DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Da tempo ormai, la Cina assume decisamente un ruolo imperialista, specialmente nella sua area. La crisi economica, che da molti anni investe in modo particolarmente grave soprattutto le aree dei vecchi imperialismi (Europa e USA) la spinge ad accentuare questo ruolo e ad affrontare in modo sempre più aperto e deciso la sfida coi più potenti e vecchi rivali, fino a pochi anni fa mantenuta a livelli relativamente bassi. Nell’area asiatica del Pacifico come in quella latino-americana, anche per la persistente crisi economica, la potenza militare dell’imperialismo USA si è andata via via indebolendo. Mentre si rafforzano le potenze economiche cinese e indiana, la terza potenza mondiale, il Giappone, pur accusando anch’essa i colpi della crisi generale, sembra diventare sempre più insofferente ai diktat imposti dagli USA dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale. Si assiste, in generale, da un lato a una sorta di “fronte comune” (oggi più virtuale che reale) tra quasi tutte le suddette potenze regionali asiatiche contro il predominio finora quasi assoluto e incontrastato degli USA, che va realizzandosi soprattutto con frequenti accordi economici, commerciali e finanziari nell’area; dall’altro alla prosecuzione “forzata” o stentata delle stesse vecchie intese economiche e militari con gli USA da parte dei singoli Stati della regione, ancor troppo timorosi per sfidare apertamente l’imperialismo più potente o poco fiduciosi, su “sicure” o durature intese e alleanze con gli altri Stati. Gli USA, insomma, sembrano avere ancora buoni margini per continuare il vecchio gioco del “divide e impera”, degli accordi unilaterali o parziali con alcuni di essi, allo scopo di spingere gli uni contro gli altri.

Nel tornare ad affrontare la “questione cinese”, intendiamo soffermarci su questi rapporti inter-imperialistici sul piano economico, politico e militare: sia su quelli dell’intera area rispetto ai vecchi imperialismi o altre aree, sia su quelli interregionali che sembrano assumere essi pure rilevanza sempre maggiore.

 

Quello che bisognerà soprattutto comprendere è se, nella presente situazione storica di forte e persistente crisi economica generale e in quanto la Cina è uno Stato pienamente imperialistico, i contrasti e le rivalità con gli altri imperialismi, oltre a costituire, come sempre, le premesse per un nuovo conflitto mondiale, rimetteranno di nuovo in moto in maniera consistente e generalizzata anche le forze proletarie classiste – quelle forze proletarie che, dopo il massacro delle comuni di Canton e Shanghai del 1927 (1), hanno sempre rappresentato un terribile spettro da esorcizzare per la borghesia cinese maoista e post-maoista, come per quella mondiale. Fin dagli anni di quella sconfitta proletaria, il modo in cui si è cercato in Cina di esorcizzare quello spettro è stato lo stesso che aveva già messo in atto lo stalinismo, a copertura della falsificazione della teoria marxista e dei relativi massacri dei militanti bolscevichi.

 

 

Storia e mistificazioni ideologiche

All’interno dei rapporti inter-imperialistici, la Cina gioca indubbiamente da sempre un ruolo centrale. La sua storia, d’altra parte, dai disastri prodotti dall’imperialismo occidentale (soprattutto britannico) nell’800, attraverso lo smembramento del suo stesso territorio e della sua antica “economia asiatica”, alla lotta contro lo stesso imperialismo per la conquista della propria indipendenza politica (nel 1949), fino al lungo cammino del dopoguerra volto a riaffermare e rafforzare quell'indipendenza anche sul piano economico per non soggiacere ancora al dominio imperialistico (compreso quello russo), è tutta intessuta di vicende grandiose quanto drammatiche (2). Nella sua ultima fase, più o meno dagli inizi degli anni ’80 del '900, la Cina, ormai abbastanza sicura tanto sul piano politico quanto su quello economico e militare, ha potuto lanciarsi decisamente, sul fronte interno, verso uno sviluppo economico meno gestito e controllato in maniera diretta dallo Stato e più affidato alla gestione privata e al capitale estero; sul fronte esterno, si è proiettata, come vero Stato imperialista, anzitutto sugli altri Stati della regione, allungandosi poi man mano a tutte le aree del mondo, facendo sentire il proprio peso e dandone un “assaggio” anche all’imperialismo numero uno, con l’acquisto di alcuni suoi titoli del debito pubblico.

