DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Fra i molti aspetti che la crisi economica mette in risalto con maggiore (e più drammatica) chiarezza sta il fatto che, senza il partito rivoluzionario, organizzato e selezionato, fondato su una teoria granitica e su un programma convalidato da una lunga esperienza storica e reso ancor più tagliente da un bilancio di ormai novant’anni di controrivoluzione, senza questo partito, il proletariato mondiale è solo e abbandonato a se stesso, di fronte all'attacco sferratole da un modo di produzione sempre più feroce nelle sue manifestazioni anti-proletarie.

 

Al tempo stesso, mentre questa solitudine politica si fa sentire in maniera diffusa e angosciosa, a livello mondiale e con le più disparate manifestazioni, si moltiplicano coloro che (come zecche sul corpo, parassiti dalle molte origini per lo più riconducibili alle mefitiche esalazioni delle mezze classi) quel ruolo centrale del partito rivoluzionario (di organizzazione e direzione) sminuiscono, minimizzano, trascurano, o rinviano a un domani non meglio precisato – in pratica, negano.

 

Naturalmente, di aperti negatori del partito è piena la storia del movimento operaio e comunista: gli anarchici, innanzitutto, contro cui i comunisti han dovuto sempre lottare rivendicando il ruolo centrale del partito contro ogni visione metafisica del potere, del proletariato, della società senza classi; poi, con le dovute differenze che non è questa la sede per indicare 1, gli anarco-sindacalisti, i wobblies statunitensi e i sindacalisti rivoluzionari italiani e francesi, vigorosi combattenti sociali, ma chiusi in una visione spontaneista, localista e fabbrichista, di filiazione anch'essa, nella sostanza, anarchica; infine, gli operaisti di varia natura e derivazione, sull'arco delle vicende novecentesche del movimento comunista. Tutti costoro non hanno mai nascosto il proprio rifiuto dell'organizzazione di partito, sia insistendo su un'intrinseca soggettività proletaria capace di individuare da sé sola il cammino da percorrere sia traendo, da letture profondamente erronee della storia del movimento comunista, il convincimento che qualunque organizzazione di partito non sia altro che uno strumento di “burocratizzazione” e di “oppressione della volontà della base”. Ma si nega il partito rivoluzionario, il suo ruolo direttivo-organizzativo nei confronti della classe, anche concependolo, nella sua sostanza, in maniera distorta (si pensi, fra gli esempi storici, alla vicenda del KAPD tedesco): il “partito di massa e non di capi”, il “partito che deve limitarsi alla propaganda del comunismo per non sostituirsi alla classe”, il “partito a base esclusivamente operaia”, e così via 2.

 

La miseria della fase storica che siamo dannati a vivere oggi pare riprodurre, in versione volgarmente lillipuziana, questi negatori del partito: l'operaismo, lo spontaneismo, il movimentismo ne producono a getto continuo, dentro e fuori le riserve indiane dei centri sociali, fra le mezze classi “incazzate”, fra gli smunti eredi del gramscismo, fra i “ribelli” e i “soggettivisti” della “rivoluzione qua e ora” che schifano ogni preparazione rivoluzionaria, fra gli studenti che non vogliono “essere inquadrati”, fra tutti coloro che, dopo decenni di mefitica democrazia, non concepiscono la necessità dell'organizzazione e del duro lavoro a contatto con la classe.

 

Questa zavorra preme su un proletariato in sofferenza acuta, che cerca, come può, di battersi per far sentire la propria voce, di lottare con la forza della disperazione per sopravvivere – a volte con improvvise fiammate spente da bagni di sangue (per restare nella storia recente: in Sud Africa, in Vietnam, in Cambogia), a volte con ampie sollevazioni presto incanalate nell'alveo di rivendicazioni piccolo-borghesi di cambio di questo o quel regime e quindi castrate e soffocate (i movimenti all'origine squisitamente proletari che hanno infiammato il Nord Africa). Senza andare oltre nell'analisi di tutti questi fatti (cui negli ultimi anni abbiamo dedicato parecchie pagine della nostra stampa), è evidente che la mancanza a livello mondiale del partito rivoluzionario ha fatto sì che la classe proletaria si muovesse, sotto la pressione di fatti materiali, in totale solitudine e, anche sul piano dell'orizzonte limitato (ma necessario) della difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro, in ordine sparso, inevitabile vittima sacrificale delle illusioni e dei fantasmi democratici e riformisti.

 

Ma, come dicevamo sopra, esistono tanti modi per “negare il partito”. C'è oggi una larga fascia di “improvvisatori”, che ritengono il partito rivoluzionario sì necessario, ma... domani, in un altro momento, in quella fase in cui la rivoluzione imminente lo richiederà (ossia: ci farà il grazioso piacere d'informarci che quel partito è necessario!). Allora sì, le avanguardie si rimboccheranno le maniche e, nel divampare dell'incendio rivoluzionario, da qualche parte tireranno fuori il partito e lo proporranno alla classe – la quale, a sua volta, stupefatta per tanta bellezza, se ne innamorerà subito (i colpi di fulmine non si contano, in periodo rivoluzionario), disposta ad andare in capo al mondo pur di seguirlo. Oggi, che siamo lontani ancora da quel momento sublime, ci si dà a scambiarci informazioni, a litigare su chi è più bravo, a berciare e bettegare sulla rete e sui social networks, su Facebook e su Twitter, dove han tutti la strategia in tasca, conoscono alla perfezione la ricetta e la soluzione, si son fatti l'opinione giusta su rivoluzione e controrivoluzione, sulle dinamiche della crisi e sulla natura della società comunista. Il partito? Oggi non ce n'è bisogno: meglio crearsi un bel po' di followers, di “amici sinceri”; meglio polemizzare e dimostrare che la si sa più lunga; meglio scambiarsi pompose tesi e documenti fini a se stessi; meglio creare un milieu di gruppi, una rete. Così siamo al sicuro da sopraffazioni, e soprattutto siamo, giorno dopo giorno, finalmente protagonisti. La classe? Che faccia pure le sue lotte! Il lavoro a contatto con essa? Chi se ne frega! Il ruolo dirigente e organizzativo del partito? Se proprio è necessario, se ne riparla in un altro momento!

