1)

Poiché il fattore di valorizzazione è il capitale variabile, non è possibile che alla sua riduzione relativa in rapporto al capitale complessivo si accompagni una sua riduzione assoluta senza che si interrompa l'accumulazione; la massa della forza lavoro deve crescere, ma, a un dato livello di produttività sociale, per crescere deve mettere in moto una massa proporzionalmente sempre più elevata di capitale costante.

Lo stesso sviluppo della produttività sociale del lavoro si esprime quindi, nel progresso del modo capitalistico di produzione, da un lato in una tendenza alla diminuzione progressiva del saggio del profitto, e dall'altro in un incremento costante della massa assoluta del plusvalore acquisito o profitto” (2).

Le parole di Marx ci ricordano che nei dati statistici vanno considerate le grandezze (investimenti, produzione, commercio mondiale, occupazione) nel loro andamento, ma soprattutto le relazioni tra queste grandezze. Se i dati non confermassero la crescita di tutti i fattori della produzione, compresa la sovrappopolazione operaia – essa stessa prodotto dello sviluppo capitalistico (della riduzione della quota di v nel processo produttivo) – , nella loro stretta correlazione, tutta la teoria andrebbe a gambe all'aria. Nella lettura marxista, il corso storico del capitale a livello mondiale deve presentare la tendenza all'aumento assoluto degli investimenti, della produzione, dei profitti, del volume del commercio, della popolazione operaia occupata e disoccupata. Alla crescita della ricchezza complessiva prodotta (del plusvalore) deve corrispondere l'aumento relativo della quota destinata a essere reinvestita nella produzione rispetto alla quota destinata ai redditi e al consumo. Parallelamente si deve verificarela concentrazione della produzionein un numero sempre più ristretto di grandi imprese, di pari passo con l'aumento della produttivitàe il calo relativo del capitale variabilerispetto al capitale complessivo.

Ma il grandeggiare delle cifre della produzione e delle dimensioni delle aziende porta con sè la tendenza alla sovrapproduzione, visibile nell'eccesso di capacità degli impianti, nell'eccesso di capitale da prestito, nell’aumento spropositato della popolazione mondiale, nella crescita dell'export di capitali, nell'accumulo di scorte di magazzino e di merci invendute, mentre nella società, se in assoluto la ricchezza prodotta aumenta, da un lato si presenta in forme sempre più effimere e dannose per la specie e per l'ambiente, dall'altra si polarizzaa livello planetario e di area con l'espropriazione di masse crescenti da ogni forma di reddito e sostentamento che non sia subordinato alle leggi del capitale.

L'affermarsi sul piano storico del dominio totale del capitale sulla società è d'altra parte contraddetto dalla tendenza al calo del tasso di crescita della produzione, del tasso medio del profitto, del tasso di accumulazione, attraverso il quale si rivela il carattere transitorio della presente forma sociale. Quando interviene una crisi, emergono le molteplici contraddizioni del sistema economico, ma nello stesso tempo la brusca svalorizzazione del capitale fisso e circolante agisce da controtendenza alla caduta del saggio del profitto e dopo la “distruzione” di una quota sufficiente di fattori della produzione (c,v),ristabilisce le condizioni per una ripresa della produzione e dell'accumulazione. La crisi, tuttavia, provoca la rovina delle imprese che producevano a un tasso di profitto inferiore a quello medio, accelera il processo di concentrazione della produzione in pochi grandi gruppi e pone perciò le premesse per una nuova crisi ancora più devastante.

Si tratta dunque di verificare negli andamenti statistici altrettante conferme della teoria marxista in tutti gli aspetti considerati, e in primo luogo della legge dell'accumulazione: “la produzione capitalistica fa crescere la 'ricchezza' sotto forma di una sempre maggiore 'accolta di merci', con il continuo aumento della produzione. Ma la misura di tale aumento non solo non dà la misura di un vantaggio della società (quando non si intenda per questa una classe minoritaria) bensì quella del rischio di maggiori rovine e miserie.” (3).

Alla concentrazione in poche mani della ricchezza corrisponde l'espropriazione di masse crescenti da ogni risorsa che non sia la propria capacità di lavoro. Con la ricchezza – quando l'accumulazione procede – cresce la miseria con l'aumento del numero dei depauperati, ma cresce contemporaneamente una massa di popolazione improduttiva, crescono le mezze classi; quando una crisi interrompe la marcia dell'accumulazione, la miseria dilaga, per gli uni e per gli altri, in forme ancor più drammatiche con la disoccupazione, i fallimenti, la rovina dei piccoli redditieri (4).

Non si tratta per noi semplicemente di un problema di coerenza interna della teoria – teoria che solo in quanto è frutto di una visione rivoluzionaria dei rapporti di produzione è in grado di comprendere la loro dinamica profonda, e che ha senso solo in quanto arma della rivoluzione, non certo in quanto lettura accademica più o meno aderente ai fatti economici; “non pretendiamo che la riprova e la conferma vengono dal fatto che il discorso logico fila, o che in certe derivazioni un sentimento di giustizia innata prende a vibrare, o che le operazioni quadrano con le regole dell'algebra e dell'aritmetica. La coerenza del sistema con se stesso e la connessione rigorosa delle parti (anche negata dai soliti leggeroni) non bastano alla dimostrazione, che potrà essere solo data nel campo storico e dall'apparire di fenomeni che il nostro modello-schema può contenere, e il loro no” (5).

Riprendiamo la verifica su base storica della validità del nostro “modello-schema” considerando dapprima l'andamento degli investimentidal dopoguerra.