 

L’impatto storico con l’imperialismo occidentale nel corso dell’800 ha determinato tutto il suo tormentato cammino, accompagnato da effetti drammatici sul piano sociale: dalle rivolte contadine dei T’ai-p’ing (1850) e dei Boxer (1900) contro la pressione imperialista di metà e fine '800, alle rivolte proletarie e ai successivi massacri di Canton e Shangai del 1927, durante l’unico tentativo (apertamente sabotato dallo stalinismo) di combattere non solo l’imperialismo esterno ma anche la borghesia interna e il capitalismo, sul terreno della lotta di classe comunista e internazionalista; fino alle guerre nazionali contro gli imperialismi e le armate nazionaliste “compradores” interne, organizzate dal Kuomintang – guerre nazionali che, sostenute soprattutto dal movimento contadino-borghese, valsero comunque la conquista dell’indipendenza politica alla fine del secondo conflitto mondiale.

 

Nel secondo dopoguerra, con la conquistata indipendenza (mal digerita soprattutto da USA e URSS), gli imperialismi mondiali, temendo fortemente che questa sua presenza assumesse una consistenza anche sul piano dello sviluppo economico, faranno di tutto per imporre al giovane capitalismo cinese condizioni economiche da strozzinaggio, allo scopo di riprodurre ancora la vecchia struttura economica e, con essa, lo stesso smembramento territoriale. Da qui, dopo un decennio di cooperazione, la rottura con lo stesso imperialismo russo, la successiva chiusura “autarchica” e infine, dopo il periodo di “ripiego” nella cosiddetta “rivoluzione culturale”, di nuovo l’apertura al mercato mondiale, alla fine degli anni ‘70 del '900. Un cammino tortuoso, espresso da indirizzi economici fortemente contrastanti all’interno dello stesso PCC, che dovevano fare sempre i conti con la “tenuta” sul piano sociale interno, imposta spesso a mezzo di continui massacri condotti dai fautori delle varie tendenze.

 

Non diversamente dallo stalinismo, il maoismo, nato proprio dalla sconfitta e dal “tradimento” stalinista, ha trovato, nella mistificazione della realtà dei processi sociali in veste “social-comunista”, il modo per tenere meglio legato alla catena il proletariato cinese. D’altra parte, l’ideologia nazionalista stalin-maoista assume una funzione e una finalità non diverse da quella democratica e nazionalista dei vecchi imperialismi d’occidente. Nell’uno come nell’altro caso, si tratta di due diverse forme ideologiche di stampo nazionalistico, volte a meglio assoggettare il proletariato: nel primo caso, facendogli credere che, “vivendo nel socialismo”, i contrasti sociali non sarebbero dovuti alla lotta di classe, “ormai sparita”; nel secondo, che la lotta di classe “non avrebbe senso”, perché anche la stessa oppressione o le ingiustizie sociali sarebbero in fondo un “prodotto” puramente contingente. Due giustificazioni ideologiche, diverse ma perfettamente convergenti, per giustificare la repressione anti-proletaria.

 

La mistificazione ideologica “social-comunista” ha avuto il suo maggiore puntello soprattutto nel peso economico prevalente assunto dalla gestione statale, almeno nel primo trentennio dopo il 1949 (quello maoista), collegata fortemente e strettamente alla necessità sia dell’accumulazione iniziale capitalistica, come anche allo stretto controllo e centralizzazione politica, soprattutto nei confronti dei pericolosi effetti sociali. Questo controllo nazionale, ereditato per tanti aspetti anche dalla millenaria tradizione unitaria e centralizzata dei vecchi imperi, dovrà poi fare i conti con le nuove “tendenze disgregatrici”, rappresentate dagli attacchi economici, politici e militari dei vari stati imperialisti, come pure dai loro rappresentanti in Cina, in veste economica e militare.

