DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.


È inevitabile dover parlare ancora di acciaio, di distruzione dell’ambiente, di morti sul lavoro e intorno al lavoro. È la situazione oggettiva, la non-vita all’interno del modo di produzione capitalistico, a imporcelo. Quel vampiro che ha nome “Capitale” ha la sua essenza nella produzione per la produzione, nella produzione per il profitto, e principalmente nella produzione minerale: ossia, nella produzione di qualcosa che non si mangia. Esso esalta questa produzione, tra cui in gran parte quella dell’acciaio, e trascura la produzione per la sussistenza: quella organica, per il pane. Ogni prodotto è merce e in ogni merce vi è profitto: ma l’acciaio non è una merce come le altre. Con l’acciaio, si fabbricano le macchine per la produzione, le infrastrutture, le costruzioni per la produzione e l’approvvigionamento di materie prime, per la distribuzione delle merci, per la società capitalistica in generale.

 

 

 

C’è di più. L’acciaio, prodotto tipico e necessario della produzione minerale, è prodotto in scala sempre più allargata e veloce rispetto alla produzione agraria, che è vincolata da tempi più lunghi: è dunque indice eloquente di questa crescita esponenziale, della velocità e accelerazione della produzione minerale. Non basta: dell’acciaio, la produzione capitalistica ha bisogno per una ragione ancora più importante – non solo per estrarre profitto, nell’immediato, ma per mantenere in vita, storicamente, il sistema del profitto. È una questione di vita o di morte! Sua Maestà l’Acciaio può permettersi di chiedere tutto e tutto gli è dovuto: anche il sacrificio atroce di centinaia di migliaia, di milioni di proletari e la distruzione dell’ambiente.

 

 

 

La sopravvivenza del Capitale passa per questa distruzione: lo sanno bene i suoi agenti, per istinto di classe se non per conoscenza scientifica. È solo con l’acciaio dei suoi cannoni, delle sue portaerei e dei suoi bombardieri che il Capitale può trovare una soluzione alle ricorrenti crisi di sovrapproduzione. E una delle contraddizioni in cui si dibatte il Capitale sta proprio nel fatto che la sua crisi di sovrapproduzione è anche sovrapproduzione di acciaio, sovrapproduzione minerale, tipica della fase suprema del Capitale.

 

 

 

La direzione verso cui sta andando il Capitale nella sua folle corsa distruttiva è segnata. Dovremmo ancora mostrare i dati delle perizie tecniche eseguite nel territorio di Taranto per sostenere la giustezza delle nostre posizioni? Parlando delle condizioni di vita, di lavoro, di malattia e di morte dei proletari di Taranto, è proprio necessario ripubblicare ancora una volta quei dati, riferiti a tutte le categorie di proletari: giovani, occupati, disoccupati, donne, vecchi e bambini? Di una città intera, del territorio, della sua aria e delle sue acque per un raggio di almeno 20 km attorno all’acciaieria? D’altra parte, quale bel paradiso ci sarà, al di là di quei 20 km di raggio?!

 

 

 

Non è necessario. Quei dati sono di facile reperibilità e sono incontrovertibili. C’è solo da sorridere, sardonicamente, dei miseri tentativi di nasconderli. Sono dati che confermano la nostra teoria e la nostra azione agli occhi di coloro che vogliono vedere. Sono la certificazione ufficiale dell’evidenza, quando l’evidenza non era più negabile. Ma noi non andiamo cercando conferme ufficiali, non abbiamo bisogno di ricordare un’ennesima volta dati agghiaccianti. A noi interessa guardare oltre il dato bruto, e porre sempre la domanda: che fare? Per questo insistiamo che qualunque risposta deve basarsi su rapporti di forza favorevoli da conquistare sul campo di battaglia della lotta di classe: non appellandoci alla magistratura, non in un’aula giudiziaria o seduti a un tavolo con lo Stato, il governo, i padroni e i sindacati, ma a fianco dei proletari, nella loro difficile lotta quotidiana che deve anche scontrarsi con ricatti, illusioni, mistificazioni.

