DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

La crisi di sovrapproduzione è la causa ultima dell'aggravarsi della crisi fiscale degli Stati a capitalismo maturo. Solo gli Stati più forti possono al momento fronteggiarla adeguatamente, in virtù o del loro ruolo di imperialismo dominante (USA) o della loro forza economica (Germania) che si traduce in forza politica. La crisi europea riflette la polarizzazione delle condizioni economiche, finanziarie e sociali tra Nord e Sud del continente, che tende a tradursi in un nuovo rapporto di dominio/subordinazione. La forma politica che assumerà questo rapporto segnerà la definizione degli schieramenti imperialisti e il ruolo che la Germania avrà nel nuovo assetto. In questo scenario, il proletariato, sempre più libero dalle pastoie del welfare, è chiamato nuovamente a scendere in campo e ad assumere il ruolo storico di liquidatore del modo di produzione capitalistico.


 

1- Europa in stallo

Gli sviluppi della crisi dell'Eurozona confermano che, nonostante le dichiarazioni sull'irreversibilità dell'euro e gli annunci di futuribili soluzioni definitive, il processo di disgregazione dell'area monetaria è ormai un dato oggettivo. Si vanno rafforzando i contorni di due Europe: una forte e centrata sulla potenza tedesca, comprendente al momento la Francia, che ha difficoltà a proporsi come leader di un asse mediterraneo da contrapporre allo strapotere germanico sul continente ed è indotta a cercare un rapporto privilegiato, anche se a tratti conflittuale, con il tradizionale alleato-avversario; e un'altra Europa composta dai Paesi il cui assetto capitalistico non è in grado di reggere la competizione internazionale che dalla crisi del 2007/2008 si è nel frattempo inasprita. La frattura Nord/Sud si è fatta più marcata per l'intervento della finanza internazionale che ha approfondito il divario, orientando i flussi di capitali verso l'area forte e abbandonando i Paesi mediterranei. La crisi ha determinato una ri-nazionalizzazione dei debiti sovrani, detenuti in percentuali crescenti dalle banche nazionali, e un indebolimento dell'integrazione tra sistemi bancari del continente, con gli scambi sull'interbancario ormai ridotti al minimo. Come riflesso della crisi economica e finanziaria, si approfondisce la crisi politica: crisi delle istituzioni comunitarie, pressate da interessi nazionali divergenti e divise tra il compito istituzionale di salvare l'integrità dell'Eurozona e la necessità di assecondare il rigore teutonico; crisi nei rapporti interstatali, con la Germania che pone le condizioni per il salvataggio dei paesi sotto attacco e oppone un muro di gomma a tutti gli interventi che, in ambito comunitario, potrebbero consentire il rientro della crisi debitoria degli Stati a rischio; crisi interna agli Stati, con un completo riposizionamento degli schieramenti politici lungo la linea di demarcazione pro e contro l'euro, pro e contro il rigore.

I governi mediterranei si affannano a rincorrere gli spread con politiche deflazionistiche pressoché suicide, favorendo una divaricazione sempre più netta tra quanti si affidano speranzosi alla guida tecnocratica e quanti vi si oppongono in nome di un ritorno alla piena sovranità monetaria. Di fatto, l'alternativa, tutta interna all'orizzonte borghese, di fronte alla quale sono posti i Paesi in difficoltà è tra la lunga agonia della deflazione e la catastrofe di un default finanziario e di una uscita dall'euro. La convivenza nell'area dell'euro si propone nello stesso tempo come necessità e come condanna: necessità, perché una disintegrazione dell'area monetaria, o anche semplicemente il default di un solo Stato, aprirebbe scenari inesplorati nel contesto di una finanza internazionale affetta da un fragile gigantismo; condanna, perché il conto della convivenza appare sempre più salato, vuoi per l'impatto sociale devastante del rigorismo nei Paesi in difficoltà, vuoi per i costi dei salvataggi che gravano sugli Stati in proporzione al loro peso economico. In questa guerra che in superficie oppone Stati creditori contro debitori, virtuosi contro prodighi, l'offensiva si svolge sul fronte di classe: il vero obiettivo del rigore non è il risanamento, ma è il proletariato, è l'annientamento di ogni forma di resistenza ai diktat del Capitale come condizione per l'adeguamento dei singoli capitalismi nazionali al livello richiesto dalla competizione sui mercati mondiali. La risposta proletaria è per ora drammaticamente assente, o se si manifesta lo fa in forme inadeguate all'altezza della posta in gioco. Più ancora, sono gli obiettivi della protesta operaia (per esempio, quando si invoca la ripresa della produzione nei confini nazionali) a rivelare il peso di novant'anni di controrivoluzione.

Tuttavia, la crisi dell'Eurozona non è destinata a ricomporsi nel breve periodo. In campo borghese, nonostante il temporaneo calo di tensione sugli spread seguito alle assicurazioni di Draghi sulla determinazione della Bce a intervenire a favore delle banche e degli Stati in difficoltà, sotto la cenere covano tensioni fortissime, che hanno origine nell'ineliminabile carattere nazionale degli interessi in campo; sul fronte proletario, le conseguenze del rigore e delle politiche deflazioniste si devono ancora dispiegare e implicheranno un peggioramento generale e permanente delle condizioni di vita, imponendo la necessità di un’organizzazione di difesa su basi finalmente classiste. In prospettiva, non sarà preservato dall'attacco nemmeno il proletariato dei Paesi capitalisticamente più forti, che al momento il timore di scivolamento nell'insicurezza spinge ad arroccarsi a difesa del proprio welfare a fianco della propria borghesia.