 

E invece il partito non s'improvvisa né s'improvvisa il suo legame (dialettico) con la classe e con le sue lotte. Non s'improvvisa, perché partito vuol dire in primo luogo continuità teorica e pratica di un'organizzazione e, se non si lavora a quella continuità, se non la si difende coi denti, se non la si assicura per altre generazioni, e non come “gruppo di studio”, come “intellettuali”, come “chiacchieroni”, quella continuità si spezza, tramonta, non serve più a nulla – restano solo la dittatura dell'ideologia dominante e la repressione statale borghese. Il partito non s'improvvisa, perché l'unica garanzia che ci può essere per la sua capacità di direzione della classe verso la presa del potere e la gestione della dittatura proletaria come obbligato ponte di passaggio verso la società senza classi sta per l'appunto nella formazione dei quadri militanti, nella partecipazione alle lotte proletarie con funzione tendenzialmente critica, direttiva e organizzativa, nell'analisi continua e approfondita dei fatti economici e sociali (non per vezzo intellettuale né per sfoggio o acquisizione personale). Il partito non s'improvvisa, perché la classe lo potrà riconoscere e riconoscere la sua guida (e così facendo riconoscere se stessa come fattore di storia e non più come classe oppressa) solo se l'avrà avuta a fianco nelle proprie lotte, nelle proprie cocenti sconfitte o vittorie parziali, solo se da esso avrà potuto trarre gli insegnamenti di quelle lotte, di quelle sconfitte e vittorie, solo se nei suoi militanti avrà potuto individuare gli elementi che meglio sanno guardare e agire dentro l'oggi e in prospettiva. Domani sarà troppo tardi: e l'esperienza storica, con le sue tragedie legate all'assenza o al ritardo del partito rivoluzionario, ce l'ha insegnato in maniera fin troppo drammatica.

 

C'è poi un'altra congrega che, a prima vista, sembrerebbe staccarsi da questo panorama sconfortante: quella dei “costruttori” del partito rivoluzionario. Costoro “sentono” che tale partito è necessario, ma credono che si possa ovviare alla sua (relativa) assenza dalla scena storica attuale “costruendolo” come se fosse una casetta del Lego: riunendosi periodicamente intorno a un tavolo con altri gruppi e formazioni, elaborando “piattaforme” e “documenti congressuali” su cui “convergere”, coordinandosi con questo o quel partito o partitino in una riedizione degli “intergruppi” politico-sindacali del tempo che fu, creando fantomatici fronti (popolari?) o bureaux o uffici di collegamento, resuscitando vecchie sigle o inventandone di nuove, credendo e facendo credere che il partito possa nascere dalle lotte e nelle lotte, dagli organismi di base investiti di una... funzione politico-educativa. Un partito bricolage, insomma, cui ciascuno porta quel che può: il tutto nel disprezzo più completo dell'omogeneità di teoria, principi, programma, e soprattutto nell'indifferenza per un bilancio impietoso di ciò che è stato l'ultimo secolo di storia del movimento operaio e comunista – che è la vera e unica base da cui si deve partire per cominciare a porsi il problema del partito, come fece la Sinistra nel 1926, all'alba della più feroce ondata controrivoluzionaria, consegnando alle generazioni future, con le sue “Tesi di Lione”, il bilancio di un passato di lotte, di trionfi e di sconfitte – ponte necessario lanciato verso il futuro. Il partito non “si costruisce”, esattamente come non “si costruisce il socialismo”: ci si può solo immettere in una tradizione che è ben presente nella storia del movimento comunista per continuare la battaglia, ostinatamente e scomodamente controcorrente – e quella tradizione è la nostra tradizione. Ma, si sa: queste son bazzecole! la crisi incalza, bisogna far presto: costruiamo il partito senza curarci di quel che è stato! Scurdammoce 'o passato! E quel che ne viene fuori è il... partito-mostro di Frankenstein.

 

Sempre più, nei tempi convulsi che verranno, noi comunisti dovremo combattere tutte queste genie di negatori, improvvisatori, costruttori del partito rivoluzionario. Dovremo farlo continuando la nostra ormai più che secolare battaglia, oggi indubbiamente minoritaria, ma essenziale per preparare il domani: di difesa della teoria, di rafforzamento organizzativo, di radicamento internazionale, di partecipazione alla lotte della nostra classe con l'obiettivo di guidarle e dirigerle, di formazione di quadri militanti, di analisi continua e incessante dei fatti della realtà alla luce del materialismo dialettico. E' questo il partito, e chi lo nega, chi lo improvvisa, chi lo vuole “costruire”, bisogna avere il coraggio di dirlo, è dall'altra parte della barricata. “Chi non è con noi è contro di noi”.

 

1Si vedano le pagine dedicate a essi nel II volume della nostra Storia della sinistra comunista. 1919-1920, Edizioni Il programma comunista, Milano 1972, Capp. VI e VIII.

2Anche a proposito di queste posizioni, si veda il volume ricordato sopra.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2014)

 
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