 

Come ogni capitalismo, quello cinese ha sempre cercato di “liberarsi” del peso troppo diretto ed eccessivo dello Stato nell’economia. Ma i rapporti di forza inter-imperialistici (oltre a quelli economici, sociali e politici interni) hanno sempre “imposto” di agire con la dovuta “prudenza” su questo terreno e di tenere sempre stretto e forte in mano il timone statale. Allo stesso modo, hanno “imposto” di mantenere unita e coesa la direzione politica, sebbene essa, sotto tale veste apparente, è sempre stata periodicamente (e fortemente) scossa dalle vicende turbolente dello sviluppo economico interno e dei rapporti inter-imperialistici con esso strettamente connessi. La stessa politica del cosiddetto “Grande Timoniere” può sintetizzarsi nei vari tentativi di intraprendere la rotta della gestione sempre più privata e liberale dell’economia: assicurando però sempre e innanzitutto uno sviluppo centralizzato dell’economia (specie sul piano industriale), presentandosi come grande potenza nei rapporti con gli imperialismi ed evitando, nello stesso tempo, che questo stesso sviluppo producesse gravi contraccolpi negativi sul piano sociale interno, con riferimento soprattutto, in quegli anni, al mondo agricolo e contadino.

 

La politica dei “Cento fiori” (1956-57), sviluppata in rapporto alla necessità di fondo della centralizzazione statale, esprimeva sul piano ideologico proprio quella tendenza alla “libertà di impresa” che potrà prendere corpo e dispiegarsi solo a partire dalla fine degli anni ’70, mentre la cosiddetta “Rivoluzione culturale” del 1967 e anni seguenti, con l’esaltazione moralistica della frugalità, l’astratto egualitarismo e il sacrificio sul lavoro”, ecc., rappresentò la “consegna” dell’intera società allo sfruttamento capitalistico. Essa funzionò come valvola di sfogo ideologico per giovani e studenti delusi dalla mancanza di reali prospettive e intruppati come “guardie rosse” per combattere contro i cosiddetti nemici politici interni del momento, dati loro facilmente in pasto come veri capri espiatori di fronte ai grandi disastri economici e sociali prodottisi in quegli anni. Alla fine, a partire soprattutto dai tardi anni ’70 e con l’utilizzo sempre maggiore, sul piano produttivo, di avanzate tecnologie e di imprese a capitale straniero, la cosiddetta “libertà dell'impresa privata” si affermerà decisamente. Il passaggio del testimone tra il “Grande Timoniere” e il “Moderno Traghettatore” (volendo personificare eventi e forze che nulla ovviamente hanno di personale) verrà così compiuto. Anche se ancora in modo subordinato rispetto alla rilevanza dell’economia statale, lo sviluppo della tendenza aziendalista, privata e liberista, ha costituito e costituisce, da allora a oggi, insieme agli investimenti di capitali esteri, il vero motore dell’economia cinese.

 

Altro elemento di mistificazione è stato poi (ed è) il mantenimento del nome di “Partito comunista” al soggetto politico alla direzione dello Stato. In realtà, dopo la tremenda sconfitta del 1926-27, tale partito è stato promotore e fautore di una rivoluzione borghese, socialmente contadina, fondata sullo sfruttamento del proletariato urbano e sull’asservimento dei contadini poveri. La vera “rivoluzione socialista” in Cina, dopo il rapido fallimento di quella borghese del 1911 diretta dal partito nazionalista del Kuomintang di Sun Yat-Sen, era stata sconfitta, infatti, nel 1927 – effetto diretto, questo, della sottomissione imposta dallo stalinismo fin dal 1924 della linea politica bolscevica a quella menscevica, con la sottomissione della lotta del proletariato cinese alla politica nazionalista borghese dello stesso Kuomintang e a quella dello stato nazionale russo. Dopo l’immane e sanguinosa sconfitta proletaria di quegli anni, fu lo stesso PCC che si trasformò (come era avvenuto, d’altra parte, per lo stesso partito bolscevico fin dal 1924) nel “vero partito” nazionale borghese. Ed essendo il suo orizzonte quello nazionale borghese, esso non riuscì mai a poggiarsi neppure sui contadini poveri o a prendere misure come la nazionalizzazione della terra (a parole, più volte annunciata): il PCC di Mao, per mantenere l’unità nazionale antimperialista, poggerà infatti sempre sul compromesso tra contadini ricchi, medi e poveri. Pressate dalle armate del Kuomintang, il quale poggiava invece apertamente sui contadini ricchi e medi e sul sostegno imperialista esterno, le armate contadine maoiste furono prima costrette a trovare rifugio al nord (la “Lunga marcia” del 1934); passarono poi a una ritrovata alleanza nazionale con lo stesso Kuomintang contro l’invasione giapponese (1937) – alleanza cui furono sacrificate alcune delle stesse misure radicali borghesi prese nel frattempo in campo agrario. Alla fine della guerra, le armate contadine maoiste sconfissero quelle del Kuomintang, dilagando infine poi nelle città e conquistandole.

