DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Il Decreto Legge sul Lavoro, n. 34/2014, cucinato dal governo Renzi per favorire “l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro”, inserisce nel rapporto capitale-lavoro la forma “usa e getta” 1 della forza lavoro e reintroduce nel “Diritto del lavoro” (ovvero, “Diritto del capitale”), dopo che decenni di lotte operaie lo avevano abolito, il licenziamento ad nutum, arbitrario, come “Diritto del capitalista”. Questo Decreto Legge dimostra che l’uso e il consumo della forza lavoro e la vita stessa della classe operaia non sono che variabili dipendenti dell’accumulazione allargata del capitale: imperativo assoluto dell’economia capitalista, dopo la crisi iniziata nel 2008, è riprendere a crescere. La precarizzazione e la flessibilizzazione permanenti del rapporto di lavoro sono ritenute necessarie, dai capitalisti e dai loro pennivendoli, per la ripresa della crescita del Moloch capitalista.

 

Il Decreto Renzi è così l’ultimo atto in ordine di tempo della pressione sempre più soffocante che la classe dominante italiana, in accordo con il capitale internazionale, esercita sulla classe proletaria, senza che da questa, ingabbiata com’è dai sindacati “tricolori” e dal virus dell’ideologia democratica, venga una risposta all’altezza della posta. Con le modifiche effettuate dopo i monotoni e carnevaleschi passaggi parlamentari, esso s’inserisce nella linea continua delle “riforme” del mercato del lavoro, miranti a portare la classe operaia “nuda” davanti al capitale, con il solo “diritto” di essere sfruttata – “riforme” che hanno avuto inizio a metà degli anni ’80 del secolo scorso con la legge 56/1987 (“Norme sull’organizzazione del lavoro”: possibilità di estendere i “contratti a termine”) 2, seguita dalla legge 236/1994 (possibilità di assumere con contratti di “formazione lavoro”). I momenti salienti di questo incessante attacco alla classe proletaria sono stati il “Pacchetto Treu” (legge 196/1997: introduzione del “lavoro interinale”) e la “legge Biagi” del 2003 (il “supermarket dei contratti”), che rappresentava il punto di svolta, tanto da essere definita lo “Statuto dei capitalisti” per l’uso della forza lavoro. Seguiranno poi il Decreto Legge 138/13 agosto 2011, trasformato in Legge 148/14 settembre 2011, che inseriva l’accordo dei sindacati “tricolori” con le organizzazioni padronali sulle deroghe ai contratti nazionali, e infine, la Legge Fornero sul “riassetto del mercato del lavoro”.

Tutte queste “riforme” del mercato del lavoro sono presentate dal ceto politico della borghesia e dai pennivendoli a servizio del capitale come “riforme” necessarie per combattere la disoccupazione ormai dilagante. Ma – guardate un po'! – più si fanno “riforme” più cresce la disoccupazione. Secondo i dati ISTAT (marzo 2014), gli occupati sono 22 milioni e 356 mila 3, in diminuzione dello 0,6% su base annua (-124 mila). Il tasso di disoccupazione è pari al 12,7%, in aumento di 0,7 punti nei dodici mesi. Il tasso di occupazione, pari al 55,6%, diminuisce di 0,2 punti rispetto a dodici mesi prima. Il numero dei disoccupati ha raggiunto la cifra di 3 milioni e 248 mila, in aumento del 6,4% su base annua (194 mila in più rispetto all’anno precedente). I disoccupati tra i 15 e i 24 anni sono 683 mila. L'incidenza dei disoccupati di 15-24 anni sulla popolazione in questa fascia di età è pari all'11,4%, in aumento di 0,8 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 42,7%, in aumento di 3,1 punti nel confronto tendenziale. Nel periodo 2008-2013, il tasso di occupazione 15-64 anni nel periodo 2008-2013 è passato dal 58,72% al 55,6%; il tasso di disoccupazione dal 6,1% al 12,2%; il tasso di disoccupazione giovanile dal 21,3% al 40%.

Le vere ragioni di queste “riforme” vengono invece nascoste: la crisi di accumulazione del capitale, la necessità per il capitale di aumentare lo sfruttamento della forza lavoro per estrarre una maggiore quantità di pluslavoro/plusvalore e far così riprendere il ciclo di accumulazione. Nel loro insieme, queste “riforme” fanno del “Bel Paese” una “zona franca” 4 nell’utilizzo della forza lavoro, tanto che la classe dominante italiana e i suoi giannizzeri invitano il capitale internazionale a investire in Italia con la certezza di ottenere ottimi profitti con il minimo dei costi 5.