 

 

 

È lo Stato capitalista l’assassino. Qualunque sia il partito borghese a uscir vittorioso dalle urne, non si risolveranno i problemi ambientali e non si miglioreranno le condizioni di vita e di lavoro dei proletari tarantini. Tutti sono stati conniventi e silenziosi finché la verità non è venuta a galla, e se ora tutto è più chiaro è solo perché si sono accumulate troppe morti e troppa sofferenza, e certo non per opera dei magistrati

 

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. Prima dell’inquinamento e delle morti causate dalla “privata” Ilva, ci sono stati l’inquinamento e le morti per mano della “statale” Italsider, appartenente all’IRI e passata all’Ilva nel 1995. Al momento della costruzione dell’impianto Italsider da parte dello Stato (tra la fine degli anni ‘50 e i primi anni ‘60), per favorire gli interessi e la rendita dei proprietari dei terreni su cui doveva sorgere l’acciaieria fu ignorata la relazione dei tecnici che identificava in 10 chilometri la distanza minima dello stabilimento dalla città. Invece, lo stabilimento fu realizzato al confine della città, misurando 15 km quadrati: due volte tanto la città, l’uno a ridosso dell’altra. Un accordo con l’Unione Sovietica e l’ENI consentì poi il decollo dello stabilimento: Taranto forniva tubi ai sovietici e questi, in cambio, petrolio all’Italia. A ciò s’affiancherà l’importante accordo con la Fiat, che smetterà di prodursi l’acciaio in proprio e lascerà che a provvedere fosse l’Italsider.

 

Per almeno un decennio, l’Italia ha fame di acciaio e Taranto risponde: viene avviato il raddoppio dello stabilimento; nel 1981, lo stabilimento arriverà a fornire l’80 % della produzione Italsider, e direttamente o attraverso l’indotto succhierà pluslavoro a 43mila persone. Poi, è arrivato il conto da pagare: la quantità si è trasformata in “qualità”. Non si poteva sopportare oltre: ogni abitante di Taranto ha un morto in famiglia ucciso dall’acciaieria. Eppure, ancor oggi tutte le forze borghesi e la stragrande maggioranza delle organizzazioni pseudo-operaie continuano a ripetere che quella fabbrica non si può chiudere, usando come argomento la salvaguardia dei 20 mila salari pagati dall’Ilva in tutti i suoi stabilimenti, più i salari legati all’indotto. Ma, coscienti o meno, il vero interesse è la salvaguardia della fetta di profitto nazionale legato all’acciaio.

 

 

 

 

Acciaio e interesse nazionale. Nel 2011, l’Italia ha prodotto quasi 29 milioni di tonnellate d’acciaio: quasi il doppio della Francia e della Spagna e tre volte la produzione del Regno Unito (in Europa, solo la Germania ha prodotto di più: 44 milioni). E più o meno la metà dell’acciaio italiano proviene dall'Ilva di Taranto, l'acciaieria più grande d'Europa. La chiusura del solo stabilimento di Taranto determinerebbe un impatto negativo valutato oltre gli 8 miliardi di euro annui, imputabile per circa 6 miliardi alla crescita delle importazioni, per 1,2 miliardi al sostegno al reddito e ai minori introiti per l’amministrazione pubblica e per circa 500 milioni in termini di minore capacità di spesa per il territorio direttamente interessato.

 

L’Italia ha una produzione fortemente legata alla manifattura e alla cantieristica, dove la fanno da padrone soprattutto le aziende provenienti dall’IRI, ossia dalla pianificazione industriale statale di origine fascista, poi ereditata dalla repubblica democratica. Questa produzione ha nell’acciaio la sua materia prima. La stessa Ilva ha una lunga storia legata soprattutto alla produzione bellica, fascista e statale. E’ nata come società privata nel 1905 ma con forti sovvenzioni statali; poi è stata assorbita dalla Banca Commerciale nel 1921 e in seguito è stata ancora nazionalizzata sotto il controllo dell’IRI.