 

Il governo della cosiddetta “Nuova democrazia” (1949) codificherà la teoria e la pratica del “Blocco delle quattro classi”: eccezion fatta per i proprietari terrieri (debitamente indennizzati), tutte le altre classi dovevano essere rappresentate al governo. Chi dominava allora? Secondo Mao, non vi era o doveva esserci alcuna dittatura in seno al popolo: nessuna classe doveva imporre il proprio dominio sulle altre, ma tutte dovevano essere “democraticamente unite” all’insegna del “libero stato popolare” di… lassalliana memoria (3). Gli unici nemici erano i proprietari fondiari e la borghesia “compradora”, all’interno del paese, nonché l’imperialismo all’esterno. Al di là delle mistificazioni, era la borghesia la sola e unica classe dominante, espressione dello Stato nazionale, rappresentata dal PCC al governo, come suo organo politico decisionale. Era il capitalismo che si doveva impiantare e sviluppare come sistema economico, e lo Stato nazionale del Capitale, in tale fase iniziale, agì come leva e strumento principale dello sradicamento dei vecchi rapporti economici da un lato e della iniziale accumulazione dall’altro. Non diversamente, un secolo e mezzo prima, era avvenuto, ad es. con lo Stato francese giacobino (e più tardi persino bonapartista), usato per dare impulso all’accumulazione capitalistica, per lo sviluppo più completo del capitalismo francese (e anche di quello fuori dai suoi confini, attraverso le varie campagne militari napoleoniche), inizialmente contro lo stesso “personale politico borghese”.

 

Volendo fare un breve raffronto con la rivoluzione russa del 1917, ricorderemo che anche quest’ultima diventerà, dopo una drammatica e sanguinosa controrivoluzione, espressione del prevalere in primo piano degli interessi del capitale nazionale. L’abbandono della linea proletaria e internazionalista, la dichiarazione della “costruzione del socialismo in un solo paese”, furono espressione ed effetto del dominio imperioso degli interessi del capitale (a partire dalla piccola produzione fino all’industrializzazione di Stato), che il partito bolscevico non riuscirà più a mettere sotto il proprio controllo, come aveva fatto nei primi anni dopo l’Ottobre affidandosi al proletariato e ai contadini poveri. Dopo, vi sarà l’abbandono o il “tradimento” di una linea che, per quanto fosse stato certamente difficile poter mantenere ben salda rimanendo dentro i confini nazionali russi senza il sostegno del proletariato occidentale, era comunque quella stabilita dall’indirizzo bolscevico, ancora prima dell’Ottobre (4).

 

Nella rivoluzione cinese, invece, il PCC, sia prima che durante il governo della “Nuova democrazia” del 1949, affermerà sin dall’inizio la propria linea realmente borghese-popolare, anche se mistificata: non rinuncerà infatti a sostenere, insieme a quella demo-popolare delle “quattro classi”, anche una fantomatica linea “proletaria e dittatoriale”. Soprattutto, riproporrà la teorizzazione menscevico-staliniana imposta in Cina nel 1927, spacciata allora, sconciamente, quale “prima tappa” della rivoluzione (la “tappa democratica”) e propinata, ancora più sconciamente, come “rivoluzione permanente o ininterrotta”. La rivoluzione cinese del 1949 verrà dunque dichiarata apertamente “democratica”, seppure ad “egemonia” proletaria e socialista, laddove il termine “egemonia” stava per “conciliazione con le altre classi” e non certo per dittatura proletaria nei loro confronti. La “trasformazione” del PCC in partito borghese, contadino e nazionalista, non avverrà dunque dopo l’instaurazione del governo del 1949 e neppure nella fase immediatamente precedente. Essa è da far risalire proprio alla sconfitta del proletariato cinese del 1927 (come effetto della trasformazione dello stesso partito bolscevico in Russia in partito borghese-nazionalista). D’altra parte, come vedremo, le misure del PCC dal 1949 in poi, in linea generale, non faranno che ricalcare, con un ventennio circa di distanza, quello che era già stato il processo capitalistico economico e sociale russo: di chiaro e forte stampo nazionalista borghese, una volta abbandonate la linea e la prospettiva proletaria e internazionalista – un processo di sviluppo affidato alle mani di uno Stato che era semplice e diretta espressione delle forze borghesi e nazionali.