(I) L'andamento degli investimenti nel secondo dopoguerra riflette la crescente voracità del capitale a spese delle necessità vitali della specie

1- Crescita degli investimenti, in assoluto e relativamente al Pil e al reddito

Consideriamo la questione generale dell'andamento degli investimenti in rapporto alla crescita della ricchezza prodotta.“Il termine investimento di capitale sta a significare che determinate aliquote del valore complessivo del prodotto debbono essere di nuovo riconvertite in elementi del capitale costante o variabile affinchè la produzione possa mantenersi al livello precedente”(6). Nel corso storico del capitalismo, la tendenza all'investimento risulta crescente sia in rapporto alla ricchezza prodotta sia ai consumi:

Nel caso degli US, è anche molto bene evidente che la quota di ricchezza destinata all'investimento cresce, e la quota destinata ai consumi scende, durante i tre quarti di secolo seguiti alla Grande Depressione. [...] Tutto cade nel 2009 causa la recessione, ma nel 2008, la domanda di investimenti era 72,7 volte maggiore che nel 1933, mentre il Pil lo era solo di 18,5 volte , e la domanda di consumi di 15,4 volte. Dunque la domanda di investimenti privati è cresciuta quasi quattro volte più rapidamente del Pil e quasi cinque volte più rapidamente della domanda di consumi. Ponendo la stessa questione in termini diversi, la quota di ricchezza investita è quasi quadruplicata, mentre la quota di consumi è caduta del 16%” (7).

Una quota crescente della ricchezza prodotta devedestinarsi agli investimenti, vero motore della dinamica capitalistica. L'errato presupposto da cui partono le teorie sottoconsumistiche è che il modo di produzione capitalistico possa in definitiva soddisfare i bisogni umani, e che entri in crisi proprio quando tradisca questo scopo. Lo stimolo al consumo avrebbe dunque l'effetto di riattivare la produzione, e l'“umanizzazione” del capitale sarebbe anche garanzia della sua salvezza . All'opposto, lo stesso corso storico del capitalismo dimostra che il soddisfacimento dei bisogni umani entra in contraddizione con lo scopo effettivo di questo modo di produzione: la valorizzazione del capitale. Storicamente, mentre aumenta la quota di valore prodotto destinata agli investimenti, la quota destinata al reddito si riduce. Una parte consistente e crescente del prodotto viene infatti scambiata e consumata all'interno della I sezione di Marx, quella destinata alla produzione di mezzi di produzione, mentre i consumi finali sono conseguenza dello sviluppo della produzione, e non certo il presupposto.

Che la crescita economica sia in rapporto agli investimenti, non ai consumi, è dunque nella natura stessa del processo di produzione capitalistico, che è “al tempo stesso, essenzialmente un processo di accumulazione” (8). La crescita degli investimenti e della produzione sospinge l'incremento della massa del profitto, per compensare e superare la caduta del tasso del profitto che consegue dallo stesso sviluppo capitalistico. Quanto più nel corso storico si rafforza la tendenza alla caduta del saggio del profitto, tanto più si rende necessario per il capitale di incrementare la massa e la quota degli investimenti: al crescere della quota di investimenti corrisponde il calo relativo della ricchezza destinata ai redditi e ai consumi. La tabella seguente, riferita al capitalismo degli Stati Uniti – quello che, dal grado di avanzamento del proprio sviluppo, segna la strada di tutti gli altri – conferma come nel tempo questi rapporti varino a favore degli investimenti; in altre parole come appartenga alla natura del capitalismo che, quanta più ricchezza viene prodotta, tanta più ne viene sottratta proporzionalmente alla società in ossequio all'insensata spirale produttivistica.

Tab.1- Investimenti, Pil e consumi in U.S.A (1961-2012)

Bureau of Economic Analysis

Table 5.1. Saving and Investment by Sector

[Billions of dollars]

Last Revised on: February 28, 2014 - Next Release Date March 27, 2014

Bureau of Economic Analysis

Table 1.1.3. Real Gross Domestic Product, Quantity Indexes [Index numbers, 2009=100]

Last Revised on: February 28, 2014 - Next Release Date March 27, 2014

A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, negli U.S.A. l'indice di crescita degli investimenti supera stabilmente quello del Pil (sola eccezione, il 1982, anno di crisi produttiva). Da allora la progressione degli investimenti va distanziando quella dell'indicatore di ricchezza, e raggiunge la forbice più ampia negli anni che precedono la crisi di sovrapproduzione del 2008. Nella fase post-recessione la crescita degli investimenti riprende ad avanzare a ritmi molto più sostenuti di quelli del Pil. Gli anni di andamento negativo degli investimenti corrispondono agli anni di caduta del Pil, con l'eccezione del 1970 e del 2001 – anni di ristagno produttivo – e del 2002, segnato da una stasi degli investimenti.

L'incremento dei consumiprivati procede a ritmi abbastanza prossimi a quelli del Pil per tutto il periodo, e addirittura se ne avvicina dall'inizio del nuovo millennio, ma rimane anch'esso indietro rispetto alla progressione degli investimenti, con una forbice che, anche in questo caso, si allarga al massimo negli anni precedenti la crisi di sovrapproduzione. Dopo la crisi, la tendenza degli investimenti a distanziarsi da Pil e consumi si ripresenta in modo altrettanto netto (9). In ogni caso questa relativa tenuta dei consumi rispetto al Pil – consumi tra i quali vanno compresi quelli derivanti da redditi da capitale e quelli dei ceti parassitari – vale a dimostrare una volta di più che causa della crisi non sta nella loro compressione, che almeno negli U.S.A. non si è verificata in modo significativo, ma nella sovrapproduzione di mezzi di produzione e di merci.