 

 

Un manifesto fascista degli anni ’30 propagandava: “Per l’autonomia nazionale del metallo”. Oggi, sono i vari Landini e lo stesso governo a prospettare la soluzione di tutti i problemi grazie alla nazionalizzazione dell’azienda in nome dell’interesse nazionale, pur di salvare la produzione, il profitto e la permanenza dell’Italia nel novero delle grandi nazioni industriali. D’altra parte, non possono tacere di fronte all’evidente tragedia di Taranto: e allora promettono bonifiche, purché la produzione continui! E sognano di emulare la capacità produttiva della Germania, con i suoi (pretesi) standard di qualità, possibili solo perché legati a un capitale molto più grande che si è potuto permettere molti investimenti, soprattutto statali

 

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. Ma Landini e soci dimenticano semplicemente che l’Italia non è la Germania: la bonifica delle acciaierie della Ruhr è costata 2 miliardi, pagati dallo Stato; per l’innovazione tecnologica dell’Ilva, tale da portarla agli standard europei, abbattere le emissioni di diossina e rendere inutili i parchi minerali che rilasciano polveri nell’ambiente, sarebbero necessari circa 4 miliardi di euro.

Ciò che viene richiesto a livello europeo è adeguare gli impianti alla migliore tecnologia disponibile (Best Available Techniques, BAT), cui tutti gli impianti europei dovrebbero uniformarsi. Ma, al di là della burocrazia mirante a uniformare le produzioni europee, nella realtà si combatte una guerra commerciale legata agli interessi di ogni nazione – guerra in cui l’acciaio ha un peso importante. La Germania ha ottenuto un prolungamento fino al 2018 per l’adeguamento alle BAT e vede naturalmente con favore le attuali difficoltà dell’ILVA. Secondo un esperto della società di analisi Wood Mackenzie, “Anche in Europa c’è ancora un grande eccesso di capacità, che spingerà le acciaierie a intraprendere un maggior numero di azioni di lungo termine, incluse chiusure definitive di impianti

 

3

 

 

.

 

Inoltre, nemmeno nel paradisiaco distretto siderurgico della Ruhr se la passano tanto bene: la ThyssenKrupp ha recentemente annunciato 2000 licenziamenti. Che i proletari tedeschi e italiani non si facciano dunque trascinare in questa contesa e respingano i ricatti del capitale nazionale: difendiamo i nostri interessi di classe e solidarizziamo con i proletari di altre nazioni, lottando prima di tutto contro la borghesia della nostra nazione.

 

 

 

Acciao e guerra. All’analisi storica della produzione siderurgica, il nostro Partito ha dedicato molti lavori, fra cui un testo fondamentale del 1950: “Sua Maestà l’acciaio”

 

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. In esso si legge: “Al tempo di Marx non era ancora l'acciaio l'indice espressivo del modo di produzione capitalistico, utile al confronto dello sviluppo industriale tra i vari paesi”. Si utilizzava infatti la produzione di cotone, e i borghesi raccontavano che opera del capitale fosse quella pacifica e filantropica di vestire tanto gli ignudi quanto i signori, tutti dello stesso cotone: senza più classi. “Da allora il marxismo – continua il nostro testo – non credette a questo, e denudò la sottostruttura feroce e sanguinaria del modo capitalistico di organizzare il mondo, scrivendo le leggi dell'orbita che esso avrebbe descritto verso sempre maggiore potenza di classe, prepotenza, oppressione, e distruzione delle masse umane. L'analisi e la prospettiva nostre stanno in piedi da allora; non potevano essere più pessimiste sullo svolgimento dell'epoca borghese. Questa non poteva dare loro conferme più piene di quelle che ha date”.