 

Nella situazione post-bellica, il governo maoista di “Nuova democrazia” del PCC mise in atto, oltre alla mistificazione della statizzazione delle industrie e poi delle comuni agricole presentata come misura equivalente a “socialismo”, l’altra mistificazione dell’alleanza tra presunti paesi “fratelli e socialisti” e addirittura dell’esistenza, tra di loro (compresi quelli dell’est europeo) di un preteso “mercato socialista”, a giustificazione dell'alleanza medesima.

 

Già nel 1956, ai tempi del XX congresso del PCUS, il PCC inneggiava alla concordia e “coesistenza pacifica” (di cui proprio Mao fu il teorico), non solo sul piano interno, nei rapporti tra le famose “quattro classi” (proletariato, contadini, piccola borghesia urbana, borghesia nazionale), ma anche sul piano internazionale, col richiamo insistente alla pace e alla concordia tra tutti i popoli, non più solo tra quelli “socialisti”. Dietro la teorizzazione maoista di allora (che gli Stati proletari o socialisti non avrebbero più dovuto porsi come… “aggressori” contro gli Stati capitalistici), vi era la copertura degli affari che si intendevano invece intraprendere, mantenere e sviluppare con questi. L’indifferenza, peraltro neanche tanto velata, verso l’appoggio a qualunque movimento nazional-rivoluzionario, come ad es. quello vietnamita o cingalese, allora in corso, ne è una chiara dimostrazione.

 

Quando la pressione delle vicende legate all’esistenza di un mercato mondiale reale (quello unico capitalistico) si incaricheranno di smentire l'esistenza di quello virtuale e ideologico, “mutuamente vantaggioso”, mettendo in evidenza, invece, il dominio dei più forti, vi saranno anche la rottura tra Cina e URSS (1960), gli scontri sanguinosi sulle rive dell’Ussuri (1969), nonché la fine della “coesistenza pacifica” tra gli stessi “paesi fratelli”. Mentre la Cina si trovava ancora nella sua prima fase di accumulazione capitalistica, la Russia allora ne usciva, per aprirsi sempre più al mercato mondiale, tendendo a sviluppare l’aziendalismo privato al posto di quello statale. Fu allora, quando gli scontri di bottega sui prezzi tra i due “paesi fratelli” divennero stridenti, che la “cricca russa” kruscioviana che aveva “detronizzato” Stalin al XX congresso del 1956 divenne per Mao, improvvisamente, “revisionista” e il baffone detronizzato diventò invece il punto di riferimento teorico. In quella determinata situazione di isolamento sul piano dei rapporti economici e di grave crisi economica interna, fu “teorizzata” la necessità (facendo di essa una “virtù”) di marciare con “le proprie gambe”, di contare “sulle proprie forze”.

 