La crescita degli investimenti conferma dunque la tendenza del capitale a incrementare la quota di ricchezza prodotta (di plusvalore) destinata a essere reinvestita nella produzione rispetto alla quota destinata ai redditi e al consumo (10). Tuttavia ancheil ritmo di questa crescita non sfugge alla legge della decrescenza, che vale “tanto in rapporto al montante fisico della produzione industriale quanto in rapporto al montante dell'investimento in denaro in capitale produttivo(11).

Tab. 2- Ritmo annuo di incremento degli investimenti domestici in Usa (1961-2012)

La controtendenza del decennio 1991-2000 è indicativa di una fase particolarmente intensa di sovrainvestimento che non contraddice la tendenza generale, e che imprime una forte spinta alla sovrapproduzione che si manifesterà nelle crisi del 2000 e del 2008. Questa spinta risulta ancora più forte se si considerano i dati degli IDE (investimenti diretti esteri), dei capitali in esubero che, non trovando possibilità di fare profitti entro i sistemi produttivi nazionali, prendono la strada dei mercati esteri, dove i margini di profittabilità sono maggiori.

2- Crescita dei flussi internazionali di capitale come tratto distintivo dell'imperialismo

Nel nostro lavoro del 2005 (“Il corso del capitalismo mondiale dal II dopoguerra verso il III conflitto imperialistico o verso la rivoluzione proletaria. Verifica e conferma della monolitica teoria marxista”, Il programma comunista, nn.1 e 4/2005), si considerava il ruolo di stati rentiers svolto dalle maggiori potenze capitalistiche, che attraverso gli "aiuti" e i finanziamenti ai cosiddetti Psv (Paesi in via di sviluppo), oltre a imporre l'apertura di quei mercati e lo sfruttamento delle loro risorse naturali, li strozzano sotto il peso degli interessi, spremendo in tal modo plusvalore dalle masse diseredate di quelle aree (12). Si documentava, cifre alla mano, come la sperequazione crescente fosse "in linea con una massa di capitale finanziario e un'esportazione di capitale crescenti", tipiche della fase imperialistica. Il cosiddetto "problema del debito" che ha appassionato le anime belle negli anni 80-90, con le parole d'ordine "cancella il debito" e simili, non solo permane, in particolare per le aree capitalisticamente più arretrate (buona parte dell'Africa), ma si è esteso alla sviluppatissima Europa. Nei paesi mediterranei, schiacciati dal peso crescente del debito pubblico, il costo della solvibilità è pagato con la proletarizzazione di settori sempre più ampi della popolazione, tant'è che anche qui risuonano appelli alla cancellazione del debito e fregnacce simili. Uno dei problemi di cui i sempliciotti no-debt non tengono conto, è che azzerare il debito o ridurlo significa ridurre drasticamente i bilanci bancari gonfi di titoli di Stato, e mandare in rovina il sistema creditizio. Poco male, si dirà; quello che conta è l'"economia reale", non quella finanziaria che significa speculazione, ecc.. Il problema è che il parassitismo finanziario si innesta nel corpo vivo della produzione e ne è tutt'uno, non ne costituisce una semplice escrescenza asportabile come un tumore. La malattia è il capitalismo, e non si tratta di una malattia dello spirito; ma su questo si ritornerà nel corso di questo lavoro (ne costituisce, anzi, la tesi fondamentale).

Un sintomo dell'aggravarsi della malattia è l'aumento dell'ammontare del debito globale. Stime della BRI (Banca dei regolamenti internazionali) lo danno a 100 trilioni di dollari, una cifra pari a una volta e mezza la ricchezza prodotta nel mondo in un anno. Dal 2007 è aumentata del 40% (allora era a 70 trilioni), e comprende tutte le categorie di obbligazioni, da quelle aziendali ai famigerati Abs (i famosi “veicoli” finanziari). La parte del leone la fanno i titoli di debito pubblico - quello Usa in testa, balzato da 4500 a 12000 miliardollari - acquistati prevalentemente dalle banche. Quelle europee sono esposte per 1750 miliardi di euro, il 25% in più rispetto al 2011 (13).

In quell'anno, la Bce, con l'operazione denominata LTRO, ha rifinanziato le banche europee che hanno cominciato ad acquistare ingenti quantitativi di debito pubblico, lucrando sul differenziale di interessi a spese dei sistemi fiscali nazionali. Da parte sua la Fed, con due successivi “allentamenti quantitativi” ha proceduto a massicci acquisti di titoli di Stato e cartolarizzazioni, inondando il mercato di una massa enorme di liquidità che in buona parte ha dato nuovo alimento ai circuiti internazionali della speculazione e del debito.

Sostenuto apertamente dal cosiddetto “creditore di ultima istanza” - il buon vecchio Pantalone - nella fase più recente di sviluppo capitalistico il parassitismo finanziario si è fatto ancor più vorace, coinvolgendo pesantemente nello strozzinaggio popolazioni e categorie fino ad ieri abituate a considerarsi immuni dalla minaccia della miseria, e oggi proiettate verso prospettive sempre più incerte. Alla demarcazione tra Stati rentier da una parte e "una immensa massa di Stati debitori" dall'altra si sta affiancando una più netta demarcazione di classe entro gli stessi Stati rentier, a cui contribuisce la voracità del debito pubblico e del sistema fiscale che lo sostiene. Nella sua abnorme espansione, il parassitismo finanziario internazionale non si può più accontentare di estorcere plusvalore dai diseredati di quello che un tempo era chiamato "terzo mondo", ma deve creare il "terzo mondo" a casa propria, deve spremere le masse proletarizzate in tutte le forme possibili, deve espandere le occasioni di investimento, allargare l'area della forza lavoro da sfruttare, intensificare e prolungare lo sfruttamento della forza lavoro occupata..