 

Attraverso i dati della produzione di acciaio si possono vedere le fasi di crescita giovanile e di decrescita senile dei diversi capitali nazionali e il loro competere sul mercato mondiale per poi affrontare i periodi di crisi, la preparazione della guerra e infine la guerra come unica soluzione alla crisi e, dopo di essa, il riavvio di un altro ciclo infernale. La produzione dell’acciaio è un indice preciso di questa traiettoria. Vediamo le milioni di tonnellate arrancare nei periodi di sovrapproduzione e poi rinvigorirsi nelle orge di militarizzazione che precedono la guerra e vediamo quelli che saranno poi i poli imperialisti dominanti primeggiare nella produzione di acciaio. E’ la fase imperialista, apertasi all’inizio del 1900. Ancora dal nostro testo del 1950: “Non è una nuova tappa del capitalismo, ossia una tappa diversa e imprevista, è la più recente, [...] la suprema fase, quella che più avvicina alla esplosione, quella che da tanto tempo era attesa, quella che non occorreva per aumentare il nostro odio, già integrale, ma per alimentare la nostra speranza. […] Sono quelle cifre con troppi zeri che preparano la guerra e prendono il posto delle varie Elene e dell'incriminamento ingenuo delle varie Troie. Un solo, immenso troione ha fatto il sinistro lavoro: il capitale”.

 

Questo nostro testo registrava un massimo per la produzione di acciaio giusto in coincidenza con la preparazione della Seconda guerra mondiale: “Al 1938-1939 il fragore delle acciaierie batte il suo pieno. Siamo ben oltre i 100 milioni di tonnellate annue. La Germania ha fatto del suo meglio: oltre 23 milioni di tonnellate”. Solo gli Stati Uniti l’hanno superata, con 47 milioni: una ripresa industriale che è stata la risposta alla crisi del ‘29, cui aveva corrisposto anche la caduta della produzione di acciaio. La guerra è stata dunque il solo modo di uscire dalla sovrapproduzione: e nella guerra si sono scontrati i maggiori produttori di acciaio.

 

 

Vediamo gli incrementi. Nel 1880, la produzione dei sei maggiori paesi industriali era di 3,6 milioni di tonnellate. Alla vigilia della Prima guerra mondiale (1913), questa cifra era di 20 volte più grande (71 milioni), con maggior produttore gli Stati Uniti, allora nazione emergente. Alla fine della Seconda guerra mondiale (1947), la produzione mondiale tendeva a risalire e si portava già sopra i livelli del 1929, con 125 milioni di tonnellate. Da allora, la corsa è ripresa e ha segnato momentanei rallentamenti solo in occasione delle crisi che si sono succedute dal 1975. Massimo pre-crisi nel 1974: 706 milioni di tonnellate; nel 1975, calo a 645; nel ‘78, ripresa dei livelli produttivi precedenti alla crisi; quindi nuova caduta, con la crisi dei primi anni ’80. E così via, nell’alternarsi delle crisi, fino a quella del 2008. Qual è quindi oggi la produzione mondiale di acciaio? Il suo massimo è stato raggiunto nel 2011 con 1520 milioni di tonnellate: ossia 12 volte la produzione del 1947, quando è ripreso il ciclo di espansione dopo le distruzioni di merci e forza lavoro in eccesso della Seconda guerra mondiale. Chi è oggi il maggiore produttore d’acciaio? In un articolo sul n.1/1997 di questo giornale riportavamo il primato raggiunto dalla Cina con 100 milioni di tonnellate, pari quasi alla produzione mondiale nel suo massimo alla vigilia della Seconda guerra mondiale, e scrivevamo: “se è vero che l’acciaio non può più essere considerato come l’unico indice segnaletico del riarmo organizzato, resta comunque uno dei più sensibili indicatori dell’approssimazione del riarmo stesso e dell’avvicinarsi alla guerra” – guerra che, in epoca capitalistica (aggiungevamo citando ancora “Sua Maestà l’Acciao”), “è la crisi prodotta inevitabilmente dalla necessità di consumare l'acciaio prodotto, e dalla necessità di lottare per il diritto di monopolio a produrre altro acciaio”. Ma “l’altalena della produzione di acciaio (fra cali e ripresa della produzione) indica anche che non siamo ancora entrati nella fase terminale della crisi, quando la sua acutizzazione impone il ricorso alle masse di acciaio e altri metalli e leghe accumulate. Occorrerà verificare la durata e l’intensità dell’incremento della produzione mondiale di acciaio, ma assisteremo anche per altri anni probabilmente a questa altalena generalizzata, essendo i tempi della guerra dettati dai tempi della crisi economica e sociale”

 

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.