Il Jobs Act è un provvedimento di sei articoli diviso in due capi: il capo I riguarda le “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a termine e di apprendistato”, mentre il capo II, con le “Misure in materia di servizi per il lavoro, di verifica della regolarità contributiva e di contratti di solidarietà”, mette in atto una drastica “semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese”, liberalizza questi contratti dalla precedente “Riforma Fornero”, e quindi rende ancora più precaria la forza lavoro. Nel capo I, s'introduce per il capitalista la totale libertà e quindi arbitrarietà nei contratti a “termine” e “somministrazione”: il “contratto a termine” diventa acausale, senza causa, cioè senza più la necessità per il capitalista di indicare le ragioni specifiche di carattere tecnico, organizzativo e produttivo contenute nell’art.1 del Decreto Legislativo n. 368/2001. Quindi, viene negata anche la premessa fondamentale, che aveva permesso l’introduzione di questo tipo di contratto: la natura di transitorietà e provvisorietà. I “contratti a termine” così liberalizzati possono essere introdotti per qualsiasi tipo di attività, anche stabile e duratura. In questo modo, di fatto, si vanifica l’art.18 dello “Statuto dei lavoratori”, già modificato dalla “Riforma Fornero”: i padroni non hanno nemmeno più bisogno di licenziare, perché nel momento stesso in cui assumono con un “contratto a termine”, il lavoratore sa anche quando andrà via, per la scadenza del contratto che ha come limite la durata di trentasei mesi (prima i mesi erano dodici), sia continui sia con proroghe (anche queste acausali) che possono essere cinque (prima era una volta sola). Ma niente impedisce, dopo la scadenza dei trentasei mesi, di stipulare un altro contratto simile. Il tetto dei “contratti a termine” viene poi fissato nel 20% dei lavoratori a “tempo indeterminato”: se l’impresa viola il tetto, riceve una semplice e lieve sanzione (prima, la norma stabiliva che il superamento del tetto avrebbe comportato la trasformazione a tempo indeterminato dei rapporti in eccesso al 20%), che al massimo può provocare un solletico al capitalista. Inoltre, le aziende che raggiungono questo limite possono rivolgersi alle agenzie interinali per avere altri contratti di “somministrazione” a “tempo determinato”: così, il limite del 20% viene facilmente aggirato.Il “contratto di apprendistato” prevede meno vincoli: non è più necessario per le imprese che lo utilizzano confermare il 30% degli apprendisti con contratto stabile prima di attivare nuovi rapporti di apprendistato con altri lavoratori; non è più obbligatorio il piano formativo individuale; è eliminato l’obbligo di integrare la formazione professionale dell’impresa con quella formativa pubblica; la retribuzione dell’apprendista è fissata al 35% della retribuzione contrattuale per il tempo dedicato all’attività di formazione (quindi, le ore di formazione costeranno meno all’impresa).

Con le “semplificazioni” introdotte dal Jobs Act, il salariato è posto alla totale mercé del capitalista. E' sotto continuo ricatto durante la giornata lavorativa perché aumenti i ritmi di lavoro e faccia straordinari in concorrenza con altri salariati, nell'illusione di “meritarsi” un possibile e improbabile rinnovo contrattuale. E ha sulla testa la spada di Damocle della possibilità per il capitalista di “giocare” fra proroghe e rinnovi e con contratti di lavoro che possono essere frantumati a suo piacimento. Si trova dunque a vivere alla giornata, nella più totale insicurezza: qualsiasi capriccio del capitalista lo può gettare nella rovina. E’ questa la condizione normale che la società capitalista riserva al salariato.

Questo Decreto fa strage di tutte le illusioni di coloro che pensano e credono di difendere le condizioni di vita e di lavoro della classe dei proletari richiamandosi alla “Carta costituzionale”, al “diritto”, allo “Statuto dei lavoratori”. Costoro sono quelli che hanno fatto di tutto per estirpare dalla mente e dal cuore della classe operaia il fatto non aggirabile che la lotta di classe è la sola via per difendersi dall’oppressione del modo di produzione capitalistico. Hanno fatto dello “Statuto dei lavoratori” un feticcio, dimenticando che esso non è caduto dal cielo per opera dello spirito santo, ma ha avuto origine dalle lotte operaie degli anni 1968-70, ed è stato emanato con lo scopo di imbrigliare, disciplinare e castrare quelle lotte, incanalandole dentro l’alveo delle compatibilità capitaliste. E dimenticano che solo con la lotta, e non certo con il “diritto”, si potevano e si dovevano difendere quelle “conquiste”, perché il “diritto” è espressione della dittatura della classe capitalista: la quale, in assenza della lotta di classe, detta le condizioni della compravendita della merce forza lavoro. Per l'appunto, il Jobs Act.

