DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

L’eguaglianza democratica è una chimera, la lotta dei poveri contro i ricchi non può essere combattuta sul terreno della democrazia o della politica.

(F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, 1844)

 

Il comunismo non inventa niente: utilizzando il metodo della dialettica materialistica (che, a sua volta, non è un'invenzione, ma la legge generale di quel mondo materiale, la natura, di cui la nostra specie fa parte), il comunismo svela ciò che l'ideologia della classe dominante nasconde con l'enunciazione di concetti assoluti che attraverserebbero, sempre uguali a se stessi, le vicende umane. Le pagine che riportiamo, estratte dal famoso Anti-Dühring in cui F. Engels espone con chiarezza e rigore, in forma di risposta critica, le linee dorsali fondamentali del comunismo, riguardano una delle più gettonate “conquiste” dell'imperante borghesia: l'uguaglianza degli esseri umani, ridotti ad astratti “cittadini”. Ma non si limita a questo: come sempre, il comunismo non si limita alla critica, ma è un'arma – un'arma particolare al servizio ed espressione di una classe storicamente determinata, la nostra, il proletariato, l'insieme di tutti noi che per campare non possiamo far altro che vendere la nostra forza lavoro. Facciamo bene attenzione: quel che siamo costretti (nessuno può evitarlo...) a vendere non è un lavoro astratto, particolare, ma la ben concreta possibilità, per chi la compra, di utilizzare per un tempo stabilito la nostra capacità di lavorare.

La necessità di uguaglianza, che ci stimola individualmente, a partire dalla constatazione elementare delle disparità sociali, diventa allora, su un piano immediato, istintivo, una rivendicazione collettiva: senza sterili ragionamenti, essa reclama, attraverso lotte economiche e sociali, la propria realizzazione in quanto “redistribuzione” di quella ricchezza che percepiamo, per l’appunto nell’immediato, come causa della diversità individuale e sociale. Ma il comunismo ci insegna che questa istintiva constatazione non basta a porre le basi di una vera e propria uguaglianza tra gli esseri umani: diviene anzi solo un'illusione, che mantiene in vita i rapporti sociali del modo di produzione capitalistico alla base della “disuguaglianza borghese”. Un migliore salario (per di più, spacciato come “reddito”) rimane infatti comunque espressione del lavoro salariato, del rapporto mercantile tra gli uomini, del monopolio borghese della proprietà dei mezzi di produzione e dei prodotti.

L'illusione, praticata e diffusa a mani basse dal riformismo di ogni colore e origine, è una delle colonne (anzi: delle catene!) del contemporaneo dominio della borghesia imperialista, con tutte le tragedie che ne conseguono per noi, per il nostro pianeta e per tutti gli altri suoi abitanti.

L'uguaglianza che il comunismo rivendica e indica non è un'aspirazione, ma una soluzione operativa. E' la realizzazione di un percorso rivoluzionario, che, a partire dall'abbattimento di tutte le istituzioni dello stato borghese e attraverso l'instaurazione del dominio esclusivo della nostra classe organizzata in partito, stravolge le forme che imprigionano oggi tutte le potenzialità del lavoro associato. La nostra uguaglianza non è (non sarà) dunque un'astrazione, ma l'espressione di rapporti sociali che non ridurranno l'insieme degli esseri umani a una sorta di sommatoria di individui giustapposti ed intercambiabili come le tessere di un immobile mosaico. L'uguaglianza sarà riassunta e superata in un mondo che legherà indissolubilmente le potenzialità di ogni appartenente alla nostra specie a quelle di tutti gli altri. Per dirla in breve (e passare quindi la parola a Engels), risponderà al principio: da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.