Così, se nel già citato nostro lavoro del 2005 si registrava l'ampliarsi dello scarto medio di reddito pro-capite tra i paesi ricchi e quelli più poveri, oggi si deve registrare una tendenza all'impoverimento che coinvolge settori sempre più ampi delle società "avanzate". Sono sviluppi da non attribuire a un'offensiva del capitale preso da un'improvvisa smania di estendere l'area della povertà, ma alle sue leggi inesorabili, alla necessità di alimentare il capitale in una fase di declino inarrestabile del tasso di accumulazione; necessità che può essere soddisfatta solo a spese della condizione proletaria e della società nel suo insieme.

3- Crescita assoluta e relativa dell'esportazione di capitale e nascita di nuovi competitori

La necessità di espandere costantemente la produzione, spinge il capitalismo alla ricerca di " nuove frontiere di investimento e speculazione: così l'esportazione di capitale dal 1870 al 1890 è sospinta fino al 5% medio del Pil dall'impero colonialista, dagli investimenti nelle reti ferroviarie, nelle infrastrutture del Nuovo Mondo, e ugualmente negli anni novanta del XX secolo, la cosiddetta 'new economy' è causa/effetto di nuovo aumento fino al 3,62% del Pil nel 2000 [dai nostri dati risulta il 4.37], per i soli IDE " (“Corso del capitalismo mondiale...”, Il programma comunista, n.1/2005).

Oggi possiamo registrare un nuovo picco. Nel 2007 la percentuale di IDE sul Pil dei paesi sviluppati tocca il massimo dal 1970, con il 4.85%. In quell'anno si raggiunge il culmine dello sviluppo forsennato dell'Asia orientale, la nuova Bengodi per investitori e speculatori a caccia di alti rendimenti. Giunge così a termine una nuova stagione di sovraspeculazione e sovrainvestimento, più intensa delle precedenti, che prelude allo scatenarsi della crisi di sovrapproduzione del 2008, a sua volta senza precedenti per intensità in tutto il secondo dopoguerra.

Il confronto tra gli andamenti degli indici di Pil e IDE conferma che la tendenza all'esportazione di capitali dalle economie sviluppate procede a ritmi molto superiori rispetto alla crescita del loro Pil (14), soprattutto a partire dalla metà degli anni Ottanta.

Tab. 3 - Investimenti diretti esteri (IDE) in uscita

Gli anni di picco produttivo corrispondono ai picchi degli IDE, mentre gli anni di calo produttivo corrispondono generalmente a un loro calo. Vi è quindi una relazione diretta tra sviluppo dell'accumulazione e crescita dell'export di capitali. La quota di IDE sul Pil delle economie avanzate hauna tendenza crescente, anche se non lineare. Tocca i suoi massimi in corrispondenza o in prossimità dei picchi di produzione, per poi calare temporaneamente. La tendenza riflette la necessità anch'essa crescente dei capitali in esubero nelle economie sviluppate di trovare occasioni di investimento sui mercati esteri, dove le condizioni per fare profitti sono migliori (15), ed è nello stesso tempo il risultato della sovrapproduzione di capitali e una controtendenzaall'esplodere della crisi di sovrapproduzione. Negli U.S.A. la percentuale di profitti ottenuta da investimenti esteri è salita dal 10% del 1960 a poco meno del 24% nel 2012, con punte superiori al 37% in alcuni anni del nuovo secolo. Non solo, ma il capitalismo americano è diventato via via più dipendente dall'estero, tanto che dal 2000 ad oggi i profitti ottenuti al di fuori del paese hanno sempre superato, e di molto, quelli ottenuti dall'industria manifatturiera domestica. In anni di caduta produttiva, come nel 2001 e nel 2009, questi scendono ben al di sotto del 10% del totale, mentre il contributo degli investimenti esteri si mantiene su percentuali prossime o superiori al 30% (16).

Abbiamo dunque la riprova di quanto scrivevamo nel 2005, che “nella fase imperialistica, di pari passo con la concentrazione e l'aumento di una massa sempre più gigantesca di capitale liquido in cerca di valorizzazione, il capitale tenda, al di là delle congiunture sommariamente indicate, al progressivo aumento della quota esportata in paesi terzi; e come, in particolare e non a caso, dopo la crisi del 1974/75 e del 1980-81, il tasso di crescita dei soli investimenti diretti esteri,[...] sia di gran lunga maggiore dell'aumento del Pil e ancor più di quanto è avvenuto tra il 1870 e il 1890-1920. Tale tendenza è propria del capitalismo stramaturo, decrepito e parassitario” (Il programma comunista, n.1/2005).