 

Da allora, la produzione di acciaio mondiale è sempre aumentata. Sono i paesi di vecchio capitalismo quelli che hanno corso di meno risentendo maggiormente della crisi del 2008 e non hanno ancora recuperato i livelli pre-crisi, mentre la Cina, l’India, il Brasile, a capitalismo giovane, hanno segnato la tendenza all’incremento a scala mondiale. Così, dai 100 milioni di tonnellate del 1997, la Cina ha portato la sua produzione a 680 milioni nel 2011 (e ha varato anche la sua prima portaerei) (6). Nel frattempo, si è accentuata la guerra commerciale sull’acciaio, con imposizione reciproca di dazi tra Usa, Cina ed Europa. Ancora in “Sua Maestà l’Acciaio”, commentavamo: “Ma tutto questo acciaio non si mangia, non si consuma, non si distrugge, se non ammazzando i popoli […] I possessori di queste masse metalliche organizzate in mostri semoventi si guardano ferocemente nella contesa di giacimenti minerari, di carbone, di petrolio e di mercati di consumo; con l'altezza delle cifre della produzione cresce il concentramento in grandi aziende, l'alleanza internazionale tra gruppi di queste, la pressione sulle masse lavoratrici dell'industria, sulle popolazioni dei paesi non industriali”.

 

 

 

Fin dagli inizi del ‘900, la produzione di acciaio in Italia era orientata alla guerra: così, durante il primo conflitto mondiale, per sfruttare le opportunità offerte dalle commesse belliche, l’Ilva s’integrò a valle, acquisendo aziende cantieristiche ed aeronautiche. Può il capitale nazionale trascurare oggi il peso di Fincantieri e Finmeccanica? È chiaro perché l’Ilva non può fermare la sua produzione? Produrre a qualunque costo!

 

 

 

 

I padroni. In tutto ciò, i padroni Riva ci appaiono come una parentesi marginale nella storia dell’acciaio in Italia, di cui colpiscono invece le fasi ricorrenti di acquisizione da parte delle banche, le ricorrenti nazionalizzazioni e il forte intervento statale già dalle origini, nel 1905. Oggi come allora, l’Ilva è esposta soprattutto con Banca Intesa (già Banca Commerciale), che ne rilevò la proprietà nel 1921. Oggi, è il ministro Passera, ex-ad di Banca Intesa, a dire che, se l’Ilva non sarà in grado di gestire l’azienda, la proprietà perderà la titolarità, ma la produzione continuerà: pur di salvare l’acciaio nazionale. Da parte sua, la Corte costituzionale si pronuncerà ad aprile sul conflitto tra governo e magistratura. In questo stato di stallo, con i prodotti e gli impianti sotto sequestro e le incertezze sulle commesse future, le banche non concedono più credito ai Riva.

 

 

 

L’Ilva è una bomba pronta ad esplodere: i Riva continuano a minacciar la chiusura e a richiedere la Cassa integrazione, e questa minaccia grava su un territorio con il 40% di disoccupazione. Attualmente, sono colpiti dalla Cassa integrazione in deroga, a zero ore, circa 1400 lavoratori, numero che non aumenta solo perché Regione e governo non hanno accolto le richieste dell’azienda. Il Ministro dell’ambiente continua in ogni sede e con tutte le sue forze a ripetere che la produzione non può essere fermata. Il magistrato, a metà febbraio, ha sbloccato l’acciaio che giaceva nelle banchine del porto: si è affrettato a chiarire che la somma ricavata, 800 milioni di euro, è destinata alle bonifiche, ma questo di fatto impedisce l’esplosione immediata ed incontrollata della situazione.