Rivoluzione culturale e teoria della conoscenza

La “Rivoluzione culturale” venne presentata anche come una sorta di “correttivo” o di “incentivo” a superare precedenti errori sul piano pratico, rispetto a un'economia avviata, o addirittura già “arrivata”, al socialismo o anche rispetto a precedenti errori sul piano strettamente teorico. Fu, insomma, una sorta di “educazione culturale” rivolta al popolo da parte dello “stato socialista” cinese e in particolare del partito che ne era alla guida – educazione “culturale” condotta spesso a suon di interventi massicci dell’esercito contro le numerose rivolte operaie e di massacri coperti dal più stretto “segreto di stato”. E che esprimeva, tra l’altro, un vero imbonimento ideologico delle cosiddette masse, la concezione filosofica dello stesso Mao, sostenitore di una teoria della conoscenza fondata sull'“esperienza” e sulla “pratica” (concezione combattuta da Lenin nel suo noto scritto contro l’empiriocriticismo), adatta all’esaltazione dello spontaneismo, del populismo e dell'operaismo (5). Ben lontana, dunque, dalla teoria della conoscenza marxista, della superiore visione oggettiva e scientifica della dinamica capitalistica. Una visione scientifica che non può essere “emanazione diretta” della classe operaia, né tanto meno delle generiche “masse popolari”, ma che va tratta e riconosciuta nelle leggi e nelle dinamiche di sviluppo del capitalismo, nell’urto inevitabile delle forze produttive contro i rapporti di produzione; o, in termini politici, nella rottura e nello scontro del proletariato contro l’organo politico posto a difesa dei rapporti di produzione, la roccaforte statale borghese. Teoria della conoscenza, il materialismo storico e dialettico, che, una volta “partorita” dalla storia (1848), può essere fatta propria e raccolta solo dall’organizzazione comunista, dal partito, che la “esporta” (per usare l’espressione di Lenin) verso gli strati più avanzati dei proletari allo scopo di fronteggiare e dirigere nel modo migliore lo scontro storico frontale e mondiale contro il capitalismo e tutti i suoi sostenitori.

 

Per il marxismo, inoltre (lo affermiamo per inciso), l’ultima “cultura” di classe di cui si dovrà ancora storicamente parlare rimarrà quella stessa borghese, legata allo sviluppo del capitalismo: la divisione del lavoro, la tecnica, i rapporti stessi tra gli uomini che si sono formati e sviluppati per alcuni secoli sulla sua base. Lo Stato della dittatura del proletariato, una volta instaurato, farà senz’altro a meno di una “cultura proletaria”, emanazione di un “ordine proletario”, in sostituzione di quella borghese: essendo suo scopo quello non di riprodurre, superata la fase della transizione, un nuovo dominio di classe, sia pure quello proletario, ma di eliminare le classi stesse, il lavoro salariato, la merce, ecc., quindi lo stesso Stato proletario, e ogni cultura classista. Una cosa è fare affidamento sulla lotta e sugli interessi politici mondiali di classe del proletariato, in quanto organizzato nello Stato proletario e diretto dal suo partito, nel suo programma storico contro il capitalismo mondiale; un’altra cosa è contare su una pretesa sua “nuova cultura”, con le sue tradizioni nazionali, in quanto nuova “classe dominante”. Cultura e prospettiva questa, buona per teorici alla Gramsci, per i quali l’“ordine nuovo” futuro ipotizzato era quello del proletariato organizzato in quanto classe non dittatoriale, ma “egemone” della nazione: una nuova classe nazional-popolare, col compito di dirigere ed educare “culturalmente” anzitutto se stesso (in quanto “competente produttore”) e, gradualmente, anche il “popolo” e la stessa “arretrata” borghesia nazionale. Teoria che il pratico, nonché concreto venditore di fumo (e della pelle dei proletari) Togliatti, si incaricherà poi di tradurre in soldoni, dopo lo sbarco a Salerno del 1943, in difesa della amata “ricostruzione nazionale”: per conto non certo degli interessi di un proletariato “egemone o dirigente”, messo invece da subito alla catena, ma di quelli della grande borghesia, espressa allora dagli alleati e dai suoi partiti affiliati (fin a quando questi non gli daranno il benservito, con la classica pedata al solito posto) – al servizio, insomma, del Capitale.

 

L’incontro Mao-Nixon del 1972, mentre continuavano ancora i bombardamenti USA contro la popolazione vietnamita, rappresentò la volontà del capitale cinese di entrare, come aspirante Stato imperialista e sotto le vesti pompose di “grande nazione socialista”, nella cerchia dei potenti, nel mercato unico mondiale, vantando ed esibendo, nell’occasione, la dotazione ormai bene avviata di una formidabile industria pesante, siderurgica e metallurgica, come base per uno sviluppo economico “più completo”, e di relazioni commerciali di rilevante portata che avrebbero avuto i loro sicuri risultati negli anni a venire. Per sfruttare più “razionalmente” la propria ricchezza nazionale e, soprattutto, nelle galere aziendali, il proprio proletariato, si trattava di cominciare a fare decisamente appello al potenziale tecnologico e bancario del capitalismo estero e anzitutto di quello più “evoluto”. Sarebbe sbocciata così finalmente la teoria dei “Cento fiori”, tanto sospirata, evocata e poi soffocata negli anni '50, sempre mescolata al culto (caro al maoismo) della superproduzione e del duro lavoro, versione cinese dello stakhanovismo russo. Veniva sempre più buttata al macero, intanto, la decantata “lotta dei popoli” (quella dei proletari era già stata cancellata con la sconfitta degli anni ‘20) e, in omaggio della gelosa “conservazione e preservazione” dei “caratteri socialisti” dello stato cinese (da non “intaccare” più con avventate …aggressioni), venivano appoggiati gli Stati più reazionari, amici degli USA. Tanto che allora il giornale trotskysta Lutte ouvrière poteva scriveva della Cina come “futura guardiana della pace americana in Asia” (6).