La seconda e terza colonna della Tabella 3 permettono di rapportare il peso dell'export di capitale dei maggiori paesi industrializzati al totale mondiale. Rispetto al quadro generale fornito una decina d'anni fa, emergono con grande evidenza alcuni importanti cambiamenti nelle relazioni tra i capitalismi maturi e quelli più giovani, alcuni dei quali sono ormai divenuti esportatori di capitali e temibili concorrenti (17). La percentuale degli IDE delle economie sviluppate sul totale mondiale, vicina al 100% per tutti gli anni Settanta, rimane sopra il 90% per tutti gli anni Ottanta. A partire dal 1991 la quota cala, portandosi all'83-84%, fino alla fase di sovraspeculazione che precede il picco produttivo del 2000, quando si riporta sopra il 90%. In seguito, cala nettamente, in corrispondenza all'ascesa di nuove potenze concorrenti che diventano a loro volta forti esportatori di capitali. Questo trend si è fatto particolarmente marcato dal 2000 (Tab. 3), e più ancora dalla crisi del 2008 ad oggi, periodo in cui la quota degli IDE dei paesi sviluppati è scesa dall'80% al 65%. La crisi ha ridotto ulteriormente le distanze tra vecchi e nuovi bestioni produttivi, avvantaggiando quelli che ancora godono di condizioni più favorevoli allo sfruttamento della forza lavoro e all' estorsione di plusvalore. E' un dato da noi ampiamente previsto che segna inequivocabilmente la partecipazione di nuovi paesi “all'esportazione di capitale e alla spartizione del plusvalore estorto alla classe operaia mondiale" e il loro ingresso nella fase di capitalismo “stramaturo, decrepito e parassitario” (Il programma comunista, n.1/2005). Le nazioni entrate nel Gotha del Capitale mondiale sono spinte a concorrere con tutti i mezzi alla spartizione conflittuale degli spazi ancora disponibili sui mercati internazionali ove impiantare i capitali in esubero e valorizzarli alle condizioni più vantaggiose. L'affiancarsi di nuovi briganti imperialisti alla schiera dei vecchie potenze fino ad oggi dominanti non solo apporta nuovi elementi di contrasto e instabilità nei rapporti tra imperialismi, ma rafforza la tendenza generale alla sovrapproduzione e riduce l'efficacia dell'esportazione di capitali nell'azione di controtendenza alla caduta del saggio medio del profitto. I “territori liberi” ove sopravvivono rapporti di produzione arretrati, non ancora soppiantati dai moderni rapporti capitalistici, sono sempre più ridotti e di conseguenza più contesi. Rimangono alcune aree del continente africano che finora il capitale si è limitato a depredare delle risorse naturali, strozzandolo con gli “aiuti”, in cui popolazioni ancora legate ad un'economia di sussistenza attendono di essere aggiogate al carro della produzione capitalistica. E' probabilmente questa una delle ultime ristrette frontiere del capitale mondiale. Per il resto il mondo è ormai un'immensa fabbrica che funziona secondo le leggi del capitale, e sempre meno le contraddizioni di classe potranno essere scaricate all'esterno; sempre meno l'imperialismo potrà contare su una classe operaia supina perchè appagata dalle briciole dei sovraprofitti estorti ai proletari delle aree arretrate. Il completamento del dominio del capitale sul mondo intero coincide con il punto di rottura, raggiunto il quale le contraddizioni di classe sono destinate a manifestarsi apertamente ovunque (18).

4- Crescente polarizzazione mondiale della ricchezza

Parallelamente alla crescita dei flussi internazionali di capitali, cresce la “sperequazione”, espressa nello scarto di reddito medio pro-capite tra i paesi ricchi e quelli più poveri, la polarizzazione della concentrazione del reddito mondiale, di consumi energetici e di materie prime da una parte, e della miseria dall'altra.

Tab.4- Pil pro-capite a prezzi e tassi di cambio costanti

(in $ 2005; indice 1970=100)

Fonte: Unctadstat

(1) LDCs: (Least Developed Countries): sono i paesi più poveri, in gran parte africani, più alcuni asiatici (Afghanistan) e americani (Haiti, Honduras, Nicaragua).

(2) Coincidono in buona parte con quelli del gruppo (1), ma qui la miseria è aggravata dallo strozzinaggio del FMI

Nel 1970 il reddito pro-capite del gruppo dei paesi più poveri (1) rappresentava 1/44 di quello dei paesi sviluppati; nel 2010 era sceso a 1/64; quelli del gruppo (2) sono passati da un rapporto di 1/34 con il reddito dei paesi più ricchi a un rapporto di 1/66. La forbice della polarizzazione continua ad aprirsi ai danni di un gruppo di paesi miserabili, alla cui condizione hanno dato certamente un grande contributo gli “aiuti” FMI. Per contro, il reddito dei paesi in via di sviluppo, tra i quali figurano i maggiori emergenti, in rapporto ai paesi sviluppati è salito da 1/18 nel 1970 a 1/10 nel 2012. La Cina ha raggiunto e superato il reddito medio dei paesi in via di sviluppo a partire da un reddito che nel 1970 ne rappresentava 1/5 scarso.

Gli investimenti esteri, così come i finanziamenti e i prestiti internazionali nelle forme più varie, contrariamente a quanto proclamano i sacerdoti della “crescita” non favoriscono un riequilibrio dell'ineguale sviluppo tra aree che è caratteristica del sistema capitalistico, ma lo accentuano a scapito di paesi e popoli sempre più derelitti e, smantellandone progressivamente le residue strutture precapitalistiche, li privano di risorse proprie e ne accentuano le disuguaglianze interne. Per contro, altri paesi, grazie ai finanziamenti esteri, conoscono un impetuoso e rapido sviluppo dell'industria e a certe condizioni – con il supporto dell'apparato statale borghese – sono in grado di ergersi a nuovi competitori internazionali. Ma anche in questo caso, l'accesso dei nuovi arrivati alle delizie consumistiche del capitalismo sviluppato ha come contraltare, a livello mondiale, la rottura dei vecchi equilibri tra imperialismi, l'intensificarsi delle tensioni valutarie e commerciali, l'accelerazione della tendenza alla guerra. A livello interno, all'indubbio aumento della ricchezza prodotta e dei redditi corrisponde un'accentuata polarizzazione sociale, la crescita numerica del proletariato e, con esso, del potenziale rivoluzionario della società. D'altra parte, non rientrando la stabilità tra le virtù capitalistiche, non sempre questi processi trovano modo di consolidarsi prima che - nella generale anarchia del sistema – la corrente dei capitali esteri non rifluisca massicciamente e in breve tempo verso le cittadelle degli imperialismi dominanti, generando un' improvvisa carenza di capitali e l'interruzione del tanto agognato “sviluppo”. E' questo un altro frangente in cui il precipizio della miseria si ripresenta come dannazione inseparabile dalla crescita della ricchezza in forma capitalistica.

