DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Ricordate? Dicevano che “questo è pur sempre il migliore dei mondi possibili”, che “lo stato sociale ha annullato le differenze”, che “la globalizzazione ha portato benessere ovunque”, che “la classe operaia è in paradiso” e “il proletariato non esiste più”, che “la lotta di classe è superata” (e, dopo il crollo del muro di Berlino e dell'URSS, che “il comunismo è morto”). Erano sociologi e politici, economisti e opinionisti, filosofi e giornalisti, rappresentanti della destra, del centro e della “sinistra” – tutti a gareggiare nello spargere a piene mani falsa coscienza, illusioni e delusioni. In una parola, fuffa.

Noi abbiamo sempre combattuto queste porcherie. L'abbiamo fatto richiamandoci alla nostra teoria e alla nostra prassi, alla nostra storia e alla nostra tradizione, salde e inossidabili sull'arco di oltre centocinquant'anni, e soprattutto ribadite e confermate dalla realtà. Grazie a esse, abbiamo dimostrato che il modo di produzione capitalistico contiene la crisi nel proprio DNA, che lo “stato sociale” è solo una delle strategie con cui, in epoca di espansione economica, il capitale sottomette a sé la classe sfruttata grazie a briciole che poi si riprende al primo segno di contrazione, che il processo di proletarizzazione è costante e accompagna l'estendersi del mercato mondiale, che la lotta di classe è incessante perché incessante è l'antagonismo fra capitale e lavoro. E che in URSS come altrove non esisteva nessun comunismo, ma capitalismo nudo e crudo, più o meno avanzato, più o meno di stato.

A metà anni '70 del ‘900 è arrivata la prima grande crisi di sovrapproduzione di merci e capitali (da noi prevista fin dagli anni ’50, grazie allo studio critico proprio di quella realtà che sembrava smentire l’evoluzione naturale del Capitale), e ha chiuso la fase di accumulazione resa possibile dalle immani distruzioni della seconda carneficina mondiale: per i successivi quattro decenni, una crisi si è succeduta all'altra, e tutte le strategie del capitale per farvi fronte hanno solo creato i presupposti per crisi successive ancor più gravi e profonde, estese e devastanti. Non solo il processo di proletarizzazione s'è accelerato (Asia, Africa, America Latina), ma le condizioni di vita e di lavoro dei proletari di tutto il mondo, “paesi del benessere” compresi, non hanno fatto che peggiorare: il concetto di “miseria crescente” non ha infatti nulla a che vedere con la possibilità di comprare questo o quel gadget ultra-moderno (la lavatrice, l'automobile, il televisore, il telefonino, ecc.), ma indica il divario fra ricchezza accumulata a un polo e progressivo annullamento di ogni riserva, all'altro. Intanto, lo “stato sociale” veniva smantellato, lo Stato si rivelava per quello che è (il braccio armato del capitale), le “garanzie” (strappate sempre e comunque con la lotta, e mai graziosamente concesse o regalate) si dissolvevano come neve al sole, le nuove riforme servivano solo a cancellare le vecchie, giganteschi flussi migratori spinti dal dissesto dell'economia investivano tutti i paesi, le guerre commerciali s'acuivano e quelle guerreggiate devastavano aree preziose dal punto di vista energetico e strategico – e cresceva il… “tasso di civiltà”: la violenza domestica contro donne e bambini, l’odio per il più debole o lo “straniero”, gli scoppi di follia omicida, la disperazione e i suicidi, l’ottundimento dei sensi nella droga chimica o religiosa, il ripiegamento in un cinico quanto vuoto egoismo e localismo, l’assoluto mal di vivere di individui e gruppi... Bel mondo, non c'è che dire.

Ma questo è il mondo del capitale. Noi comunisti non lo demonizziamo: ne abbiamo riconosciuto ampiamente i meriti storici, nel necessario passaggio dal Medioevo alla cosiddetta “età moderna”. Diciamo però che così stanno le cose, specie nella fase terminale, agonica, di questo modo di produzione, e che la sua agonia è destinata a far marcire ogni cosa – nell'economia, nella società, nella vita materiale, nella cultura. Diciamo che è ora di seppellirlo, perché, se non lo si fa, non solo l'imputridimento e l’abbrutimento “civile” diventeranno tremendi, ma s’accompagneranno a un'ulteriore catastrofe collettiva: una nuova carneficina mondiale – non più un'altra guerra lontana, ma un conflitto generale, l'ultima carta in mano alla classe dominante per eliminare ciò che ha prodotto in eccesso.

