DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Mentre scriviamo (primi di settembre), l'attacco alla Siria promesso dal “pacifista” Obama con al seguito lo scodinzolante “socialista” Hollande, nostalgico di trascorsi fasti imperiali francesi, non s'è ancora concretizzato. Ma poco importa. Gli ultimi venti anni sono stati un'agghiacciante sequenza pressoché ininterrotta di guerre sanguinose, di massacri di popolazioni civili, di aperto terrorismo statale anti-proletario. Se e quando l'attacco si dovesse verificare, e in che modo (“limitato” o “esteso”, nel cinico linguaggio dei comandi militari e della politica guerrafondaia), esso non sarebbe altro che l'ulteriore anello di una catena di fuoco che da tempo stringe alla gola il proletariato mondiale, avvicinandosi ogni giorno di più alle cittadelle del capitalismo.

 Tutta la fascia nord-africana e mediorientale del Mediterraneo, dalla Tunisia alla Siria, è ormai un unico campo di battaglia – una mezzaluna devastata dalle più sofisticate tecnologie di distruzione – , e da essa, quando le insanabili contraddizioni di un modo di produzione in agonia dovessero precipitare, può scoccare la scintilla di un incendio ben più mostruoso di quello di un conflitto locale o di area. Al di là della Siria, verso est, si stendono poi altri campi di battaglia attuali o potenziali, fino a quell'Estremo Oriente dove, appena sotto la superficie, sonnecchiano ulteriori tensioni che potrebbero diventare ingestibili.


Questo è il mondo che ci offre (e che offre alle giovani generazioni) il capitalismo attanagliato dalla propria crisi: un mondo dominato da guerre sempre più micidiali. Ma la guerra, per chi non ha perso la memoria, è la condizione “naturale”, quotidiana, della vita del mondo borghese: la guerra di tutti contro tutti. Il mondo borghese è intriso di violenza: su di essa s'è costruito e affermato e con essa ha difeso e difende la propria esistenza e il proprio potere. Quando le sue contraddizioni toccano il limite, il punto di non ritorno, il passaggio dalla “pace” alla guerra aperta è inevitabile: ce lo insegnano due guerre mondiali e un'infinità di guerre locali nel corso dell'ultimo secolo. In altra parte di questo giornale, ricordiamo che “la guerra capitalistica è distruzione di surplus e ricostruzione”: è l'affare supremo, che permette al capitale di uscire dal vicolo cieco della crisi di sovrapproduzione di merci e capitali e di riprendere a funzionare a pieno regime.


In questi giorni di attesa del “via!” al conflitto dichiarato da parte di una congrega di banditi contro un'altra, qualche pennivendolo ha scritto (cfr. il Corriere della Sera del 3/9) che, secondo il Capo di Stato Maggiore USA Dempsey, “ogni giorno di guerra può costare un miliardo di dollari“. “Costare”? Ma “costare” vuol dire che da qualche parte quel miliardo di dollari va pure a finire: all'industria delle armi, innanzitutto, e poi a tutte le industrie collaterali, a tutto ciò che la guerra comporta – dai viveri ai trasporti alle calzature alle infrastrutture di ogni genere, a tutte le infinite ricadute civili oltre che militari. Un miliardo di dollari al giorno! Un'autentica pacchia per risollevare l'economia che stenta a ripartire.


Si dirà: “Ma Assad...” Sì, Assad! Il regime siriano, che affama e massacra le proprie masse proletarie o in via di proletarizzazione, gestisce un capitalismo in ascesa che è strettamente collegato al capitalismo mondiale (e non solo a quello degli “amici” russi o iraniani, come vorrebbe un idiota “antimperialismo a senso unico”). Abbiamo già documentato (cfr. Il programma comunista, n.4/2012) come i dati dell'export-import siriano parlino chiaro: un export diretto in primo luogo verso l'Europa e in secondo luogo verso (sorpresa!) l'area nord-americana del NAFTA, e un import che vede al primo posto (altra sorpresa!) il grano statunitense. E' la dimostrazione che, in regime capitalistico, i buoni affari si fanno con tutti, “amici” e “nemici”: poi, quando è necessario, li si abbatte. Cinismo? Chiamatelo così, se volete fare del moralismo: per noi comunisti si tratta di leggi economiche, dell'estensione al livello geo-storico mondiale della legge del valore e del profitto.