5- Flussi di capitali e banche centrali

Nel lavoro del 2005, citando L'imperialismo di Lenin, scrivevamo che la crescita degli investimenti diretti esteri è solo un aspetto dell'esportazione di capitale e della cosiddetta finanziarizzazione dell'economia: “Il capitalismo, che prese le mosse dal capitale usurario minuto, termina la sua evoluzione mettendo capo a un capitale usurario gigantesco”;assieme alla massaormai incalcolabile di capitale finanziario che nelle forme più diverse e sempre più opache viene scambiato minuto per minuto sui mercati mondiali, cresce dunque il numero degli Stati usurai che estorcono plusvalore sulla pelle della classe operaia “staccando cedole”.

Queste masse di capitale fittizio impossibilitate a convertirsi in investimenti produttivi e alla continua ricerca di rendimenti appetibili, sono portate alla più spinta e rischiosa speculazione, si nutrono di carry trade (lucrando cioè sul differenziale di interesse tra titoli diversi) alimentano bolle speculative destinate prima o poi a sgonfiarsi, e malgrado ciò devono accontentarsi di rendimenti medi modestissimi, in un contesto in cui le banche centrali praticano tassi di interesse prossimi allo zero. La loro caratteristica più evidente è la volatilità, che nasce dalla propensione a indirizzarsi rapidamente là dove si intravedano rendimenti appena superiori a quelli medi, ma anche ad abbandonare i paesi dove le condizioni si facciano più svantaggiose o incerte. Il “ritorno a casa” dei capitali gestiti nelle metropoli finanziarie provoca sconquassi nei paesi che si sono avvantaggiati temporaneamente dall'afflusso di capitali internazionali, ma che non avendo una adeguata forza economica sui mercati mondiali – una struttura produttiva e infrastrutture al passo con la concorrenza internazionale – e condizioni di stabilità politica, dipendono da fonti esterne di finanziamento (condizione in cui si sono trovati di recente anche diversi paesi europei periferici).

Il motore del movimento dei capitali sui mercati internazionali sono i tassi praticati dalle banche centrali dei maggiori centri capitalistici mondiali con i quali le banche e le società finanziarie si indebitano. Le grandi operazioni di finanziamento della Fed, e più recentemente della Bank of Japan, hanno dato il via all'ultima ondata speculativa sugli “emergenti”, inondando il sistema creditizio di una massa di liquidità che si è riversata sui mercati azionari e sui titoli dei paesi con un tasso di cescita più sostenuto rispetto a quelli di vecchio capitalismo (19). Il basso costo del capitale da prestito fornito dagli istituti centrali spinge le banche ad indebitarsi per speculare su titoli dal rendimento più elevato, generando un'ulteriore espansione del debito a livello mondiale. Non c'è alternativa a questa corsa speculativa se non il fallimento dei sistemi bancari, privati della possibilità di risanare i bilanci carichi di crediti inesigibili e poco attratti dai modesti rendimenti dell'investimento industriale. Ma in un contesto simile, la fragilità dell'assetto finanziario internazionale è tale che un rialzo anche minimo del tasso di interesse praticato dalla Fed, riducendo i margini di rendimento, manderebbe al macero gran parte della carta finanziaria oggi circolante (20). All'annuncio di un rallentamento della politica monetaria espansiva della Fed, infatti, allinizio del 2014 i capitali hanno cominciato a rifluire dagli emergenti verso i paesi core – Usa in testa – non disdegnando nemmeno i derelitti del Sud Europa (è regola generale che i poveracci paghino interessi più alti, almeno finché... respirano) (21).

L'andamento dei flussi internazionali di capitale va seguito con attenzione, in quanto potenziale fattore di innesco di una recrudescenza della crisi economica mondiale. A questo proposito, merita ricordare brevemente quanto accadde nel 1929. Posto che alla base della crisi, allora come oggi, vi è la tendenza alla sovrapproduzione connaturata alla dinamica dell'accumulazione, il manifestarsi della crisi come crollo catastrofico ebbe origine dai movimenti dei capitali fluttuanti sui mercati internazionali, a loro volta generati della sovrapproduzione. L'esportazione dei capitali è fenomeno risalente alle origini dell'epoca imperialistica, quando i profitti ottenuti all'estero consentirono ai paesi europei di uscire dalla grande depressione 1880-95. A partire dal 1924-25, quando riprese la circolazione internazionale dei capitali, fino alla grande crisi finanziaria del 1931, gli Usa esportavano capitali quanto Francia e RU messi assieme, e il principale flusso di capitali americani aveva come destinazione Berlino, in forma sia di prestiti a breve e lungo termine sia di investimenti diretti di grandi imprese. Per far fronte ai debiti e alle riparazioni, Berlino era costretta a offrire rendimenti altissimi, anche a breve termine, il cui pagamento dipendeva a sua volta ai prestiti ricevuti. Tutto il fragile castello di carte crollò nel 1927, quando la riduzione del tasso di sconto decisa allora dalla Fed, invece di provocare un rilancio degli investimenti e della produzione accelerò la tendenza alla speculazione e attrasse capitali sulla borsa di Wall Street, privando la Germania e i mercati internazionali del vitale afflusso di capitali, e gonfiando la bolla azionaria che esplose nel fatidico ottobre del 1929.Inutile ricordare come sotto le macerie di quel castello di carte covò velocemente il fuoco della successiva guerra mondiale.