 

 

I sindacati nazionali. Su 12 mila lavoratori diretti impiegati nello stabilimento ILVA di Taranto, 1000 sono iscritti alla Fiom, mentre la Uilm conta 2 mila tessere e la Fim 1500. Dove erano i sindacati confederali in questi anni? Usi a obbedir tacendo e, tacendo, morir… di diossina. Non ci stupisce che essi non abbiano seguito tra i proletari, ma soprattutto non ci stupisce che i proletari abbiano perso la capacità di organizzazione e di lotta in difesa dei propri interessi. Uno dei punti più bassi si è raggiunto nel periodo tra marzo e luglio 2012, quando sono arrivati i primi ordini di sequestro degli impianti da parte della Magistratura. I Riva hanno organizzato degli “scioperi” pagando le giornate di lavoro agli operai e hanno distribuito i “kit del manifestante”: fischietto e bandiera per scendere in strada contro la Magistratura: 8 mila operai su 12 mila hanno bloccato la città, mentre in maniera ben organizzata una parte di loro garantiva la marcia degli impianti.

 

 

 

Uilm e Fim si sono sempre dimostrati sindacati al servizio dell’azienda. La Fiom ha tenuto una posizione più fintamente operaia, ma le sue rivendicazioni si fermano alla nazionalizzazione e alla richiesta di investimenti da parte dei Riva e dello Stato, mai mettendo in discussione la fermata degli impianti e sempre indicando come possibile la… conciliazione tra lavoro e ambiente, nella sua forma capitalistica! Questa prassi sindacale oscena ha generato una reazione spontanea di rifiuto di cui abbiamo già dato notizia su questo giornale (7). I protagonisti di questa reazione alla prassi sindacale non si riconoscono ancora come classe, si definiscono “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti”. Eppure, nel metodo della loro azione e anche nelle loro rivendicazioni sono quelli più orientati verso posizioni suscettibili di sfociare in metodi e obiettivi classisti: sono gli unici a richiedere la chiusura dello stabilimento a salario integrale. Ovviamente, noi non li giudichiamo per la coscienza che hanno di se stessi, per i loro attuali limiti spontaneisti, di rifiuto dei capi e dell’organizzazione sia politica che sindacale, ma per ciò che le determinanti economiche li hanno condotti a fare. Più importante sarà vedere come condurranno da ora in poi la lotta di difesa, sospinti dalle contraddizioni economiche e sociali più che dal loro “libero pensiero”.

 

 

 

 

Il sindacalismo di base. La Usb di Taranto è diretta da elementi fuoriusciti dalla Fiom a fine 2011 insieme a ben 400 lavoratori Ilva, denunciando le pratiche corruttive dell'Ilva nei confronti sia dei funzionari incaricati di verificare i livelli di inquinamento sia dei sindacati: Fiom compresa. Sono all’interno del “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti”, ma ritengono impraticabile e impossibile la rivendicazione di blocco della produzione per avviare le bonifiche a salario garantito. Nella loro rivendicazione principale, non si discostano dalle posizioni della Fiom: nazionalizzazione e bonifica con gli impianti in marcia. Ecco uno stralcio di una loro lettera al Ministro Clini: “Riva non assicura più la tenuta del suo impero, tanto meno, suppongo, le Istituzioni potrebbero più riconoscere fiducia a tale proprietà. Motivo per cui non andrebbe più considerato come interlocutore, ma estromesso dal circuito industriale, prelevando e confiscando preventivamente i beni di sua proprietà, riportando nelle mani dello Stato ogni sito in suo possesso. Da qui ripartire nel rispetto delle prescrizioni di legge, per recuperare salubrità, serenità e sano sviluppo in un territorio che non meritava tanta cattiveria”. E, per rivendicare la nazionalizzazione dell’azienda, la Usb ha indetto uno sciopero ad oltranza dal 19 gennaio!

 

 

 

Lo Slai-Cobas critica il “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” da presunte posizioni di classe, e ha costituito un comitato di lotta, “Tarantocontro”, cui aderisce anche la Usb, e una cassa di resistenza. Eppure, anche loro ritengono improponibile la richiesta di chiudere l’impianto per avviare le innovazioni tecnologiche necessarie e garantire, allo stesso tempo, il salario: non vogliono avanzare rivendicazioni di classe che non siano adeguate al livello attuale della lotta. Queste le loro richieste: “i cassintegrati devono rientrare, non aumentare, la fabbrica deve rimanere aperta con gli operai dentro per essere messa realmente a norma in forme accelerate, gli stipendi devono essere pagati, i fondi e beni di padron Riva requisiti, i fondi dello stato per la bonifica della città, a partire dal quartiere Tamburi, devono essere fortemente aumentati e operai e cittadini risarciti”.