 

***

 

L'idea che tutti gli uomini in quanto uomini hanno qualche cosa di comune e che essi sono anche eguali nei limiti di questo elemento comune, è ovviamente antichissima. Ma assolutamente diversa da tutto questo è la moderna rivendicazione dell'eguaglianza; questa consiste invece nel dedurre da quella proprietà comune dell'essere umano, da quell'eguaglianza degli uomini in quanto uomini, il diritto ad un eguale valore politico, ovvero sociale, di tutti gli uomini, o almeno di tutti i cittadini di uno Stato, o di tutti i membri di una società. Prima che da quella originaria idea di una eguaglianza relativa si sia potuto trarre la conclusione di una eguaglianza dei diritti nello Stato e nella società, prima ancora che questa conclusione sia potuta apparire come qualche cosa di naturale e ovvio, dovevano passare millenni, e millenni sono passati. Nelle comunità più antiche, nelle comunità naturali si poteva parlare di eguaglianza dei diritti tutt'al più tra i membri della comunità; va da sé che donne, schiavi, stranieri ne erano esclusi. Fra i greci e fra i romani le disuguaglianze degli uomini avevano un peso molto maggiore di qualsiasi eguaglianza. Che greci e barbari, liberi e schiavi, cittadini e clienti, cittadini romani e sudditi romani (per usare un termine comprensivo) potessero pretendere parità di condizioni politiche, agli antichi necessariamente sarebbe parso pazzesco. Sotto l'impero romano tutte queste differenziazioni a poco a poco si dissolsero, ad eccezioni di liberi e schiavi, si originò di conseguenza, almeno per i liberi, quell'eguaglianza dei privati cittadini sulla cui base si sviluppò il diritto romano, la più perfetta costruzione a noi nota del diritto fondato sulla proprietà privata. Ma sino a quando sussistè la contrapposizione di liberi e schiavi, non si potè parlare di conclusioni giuridiche tratte dall'eguaglianza umana in generale; cosa che anche di recente abbiamo visto negli Stati schiavisti dell'Unione nordamericana.

Il cristianesimo conobbe solo una eguaglianza di tutti gli uomini, quella dell'eguale peccaminosità originaria, che era perfettamente adeguata al suo carattere di religione degli schiavi e degli oppressi. Oltre a questa tutt'al più conosceva l'eguaglianza degli eletti, che però fu accentuata solamente e unicamente agli inizi. Le tracce della comunione dei beni che si trovano del pari agli inizi della nuova religione si possono ricondurre molto più alla solidarietà tra i perseguitati che a vere idee di eguaglianza. Ma ben presto, stabilitasi la contrapposizione tra preti e laici, anche questo inizio di eguaglianza cristiana ebbe fine. L'invasione dell'Europa occidentale da parte dei germani eliminò per secoli l'idea di eguaglianza, costruendo a poco a poco una gerarchia sociale e politica in una forma così complicata quale sino allora mai era esistita; ma ad un tempo introdusse nel movimento storico l'Europa occidentale centrale, creò per la prima volta una compatta zona di civiltà e per la prima volta creò su questo territorio un sistema di Stati prevalentemente nazionali che esercitavano l'uno sull'altro una mutua influenza e che mutuamente si tenevano in scacco. Con questo essa preparò il terreno sul quale, solo in più tarda età, si potè parlare di eguaglianza umana e di diritti dell'uomo.

Il medioevo feudale sviluppò inoltre nel suo seno la classe che era chiamata, nel suo sviluppo ulteriore, a diventare la depositaria della moderna rivendicazione dell'eguaglianza: la borghesia. Dapprima ceto feudale essa stessa, la borghesia aveva sviluppato l'industria prevalentemente artigiana e lo scambio di prodotti ad un grado relativamente alto entro la società feudale, quando, alla fine del XV secolo, le grandi scoperte marinare le apersero una carriera nuova e più vasta. Il commercio extraeuropeo, sinora esercitato solo tra l'Italia e il Levante, fu esteso all'America e all'India, e presto sorpassò in importanza tanto lo scambio dei singoli paesi europei tra di loro, quanto il traffico interno di ciascun paese singolo. L'oro e l'argento dell'America inondarono l'Europa e penetrarono come un elemento disgregatore in tutti i vuoti, le fessure e i pori della società feudale. L'industria artigiana non fu più sufficiente per i bisogni crescenti e nelle industrie principali dei paesi più progrediti fu sostituita dalla manifattura.