***

I dati che abbiamo fin qui ricavato dal corso storico del capitalismo forniscono le prime riprove della validità del nostro “modello- schema”. Abbiamo verificato che vi aderiscono perfettamente i dati degli U.S.A. sull'aumento assoluto degli investimenti, il loro aumento in rapporto alla ricchezza prodotta e la riduzione della quota di plusvalore destinata ai consumi,e ciò che vale per gli Stati Uniti - espressione massima delle tendenze del capitalismo – ha valenza generale. Abbiamo verificato la crescita assoluta e in rapporto al Pil degli investimenti esteri delle economie sviluppate, manifestazione tipica dell'imperialismo e della sua natura parassitaria, ma anche fattore di espansione dell'industrializzazione di aree dallo sviluppo impetuoso che le proietta in tempi relativamente brevi alla senescenza e al parassitismo. Trova infine conferma nelle statistiche la corrispondenza tra l'espansione della ricchezza nella forma capitalistica e la crescente polarizzazione tra aree dove questa ricchezza, di vecchia o recente formazione, si concentra e aree di crescente miseria.

Nei prossimi articoli, esamineremo gli altri aspetti della crisi, relativi a produzione manifatturiera, commercio internazionale, produttività, occupazione, e tireremo le somme di quest'analisi complessiva, fornendo un'ipotesi interpretativa circa gli sviluppi successivi della crisi stessa.

(Continua)

NOTE

1- K. Marx, Il Capitale, Libro III, Terza sezione, Capitolo 13, Editori Riuniti, 1980,p.270-271.

2- K. Marx, Il Capitale, Libro III, cit., p.271-272.

3- Struttura, economica e sociale della Russia d'oggi, edizioni il Programma Comunista, p.714.

4- A questo proposito, è utile rileggere le pagine della Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, cit., dedicate al corso capitalistico nell'interguerra (p.711 e seguenti).

5- “Vulcano della produzione e palude del mercato”, in il Programma Comunista, nn. 13 e 19, 1954.

6- Il Capitale, Libro III, cit. p.147. Vedere anche “Reddito e investimento” in Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, cit. pp.602-609, dove si distinguono tre tipi di investimento: 1) investimento in capitale circolante differenziale, materie prime e manodopera incrementali; 2) in capitale fisso 3) in infrastrutture, case, ecc.. Solo il primo si traduce in incremento del prodotto disponibile sul mercato.

7- A. Kliman, The failure of capitalist production, Plutopress, 2012, p.174-175.

8- K. Marx, Il Capitale, Libro III, cit. p.266.

9- Questa relativa tenuta dei consumi negli Stati Uniti in rapporto all'andamento del Pil andrebbe confrontata con l'andamento di altri paesi a capitalismo avanzato. Va tenuto conto che la posizione privilegiata del paese nel mercato mondiale consente di acquistare merci in cambio della vendita di debito all'estero, e di finanziare con il debito la spesa pubblica, il sistema del credito, e attraverso esso il credito al consumo.

10- Il Capitale risponde alla crisi nell'unico modo che gli è proprio: rilanciare la produzione rafforzando la tendenza alla sovrapproduzione e al sovrainvestimento. Tra il 2010 e il 2012, il recupero della produzione USA di beni di consumo rimane in % molto inferiore alla caduta nel biennio di crisi (+4% contro -9,8%), mentre le altre voci ("macchine per ufficio","attrezzature industriali" e mezzi di trasporto e movimentazione) riguardanti in buona parte la produzione di beni per l'industria (capitale fisso che diviene circolante per la parte consumata nella produzione) registrano un maggiore recupero rispetto ai livelli pre-recessione. Il contributo decisivo di questi settori alla ripresa produttiva conferma che non è il consumo ad attivare la dinamica capitalistica, ma la produzione per la produzione. Il dato viene segnalato dalla fonte come una "novità" (Sito del Board of FED Governors, marzo 2013) rispetto alle crisi precedenti, quando a riprendersi prima era sempre stato il settore dei beni di consumo, mentre quello dei beni durevoli ristagnava più a lungo, suffragando l'impressione erronea che il rilancio della produzione complessiva derivasse dalle dinamiche del mercato, e non viceversa.

11- Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, cit., p.563.

12- “Il totale dei flussi Nord-Sud hegli anni tra il 2002 e il 2006 è stato in media di 857 miliardi di dollari. Nello stesso periodo la somma dei flussi in direzione contraria era di 1205 miliardi di dollari. Un gigantesco 'welfare al contrario'...”. A. Baranes, Per qualche dollaro in più, datanews, 2011, p.103.

13- M. Cellino, “Il debito del pianeta sfonda i 100mila miliardi di dollari”, Il Sole24Ore,10/3/2014.