 

Mentre nel 1949 il PCC fu espressione e fautore dell’accumulazione iniziale del capitale nel quadro di una chiara rivoluzione borghese a base sociale contadina, oggi lo stesso PCC, veicolo dello sviluppo successivo del capitalismo cinese, è agente e controllore di un capitalismo ormai giunto nella sua fase imperialista. Fautore della fase rivoluzionaria borghese prima, della fase riformista dopo (nel suo sforzo di regolare e conciliare in qualche modo gli interessi della varie classi nella loro evoluzione e sottomissione reale al grande capitale), oggi il PCC si trova sempre più a rappresentare gli interessi del grande capitale monopolistico, finanziario e militare, nella sua espressione sempre più privata e sempre meno statale sul piano della gestione diretta aziendale. Come nelle vecchie potenze capitalistiche, esso esprime ormai soprattutto il carattere di un capitalismo giunto alla sua fase imperialista. Non più una funzione rivoluzionaria in senso borghese, di sradicamento di vecchi rapporti di produzione, come ancora nella stessa epoca maoista; non più animatore di una fase riformista liberalizzatrice e di forte espansione, come nei primi decenni dopo la “svolta“ di fine anni ’70; ma sempre più espressione dei settori del capitalismo più concentrato e produttivo, proprio perché a gestione più liberale e meno statale e della necessità di una loro più forte regolazione e centralizzazione dall’alto, anche se con una minore gestione statale diretta (7). Uno stesso partito, dunque, il PCC, rappresentante fasi diverse del cammino impetuoso e travagliato del capitalismo cinese, concentrate in pochi decenni, in rapporto agli stessi rivali imperialisti – fasi che, comunque siano state interpretate da ideologi, intellettuali e politicanti pseudo rivoluzionari, mai hanno avuto a che vedere né con una reale prospettiva né tanto meno con una “realizzazione” del socialismo, se non nella ossessiva quanto terroristica mistificazione ideologica. Non cambiamenti di partiti e di governo, dunque, né tanto meno la volontà o una visione educazionista e popolare di un Mao qualunque: altro ennesimo presunto realizzatore, creatore, artefice della storia, intesa, nella sua prospettiva storica futura, non come espressione del dispiegamento e della vittoria della lotta di classe proletaria internazionale, ma come una continua, abile, “mediazione e conciliazione” con tutte le altre classi.

 

Paradossalmente, potremmo dire che è proprio in questa ultima fase, di più completo sviluppo del capitalismo e di aperta fase imperialista, anziché nelle fasi precedenti, che la Cina si trova “più vicina” al socialismo, al pari delle stesse grandi e vecchie potenze imperialiste. Il socialismo, infatti, prodotto dello sviluppo quantitativo delle forze produttive capitaliste, è il rovesciamento rivoluzionario di quello stesso sviluppo spinto fino al punto di rottura. A questo fine, sono però necessarie la direzione cosciente e internazionale del partito, la rivoluzione socialista, la dittatura proletaria – unici eventi e forze che possano finalmente sistemare e gestire quel processo rivoluzionario a fini sociali, per l’intera specie umana.

 

Negli articoli successivi, ripercorreremo questa lunga vicenda, che (in senso negativo per le sue ricadute sia ideologiche che pratiche) è stata così rilevante, e continua a esserlo, per l'oggi e per il domani della preparazione rivoluzionaria.

 

 

 

 

NOTE

 

(1) Sui fatti di Shangai e Canton e sul ruolo dello stalinismo, rimandiamo ai molti nostri lavori sul tema, tra cui il più recente in Il programma comunista, n. 2/2007.