A questo imponente rivoluzionamento delle condizioni economiche di vita della società, tuttavia, non seguì affatto immediatamente un cambiamento adeguato della sua organizzazione politica. L'ordinamento statale rimase feudale, mentre la società diventò sempre più borghese. Il commercio su vasta scala, quindi specialmente il commercio internazionale, e ancor più il commercio su scala mondiale, esige liberi possessori di merci, non inceppati nei loro movimenti, che, come tali, siano provvisti di eguali diritti, che scambiano sulla base di un diritto eguale per tutti loro, almeno in ogni singolo luogo. Il passaggio dall'artigianato alla manifattura ha come presupposto l'esistenza di un certo numero di liberi lavoratori, liberi, da una parte, da vincoli corporativi e, dall'altra, dai mezzi per utilizzare da se stessi la loro forza-lavoro, i quali possano contrattare con il fabbricante per l'affitto della loro forza-lavoro, e quindi essere di fronte a costui come contraenti aventi eguali diritti. E finalmente l'eguaglianza e l'egual valore di tutti i lavori umani, perché ed in quanto sono in generale lavoro umano, trovò la sua espressione più forte, anche se inconsapevole, nella legge del valore della moderna economia borghese, secondo la quale legge il valore di una merce viene misurato mediante il lavoro socialmente necessario in essa contenuto [Questa deduzione delle moderne idee di eguaglianza dalle condizioni economiche della società borghese è stata esposta per la prima volta da Marx nel Capitale]. Ma laddove i rapporti economici esigevano libertà ed eguaglianza di diritti, l'ordinamento politico opponeva loro, ad ogni passo, vincoli corporativi e privilegi particolari. Privilegi locali, tariffe doganali differenziate, leggi eccezionali di tutte le specie colpivano nel commercio non solo lo straniero o l'abitante delle colonie, ma abbastanza spesso anche intere categorie degli stessi cittadini dello Stato; privilegi corporativi sbarravano dappertutto e sempre la strada allo sviluppo della manifattura. Non c'era luogo dove la strada fosse libera e le possibilità eguali per i concorrenti borghesi: eppure questa era la prima e sempre più urgente rivendicazione.

La rivendicazione della liberazione dai vincoli feudali e l'instaurazione dell'eguaglianza giuridica mediante l'eliminazione delle disuguaglianze feudali: questa rivendicazione, non amenza, fu posta all'ordine del giorno dal progresso economico della società, assunse ben presto necessariamente dimensioni sempre maggiori. Ma se essa veniva posta nell'interesse dell'industria e del commercio, la stessa eguaglianza di diritti doveva essere rivendicata per la grande massa dei contadini, che in tutti i gradi della servitù, a partire dalla completa servitù della gleba, dovevano offrire gratuitamente la massima parte della loro giornata lavorativa al grazioso signore feudale ed inoltre pagare a lui e allo Stato anche innumerevoli tributi. D'altra parte non si poteva fare a meno di esigere che parimente venissero soppressi i privilegi feudali, l'immunità dalle imposte della nobiltà e i privilegi politici dei singoli ceti. E poiché non si viveva più un impero universale, come era stato l'impero romano, ma in un sistema di Stati indipendenti, le cui relazioni reciproche si muovevano su un piede di parità e nei quali lo sviluppo della borghesia era approssimativamente allo stesso livello, era naturale che la rivendicazione assunse un carattere generale che oltrepassava i limiti di singolo Stato e che libertà ed eguaglianza fossero proclamate diritti dell'uomo. Così per il carattere specificamente borghese di questi diritti dell'uomo è indicativo il fatto che la Costituzione americana, la prima che riconosca i diritti dell'uomo, confermi nello stesso tempo la schiavitù della gente di colore esistente in America: i privilegi di classe vengono banditi, i privilegi di razza santificati.