14- La tabella 1 del “Corso del capitalismo...”(pubblicata su Il programma comunista, n.1/2005) documentava gli incrementi del flusso di capitale in uscita dei maggiori paesi industrializzati, cresciuto di 16 volte dal 1870 al 1980; quella sugli Investimenti Diretti Esteri (tabella 2) riportava una crescita di 8 volte dal 1980 al 2003. Confrontando gli indici Pil e FCE (flusso di capitale estero) dal 1870 al 1989 con gli indici Pil e IDE (investimenti diretti all'estero) dagli anni Settanta si nota che, mentre fino al 1989 l'indice FCE è quasi sempre inferiore all'indice Pil (fa eccezione il periodo fino al 1920), dagli anni Ottanta la progressione dell'indice IDE supera di molto quella del Pil, e nell'ultimo decennio la tendenza si è rafforzata.

15- Rimandiamo alle citazioni da L'imperialismo di Lenin contenute nell'articolo sul “Corso del capitalismo” nel già citato n.1/2005 di questo giornale.

16- Dati da Bureau of Economic Analysis, Table 5.1, Savings and investments by sectors, 28 febbraio 2014.

17- Ancora da Il programma comunista, n.1/2005: “D'altro lato, a mano a mano che il capitale estende la sua dominazione a ritmo accelerato, anche i paesi a più giovane quanto impetuoso sviluppo capitalistico, laddove il capitale raggiunge velocemente un certo grado di concentrazione e centralizzazione, partecipano all'esportazione di capitale e alla spartizione del plusvalore estorto alla classe operaia mondiale”.

18- L'argomento richiama la celebre polemica Luxemburg-Bucharin sulla questione dell'accumulazione, per la quale rimandiamo agli articoli apparsi su Il programma comunista dal 1959 al 1963 raggruppati sotto il titolo "Questioni di economia marxista" (nn. 22 e 23 del 1959; 1, 2, 12, 13, 20 e 21 del 1960; 1, 2, 19 e 20 del 1962; 8 e 9 del 1963). Il nostro Partito ha sempre riconosciuto che la visione della Luxemburg del corso dell'accumulazione capitalistica, pur viziata da errori teorici, sia ciò nonostante rivoluzionaria e corrispondente al reale processo storico. Ciò non significa, come osserva Bucharin, che il capitalismo non possa sopravvivere anche senza mercati non borghesi grazie all'aumento della popolazione e dei nuovi bisogni indotti dalla produzione, e soprattutto che non si ponga l'esigenza del suo rovesciamento prima che il processo storico descritto dalla Luxemburg giunga a compimento. Oltre la polemica teorica, entrambi i grandi rivoluzionari rilevarono le conseguenze antisociali dell'espansione della forma capitalistica e la necessità del suo superamento. Questa la ragione per cui entrambi caddero vittime dello stesso carnefice: l'opportunismo revisionista, in veste prima socialdemocratica e poi staliniana.

19- L'azione delle banche centrali rientra nel crescente interventismo dello Stato nei fatti economici, e segnatamente di quello degli Stati Uniti, che agisce da un lato a sostegno degli interessi dell'imperialismo dominante, del proprio sistema creditizio e attraverso esso alla produzione, dall'altro fa da puntello all'intero sistema capitalistico mondiale, stabilendo condizioni monetarie favorevoli alla circolazione dei capitali e delle merci su scala globale. A dispetto delle apparenze che vedono i mercati pendere dalle labbra delle banche centrali, la dinamica non procede in virtù delle decisioni di qualche banchiere che si limita ad assecondare le tendenze dell'economia reale. Semplificando di molto, la sequenza dal 2008 è la seguente: 1- crisi di sovrapproduzione di merci e capitali; 2- crisi del credito (il denaro diventa raro); 3 - svalorizzazione della massa di capitale fittizio in forma di debito e rischio di tracollo dei sistemi bancari e finanziari; 4 - operazioni di rifinanziamento delle banche centrali (la Bce con acquisto di titoli in mano alle banche, la Fed con acquisto di titoli di stato e cartolarizzazioni) e conseguente creazione di liquidità; 5 - gonfiamento del debito pubblico per garantire redditività ai sistemi bancari che ne sono i maggiori acquirenti; 6 - bassi tassi di interesse come conseguenza dell'enorme liquidità circolante in forma di debito, ma anche a garanzia della sostenibilità del debito pubblico. Una descrizione della dinamica di superficie dei flussi di capitali, in una prospettiva storica si trova in M. De Cecco, “La commedia dei mercati fragili”, Affari e finanza, 3/2/2014.

20- Tra gli “esperti” di economia serpeggia la preoccupazione per la prospettiva inevitabile di una frenata delle banche centrali nell'erogazione di liquidità che finora ha nutrito i mercati obbligazionari e borsistici: “Il pericolo è che siamo entrati in una fase in cui la dipendenza dai mercati finanziari dagli stimoli esterni delle banche centrali si è fatta sempre più forte. Ne consegue che chiudere i rubinetti o semplicemente ridurne la gittata potrebbe causare complicazoni sul valore delle quotazioni. Perché in teoria mercato assuefatti esigerebbero dosi sempre maggiori, per sostenere i prezzi in territori inesplorati”. In altre parole, per non far scoppiare la prossima bolla finanziaria (V. Lops, “Le banche centrali stanno chiudendo i rubinetti”, IlSole24Ore, 11/4/2014).

21- Come effetto delle turbolenze finanziarie, va sottolineato il ruolo assunto della Fed di fornitore di liquidità e di garante di ultima istanza del sistema bancario mondiale, e il progressivo esautoramento del FMI da compiti significativi di finanziamento (“Storia segreta della grande crisi”, IlSole24Ore, 13/3/14,).

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2014)

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