Le magnifiche sorti e progressive, le aspettative crescenti propagandate dalla borghesia e dai suoi scagnozzi, si sono trasformate nel loro opposto: precarietà, sfruttamento intensivo, insicurezza, disoccupazione dilagante, miseria crescente. La società capitalista vive all'insegna dell’instabilità permanente6: licenziamenti, disdetta dei contratti di lavoro, chiusura di fabbriche sono all’ordine del giorno; l’esercito industriale di riserva (disoccupati e sottooccupati) è usato dal capitale come forza concorrenziale contro gli operai occupati per abbassare i salari e per aumentare lo sfruttamento. Questa è la realtà della società borghese. L’unica via per opporsi a questa miserabile situazione è la ripresa della difficile e aspra via della lotta di classe, con rivendicazioni strettamente classiste. Mentre i sindacati “tricolori”, tra un tavolo di trattative con le organizzazioni padronali e uno di consultazioni con il governo, fanno di tutto per spegnere ogni tentativo di risposta della classe operaia, consumandone l’energia, il nostro Partito indica nella lotta di classe la via per opporsi a un sempre più micidiale sfruttamento: lotta per la difesa del salario reale; per una drastica riduzione della giornata lavorativa a parità di salario; contro cottimi, straordinari e incentivi; per la sicurezza sul lavoro, contro infortuni, ambienti nocivi per la salute e omicidi fatti passare per incidenti; contro tutte le discriminazioni, razziali, religiose, di genere. Strumento unico e fondamentale di questa lotta è lo sciopero generale, senza preavviso e senza limiti di tempo, esteso a tutti i settori della classe. Lotta di classe, dunque, come scuola preparatoria all’assalto al cielo, organizzato e diretto dal nostro partito: per farla finita con la società capitalista, la più sfruttatrice e sanguinaria delle società classiste.


 

1 Ecco alcuni passaggi del testo della replica finale della discussione generale sul disegno di legge n. 1464/2014, di conversione in legge del D.L. n. 34/2014 (relatore Ichino), sul decreto Renzi-Poletti, svolta nella seduta antimeridiana del Senato del 7 maggio 2014: “Questo decreto segna una tappa significativa nell’evoluzione del nostro ordinamento giuslavoristico [...] Segna uno spartiacque tra due stagioni. […] Ambisce a segnare, sul piano […] delle relazioni industriali il passaggio del nostro ordinamento del lavoro dal XX al XXI secolo. […] Per attrarre gli investimenti stranieri […] occorre […] semplificare la nostra legislazione del lavoro. […] Il dualismo fra stabili e precari [è] figlio proprio del muro che nei decenni passati è stato eretto in difesa dell’intangibilità della disciplina del rapporto di lavoro regolare a tempo indeterminato. […] Questo decreto costituisce soltanto un intervento molto parziale sulla nuova frontiera della protezione del lavoro, nel XXI secolo. […] le nuove parole d’ordine sono quelle indicate dall’Unione Europea: employability, flexsecurity” (cfr. http://www.pietroichino.it/?p=31033).

2Legge introdotta dal secondo Governo Craxi, con Ministro del (non) lavoro De Michelis, passato alla storia (oltre che per le allegre notti in discoteca) per aver sostenuto l’idea che i disoccupati dovevano... “inventarsi il lavoro”. I più “creativi” gli hanno creduto...

 

3Nel dicembre 2008 gli occupati erano 23 milioni 516 mila (dati destagionalizzati). Cfr. LaStampa, 01/03/2014.

4Come il capitale finanziario si è inventato i “paradisi fiscali” allo scopo di non pagare le tasse, così il capitale finanziario-industriale, costretto a fissarsi in impianti industriali per succhiare il pluslavoro alla classe operaia, chiede e ottiene dai governi del capitale di creare delle “zone franche”, dove è abolita la normale legislazione sul lavoro e si può utilizzare la forza lavoro senza impedimenti di sorta, con il minimo costo e il massimo profitto.

5 Negli ultimi anni, anche l’idioma nazionale, in omaggio all’interdipendenza dell’economia capitalista, si è arricchito di neologismi di origine inglese-americana, con l'apparizione di termini come job sharing, working poors, workfare, flexibility, flexsecurity, employment, full time, part time, fiscal compact, spending review, credit crunch, exit strategy, minijobs... La classe dominante italiana è passata, quindi, dall’autarchia linguistica del periodo dell’imperialismo straccione – fase liberale prima e fascista poi – , alla fase linguistica anglo-americana come appendice imperialistica dell’imperialismo USA.

6“Il continuo sconvolgimento della produzione, l’interrotta messa in discussione di tutte le condizioni sociali, l’insicurezza e il movimento perpetui distinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti. Vengono dissolti tutti i rapporti stabili e irrigiditi […]. Si volatilizzano le immobili gerarchie sociali, viene profanato tutto ciò che vi è di sacro, e gli uomini sono finalmente costretti a considerare la propria posizione nella vita e i propri reciproci rapporti” (K. Marx- F. Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza, 1999, p.10).

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03-04 - 2014)

 

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