E’ una guerra fra banditi: e se qualcuno fa mostra di volersi opporre a essa (Russia, Cina) o se ne sta in disparte (Germania), lo fa solo per tutelare i propri buoni affari (quanto all'Italia, si sa, è sempre pronta a vendersi al miglior offerente). Ma la guerra capitalistica è anche guerra al proletariato, estremizzazione di quel conflitto che si verifica quotidianamente sul luogo di lavoro e di non-lavoro, con l'estrazione di plusvalore, con lo sfruttamento bestiale di masse enormi di salariati, con l'espulsione di altre grandi masse dal processo produttivo, con la loro condanna all'emigrazione o alla sopravvivenza più stentata, con quella “miseria crescente” che solo gli imbecilli rifiutano di vedere, mentre ogni giorno di più essa massacra l'esistenza di masse proletarie e proletarizzate ovunque nel mondo.


Negli ultimi tre anni abbiamo assistito a moti di rivolta diffusi in quella fascia nord-africana del Mediterraneo: moti all'origine squisitamente proletari (Tunisia, Egitto), ma che subito sono stati sviati e incastrati nel labirinto di rivendicazioni democratiche dalla comparsa sulla scena di fazioni borghesi e di quelle bastardissime mezze classi che non hanno una testa propria, ma costituiscono la feccia della società borghese, il suo materiale di scarto, la puzzolente schiuma galleggiante.

Deviato e annullato il moto proletario, quelle che tanti idioti si sono precipitati a osannare come “rivoluzioni” si sono ritrovate nel vicolo cieco della propria impotenza e hanno spalancato la porta alla violenta “normalizzazione”: dall'interno come dall'esterno, il pugno di ferro s'è abbattuto sulle masse proletarie e proletarizzate.


L'intervento militare in Libia, con la punta di diamante costituita dal capitalismo francese in cerca di affermazione in un'area così vicina e per esso preziosa, non ha avuto tanto l'obiettivo di toglier di mezzo il burattino Gheddafi, quanto di inserire un cuneo di ferro e fuoco fra Tunisia ed Egitto nel momento in cui poteva crearsi una saldatura tra i moti proletari dei due paesi, con il pericolo che dilagassero poi verso est, verso i territori del Medioriente da decenni in fiamme, spingendo anche quelle masse (arabe e palestinesi in primo luogo, ma non solo) verso una prospettiva finalmente non più solo nazionale e nazionalista.


I “fatti di Siria”, come abbiamo documentato abbondantemente nei numeri scorsi di questo giornale, vanno in questa direzione. Il pretesto, sempre più cinico e schifoso (le “armi di distruzione di massa”), può solo abbindolare i gonzi che credono fermissimamente nella “missione” di questa o quella Nazione di portare in giro per il mondo, appollaiate sul mirino dell'ultimissima arma tecnologica, “giustizia, pace, democrazia”, o lasciare a bocca aperta nella vaga percezione della propria imbecillità quegli altri gonzi che non hanno cessato di credere e inneggiare al “pacifismo” di Obama o al “socialismo” di Hollande.


I venti di guerra soffiano sempre più forti. Tutte le volte che abbiamo ricordato l'inesorabile tendenza del capitale a risolvere con la guerra le proprie contraddizioni giunte al limite ci siamo sentiti accusare di essere delle Cassandre e dei visionari. E' ora che i proletari di ogni paese aprano invece gli occhi su quella che sta diventando sempre più una prospettiva realistica, accelerata dalle dinamiche stesse della crisi di sovrapproduzione di merci e capitali – una crisi che oggi sta distruggendo una dopo l'altra credenze e illusioni, “garanzie” e “riserve”, che sta macinando le vite di innumerevoli proletari nel tritacarne del modo di produzione capitalistico.


A tutto ciò, e al suo sanguinario sbocco finale, si può porre un baluardo solo riprendendo con decisione la via della lotta di classe aperta contro la propria borghesia, nel rifiuto deciso, senza esitazioni, cautele e incertezze, di accettare sacrifici per il bene superiore della Nazione, di cadere nell'inganno del “nemico alle porte”, di schierarsi con questo bandito contro quest'altro, di contribuire a ogni sforzo bellico: sabotandolo anzi sul luogo di lavoro oggi e sui campi di battaglia domani. Altro che preghiere, digiuni, bandiere della pace e lamentevoli processioni!


 

L'unica guerra di cui il proletariato mondiale può e deve farsi carico, nella convinzione della sua necessità per farla finita per sempre con questo mostro sanguinario che massacra uomini, donne, vecchi e bambini a ogni angolo del globo, è la guerra di classe, per la rivoluzione comunista e la dittatura del proletariato. A questa prospettiva lavoriamo noi del Partito comunista internazionale.

 

Partito Comunista Internazionale

 

(il programma comunista n°05 - 2013) 

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