È noto però che la borghesia, dall'istante in cui, come farfalla dalla crisalide, vien fuori dallo stadio di borghesia feudale, dall'istante in cui da ceto medievale diventa classe moderna, sempre ed inevitabilmente è accompagnata dalla sua ombra, il proletariato. E parimenti le rivendicazioni borghesi dell'eguaglianza sono accompagnate dalle rivendicazioni proletarie dell'eguaglianza. Dall'istante in cui viene posta la rivendicazione borghese della soppressione dei privilegi di classe, accanto ad essa si presenta la rivendicazione proletaria della soppressione delle classi stesse: dapprima in forma religiosa, ricollegandosi al cristianesimo primitivo, più tardi poggiandosi sulle stesse teorie borghesi dell'eguaglianza. I proletari prendono in parola la borghesia: l'eguaglianza dev'essere attuata non solo apparentemente, non solo sul piano dello Stato, ma realmente sul piano sociale, economico. E specialmente da quando la borghesia francese, a partire dalla grande Rivoluzione, ha messo in primo piano l'eguaglianza civile, il proletariato francese le ha risposto colpo contro colpo, con la rivendicazione dell'eguaglianza sociale, economica, e l'eguaglianza è diventata il grido di guerra in modo speciale del proletariato francese.

La rivendicazione dell'eguaglianza ha così, sulle labbra del proletariato, un duplice significato. O, ed è quanto avviene specialmente nei primi inizi, per es. nella guerra dei contadini, è la reazione naturale contro le stridenti disuguaglianze sociali, contro il contrasto di ricchi e poveri, di signori e servi, di crapuloni e affamati; e come tale è semplicemente espressione dell'istinto rivoluzionario, e trova la sua giustificazione in questo contrasto e solamente in esso. O invece è sorta dalla reazione contro la rivendicazione borghese dell'eguaglianza e da questa trae esigenze più o meno giuste che la oltrepassano e serve come mezzo di agitazione per eccitare i lavoratori contro i capitalisti con le affermazioni proprie dei capitalisti, ed in questo caso essa si regge e cade con la stessa eguaglianza borghese. In entrambi i casi l'effettivo contenuto della rivendicazione proletaria dell'eguaglianza è la rivendicazione della soppressione delle classi. Ogni rivendicazione di eguaglianza che esce da questi limiti va necessariamente a finire nell'assurdo. Ne abbiamo dato esempio e ne troveremo ancora abbastanza allorché verremo alle fantasie avveniristiche del sig. Dühring.

Conseguentemente l'idea dell'eguaglianza, tanto nella sua forma borghese quanto nella sua forma proletaria, è essa stessa un prodotto storico e per la sua creazione sono state necessarie condizioni storiche determinate che, a loro volta, presuppongono, esse stesse, una lunga preparazione storica. È quindi tutto tranne che una verità eterna. E se oggi per il gran pubblico essa è chiara per se stessa, nell'uno e nell'altro dei suoi sensi, se, come dice Marx "ha già la solidità di un pregiudizio popolare" [Il Capitale, Libro Primo], questo non è effetto della sua verità assiomatica, ma della diffusione generale e della perdurante attualità delle idee del XVIII secolo. Se dunque il sig. Dühring si permette così di far muovere senz'altro i suoi famosi due uomini sul terreno dell'eguaglianza, ciò deriva dal fatto che questo appare assolutamente naturale al pregiudizio popolare. E infatti il sig. Dühring chiama naturale la sua filosofia, poiché essa parte semplicemente da cose che a lui appaiono assolutamente naturali. Ma perché gli appaiono naturali, è cosa che, invero, egli non si chiede.

 

(F. Engels, Anti-Dühring, 1878, Prima Parte, Cap.X: Morale e diritto. Eguaglianza)

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2013)

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