(2) Per una storia generale della Cina fino al 1949, cfr. “Le suggestive lezioni della grande storia della rivoluzione cinese”, Il programma comunista, nn.5-6/1958.

(3) Cfr. Marx, Critica del programma di Gotha (1875).

(4) Cfr. ad es. Lenin, Le due tattiche della socialdemocrazia (1905).

(5) Sul pensiero filosofico di Mao, cfr. in particolare “Che cosa resta del marxismo nel pensiero di Mao”, Il programma comunista, nn.13-21/1971, 6-10/1972; e “Ancora sul 'pensiero di Mao', Il programma comunista, nn.19-24/1973, 1-5/1974.

(6) Cfr. il n.151 del luglio 1971.

(7) “Diventano sempre più rare le operazioni di finanziamento che non assista lo Stato, o con una speciale legge, o attraverso uno dei tanti organi parastatali, che pesano sul suo bilancio direttamente (ciò vuol dire su prelievi dal lavoro di tutta la popolazione) e nelle quali una parte del capitale (o, il che è lo stesso, una parte del servizio degli interessi e quote di ammortamento) non ricada sullo Stato. Il giro del capitale, che nella dottrina marxista è per definizione originaria fatto sociale rispetto alle forme storiche di giro privato della ricchezza, diventa sempre più giro pubblico. […] è facile concludere che anche alle economie di occidente può applicarsi la definizione, che si pretende socialista: Non avviene investimento a meno che lo Stato o lo operi, o vi contribuisca, o lo autorizzi, o si assicuri tutti gli elementi per registrarlo ed annotarlo….” (Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, Ed. Il programma comunista, pag.569)

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2014)

 

 
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  • Dove va la resistenza palestinese? (II)(Il Programma comunista, n°18, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (III)(Il Programma comunista, n°19, 1977)
  • Il lungo calvario della trasformazione dei contadini palestinesi in proletari(Il Programma comunista, n°20-21-22, 1979).
  • In rivolta le indomabili masse sfruttate palestinesi ( E' nuovamente l'ora di Gaza e della Cisgiordania)(Il Programma comunista, n°8, 1982)
  • Cannibalismo dello Stato colonialmercenario di Israele(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Le masse oppresse palestinesi e libanesi sole di fronte ai cannibali dell'ordine borghese internazionale(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • La lotta delle masse oppresse palestinesi e libanesi è anche la nostra lotta- volantino(Il Programma comunista, n°13, 1982)
  • Per lo sbocco proletario e classista della lotta delle masse oppresse palestinesi e di tutto il Medioriente(Il Programma comunista, n°14, 1982)
  • La lotta nazionale dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Sull'oppressione e la discriminazione dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°19, 1982)
  • La lotta nazionale delle masse palerstinesi nel quadro del movimento sociale in Medioriente(Il Programma comunista, n°20, 1982)
  • Il ginepraio del Libano e la sorte delle masse palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1984)
  • La questione palestinese al bivio ( Il programma comunista, n°1, 1988)
  • Il nostro messaggio ai proletari palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1989)
  • Una diversa prospettiva per le masse proletarie (Il programma comunista, n°5, 1993)
  • La questione palestinese e il movimento operaio internazionale ( Il programma comunista, n°9, 2000)
  • Gaza, o delle patrie galere (Il programma comunista, n. 2, 2008)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • A Gaza, macelleria imperialista contro il proletariato ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • Il nemico dei proletari palestinesi è a Gaza City ( Il programma comunista, n°1, 2013)
  • Per uscire dall’insanguinato vicolo cieco mediorientale (Il programma comunista, n° 5, 2014)
  • Guerre e trafficanti d’armi in Medioriente (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • Gaza: un ennesimo macello insanguina il Medioriente-Volantino (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • L’alleanza delle borghesie israeliana e palestinese contro il proletariato (Il programma comunista, n°6, 2014)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario  ( Il programma comunista, n°3, 2021)
  • A fianco dei proletari e delle proletarie palestinesi! ( Il programma comunista, n°5-6, 2023)
  • Il proletariato palestinese nella tagliola infame dei nazionalismi ( Il programma comunista, n°2, 2024)
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