Attraverso tutti questi decenni maledetti, il proletariato mondiale non ha accettato passivamente questo stato di cose. S'è battuto, ha cercato di vender cara la propria pelle, di rispondere agli attacchi diretti e indiretti. Ma l'ha fatto in maniera esasperata, istintiva, disorganizzata, senza una direzione, cedendo presto ai richiami delle molte sirene. Non poteva essere altrimenti: negli ultimi ottant'anni, l'azione convergente di forze politiche diverse, la tenaglia rappresentata dalle molte strategie di comando della borghesia (democrazia, nazifascismo, riformismo di varia specie e natura), il devastante tradimento perpetrato dallo stalinismo (una delle forme in cui si è espressa la controrivoluzione borghese) hanno privato il proletariato della sua testa, il partito rivoluzionario; e così l'hanno costretto e convinto a muoversi, anche quando lottava, entro i recinti stretti dello status quo, senza mai mettere in discussione l'ordine e la legge, lo stato dell'economia e la santità dello Stato, delle sue istituzioni, delle sue guardie armate, delegando ad altri (i suoi nemici, i suoi traditori) la soluzione dei problemi, chiedendo invece di imporre con la forza, subendo le illusioni sparse a piene mani invece di ricostruire la propria identità e autonomia di classe.

Oggi, mentre nubi sempre più nere e gonfie incombono all’orizzonte vicino, emerge sempre più forte (anche se può non apparire ancora a occhi velati da troppi inganni) il bisogno impellente di comunismo, di un diverso e superiore modo di produzione, le cui premesse materiali esistono già oggi, ma sono soffocate dalla camicia di forza della società di classe – il bisogno impellente di un’organizzazione sociale che faccia uscire l’umanità dall’abbrutimento di questa lunga, tremenda preistoria, che le faccia vivere finalmente la propria armoniosa storia di specie, senza privilegi e conflitti di classe perché senza classi, senza denaro, senza profitti – in una società in cui, come si legge nel capitolo “Proletari e comunisti” del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels, “il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti”.

Sempre più chiaramente, dunque, la palla torna ai proletari e a noi comunisti. Per difendersi dall’attacco, i primi saranno costretti a riprendere la via della lotta aperta, intransigente, insofferente di “compatibilità” ed “esigenze superiori”, di “gioco democratico” e “necessità aziendali”. E, nel corso di questa lotta, di queste lotte destinate a sprigionarsi di nuovo a livello mondiale, riconosceranno i propri nemici, sindacali e politici; sentiranno sulla propria pelle il ruolo di agente armato al servizio del Capitale dello Stato; sentiranno il bisogno di una propria organizzazione di difesa e di una direzione esperta, maturata in decenni di battaglie sul campo, teoriche e pratiche. Toccherà ai secondi, a noi comunisti, fornire questa direzione, entrando in quelle lotte, organizzandole e indirizzandole, dirigendole contro tutti i nemici e i traditori del proletariato e del comunismo, contro lo Stato e la sua sbirraglia legale e illegale, per portarle oltre i limiti della guerriglia di difesa, necessaria ma insufficiente: verso la presa del potere e l’instaurazione della dittatura del proletariato.

Sempre quel capitolo del Manifesto del Partito Comunista ci ricorda: “I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni dell’intero proletariato che sono indipendenti dalla nazionalità; d’altro lato, per il fatto che, nei vari stadi di sviluppo che la lotta fra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo”.

In queste poche righe è racchiuso l’enorme senso storico della battaglia che conduciamo da più di un secolo e mezzo, che solo i proletari rivoluzionari organizzati in partito hanno saputo condurre in maniera conseguente e intransigente. Che questo Primo Maggio 2013 segni l’inizio della riscossa proletaria e comunista. E’ il nostro augurio, ed è il nostro impegno.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2013)

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