 

 

 

 

Proletari di Taranto! Blocco degli impianti inquinanti e mortali senza interruzione nella corresponsione del salario ai lavoratori coinvolti e salario integrale a licenziati e disoccupati. Bonifica del territorio! Queste devono essere le nostre parole d’ordine immediate. Dobbiamo ribaltare completamente la logica del ricatto lavoro/salute a cui ci hanno costretti: fare questo significa fare opera di disfattismo contro la nostra borghesia, contro la difesa degli interessi superiori dell’azienda e della nazione.

 

Sappiamo che è solo con la lotta che possiamo ottenere qualcosa. Ma ogni conquista, guadagnata in base alla forza che si riesce a mettere in campo, è subito rimessa in discussione. Non è possibile il reale miglioramento delle nostre condizioni di vita e di lavoro, finché resta in vita questo sistema. Dobbiamo lottare per imporre la bonifica del territorio e vigilare continuamente, mobilitandoci e organizzandoci fuori della galera velenosa della fabbrica: al tempo stesso, sappiamo che non è possibile risanare completamente l’ambiente finché resta in vita il capitale, così come non è possibile riformare il capitale. Non c’è pace che sia desiderabile finché c’è il capitale, non c’è conquista che sia definitiva: possiamo solo batterci per migliorare la nostra capacità di difesa, utilizzare la lotta per raggiungere un’unità sempre più salda e ampia dei proletari, al fine ultimo di dare l’assalto e annientare il mostro che ci opprime: lo Stato borghese. Questa è l’unica soluzione: solo allora, ci si potrà avviare verso una vita e un lavoro realmente sani e gioiosi.

 

 

 

Oggi, il Capitale va verso una guerra, resa inevitabile dalle enormi contraddizioni accumulatesi in settant’anni di mostruosa produzione per la produzione. E si prepara a usarci come carne da cannone, utilizzando, sotto forma di armi mostruose, quello stesso acciaio che abbiamo prodotto, per il quale in tanti sono morti. Questa è la drammatica verità, di non facile comprensione oggi, ma destinata a tradursi in tragica realtà, se prima non abbiamo ripreso a lottare per difendere le condizioni di vita e di lavoro nostre e delle generazioni future. Non esistono altre facili scorciatoie.

 

 


 

 

1 Cfr. il nostro articolo “La lotta dei metalmeccanici di Taranto”, Il programma comunista, n.5/2012.

2 Dall’epoca della riunificazione, la Germania ha perseguito una politica di espansione a Est, con una rinnovata propensione di potenza continentale. I capitali statali sono poi stati valorizzati con lo sfruttamento intensificato, diretto e indiretto, dei proletari dell’est e del sud Europa, a cui la Germania ha fatto pagare il proprio debito pubblico e il proprio aiuto alle grandi aziende. Cfr. “Nell’agonia dell’Eurozona maturano le premesse per il riapparire del proletariato sulla scena storica”, Il programma comunista, n.1/2013.

3 Cit. in Il sole 24 ore, 21/8/2012.

4 “Sua Maestà l’Acciaio”, Battaglia comunista, n.18/1950. L’articolo è consultabile sul nostro sito.

5 “La Cina e l’acciaio”, Il programma comunista, n.1/1997.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2013)

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  • Gaza: un ennesimo macello insanguina il Medioriente-Volantino (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • L’alleanza delle borghesie israeliana e palestinese contro il proletariato (Il programma comunista, n°6, 2014)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario  ( Il programma comunista, n°3, 2021)
  • A fianco dei proletari e delle proletarie palestinesi! ( Il programma comunista, n°5-6, 2023)
  • Il proletariato palestinese nella tagliola infame dei nazionalismi ( Il programma comunista, n°2, 2024)
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