Il quadro è venuto maturando in un lungo processo segnato dalla crescente finanziarizzazione dell'economia come prodotto e insieme fattore della tendenza del capitalismo a ingolfarsi di merci e capitali, tendenza che ha portato alla crisi del 2007-2008 e dalla quale il capitalismo fatica ad uscire. La moneta unica europea ha garantito per un decennio e più un contesto di stabilità monetaria che ha favorito l'afflusso di capitali internazionali, e nel quale la circolazione delle merci ha potuto svolgersi in una condizione di libera concorrenza intraeuropea, senza l'ostacolo di politiche monetarie nazionali.


 

2- La penetrazione commerciale e finanziaria tedesca dall'introduzione dell'euro

Il progetto di un'unione economica europea, finalizzato negli intenti ad un grado superiore di integrazione interstatale, è nato nel secondo dopoguerra nell'ambito della subordinazione dell'Europa occidentale agli interessi statunitensi, e come tale non è per sua natura passibile di un'evoluzione verso una integrazione politica che elevi il vecchio continente al rango di imperialismo concorrente degli USA sul piano politico militare. L'attuale crisi dell'Eurozona costituisce un passaggio storico decisivo che potrebbe segnare una rottura col vecchio assetto delle relazioni atlantiche. Il processo di integrazione ha subito una accelerazione apparente negli anni '90 con Maastricht e il progetto di unione monetaria. In realtà, in quel passaggio, il fattore storico decisivo fu la riunificazione tedesca, di cui - nelle intenzioni francesi e con l'avallo americano - l'unione monetaria e la maggiore integrazione prevista dai trattati dovevano costituire la cornice di contenimento, il freno al riproporsi delle ambizioni egemoniche del colosso centroeuropeo.

 

Proprio i trattati che dovevano sancire la limitazione delle ambizioni tedesche ne sono stati il veicolo di realizzazione. L'Eurozona si è rivelata il terreno più adatto per affermare la supremazia tedesca sul continente, assicurandole condizioni molto più favorevoli rispetto a un assetto monetario continentale frammentato che avrebbe permesso ai singoli Stati di conservare un'autonoma politica monetaria. La Germania, dopo aver sopportato i costi notevoli della riunificazione dell'Est, nei primi anni del 2000 ha perseguito obiettivi di ristrutturazione industriale e di riforma del mercato del lavoro che ne hanno potenziato la capacità competitiva nel continente e nel mondo. Le merci tedesche acquisivano quote crescenti di mercato (dal 1999, +25% di export nell'Eurozona) e il surplus commerciale rispetto ai partners europei, nel contesto della moneta unica, non poteva riflettersi in variazioni del rapporto di cambio né essere contrastato da svalutazioni competitive (1).

 

Dopo l'introduzione dell'Euro, l'export manifatturiero è salito dal 33% del Pil nel 2000 al 53,4% nel 2011 (2). Tuttavia, negli stessi anni in cui l'industria tedesca conquistava a mani basse l'Eurozona, si è venuta strutturando in funzione di una proiezione commerciale fuori dall'area: al calo percentuale del peso dell'export nell'Eurozona (- 9% dal 1998) e nell'UE (- 15% dal 2000), faceva riscontro un aumentato peso dell'Asia e principalmente della Cina. Nello stesso tempo, si realizzava un processo di delocalizzazione produttiva nell'Est Europa che non solo consentiva di conseguire saggi più elevati di plusvalore a parità di composizione organica, ma anche di creare, nell'area coincidente con la vecchia Mitteleuropa, un sistema industriale integrato centrato sulla Germania.

 

Nel corso dello stesso periodo (dal 2000 al 2011), i rapporti economici mondiali sono radicalmente mutati: tutti i paesi di vecchio capitalismo hanno perso quote di produzione mondiale. Solo Germania, Giappone e, a debita distanza, l'Italia, reggono ancora il passo nell'export manifatturiero con la Cina e gli emergenti, mentre Francia, Regno Unito e USA sono importatori netti di manufatti e di capitali. Grazie al consolidamento della sua posizione economica dominante nel continente, la Germania è divenuta l'economia più globalizzata d'Europa, e si avvia a diventare il primo esportatore al mondo con un avanzo corrente che nel 2012 supererà quello della Cina. Nel frattempo, le interconnesioni commerciali intra UE si stanno riducendo, in particolare quelle tra paesi mediterranei e paesi nordici (3). La trasformazione della struttura produttiva tedesca in una proiezione mondiale costituisce un primo elemento di cui tener conto per comprendere perché il capitalismo tedesco frena sull'attivazione di un intervento risolutivo sulle sorti degli Stati mediterranei, per quanto proprio su questi si sia basato il processo di rafforzamento della capacità competitiva tedesca sui mercati esteri.

Parallelamente alla penetrazione commerciale, si sviluppava la penetrazione finanziaria delle banche tedesche a sostegno dell'export, incentivando le varie forme di indebitamento caratteristiche del moderno capitalismo drogato, all'origine tanto dei disavanzi degli Stati che hanno assecondato con la spesa in deficit la crescita dell'economia nazionale (valga l'esempio della Grecia) quanto delle bolle speculative nell'immobiliare e nella finanza (Spagna e Irlanda).

 

In questo processo, nel contesto internazionale segnato dalle politiche espansive della Fed e del proliferare della finanza senza regole, l'euro ha fatto la sua parte, consentendo - in un quadro di stabilità monetaria garantita dalla potenza economica tedesca e dalla Bundesbank - di tenere bassi i tassi di interesse e i costi dei finanziamenti. Indebitarsi costava poco per tutti, con reciproco vantaggio di debitori e creditori. Era la variante europea della politica di "denaro facile" della Fed, e come quella conteneva le premesse di bolle speculative destinate prima o poi a esplodere. Tanto più che le banche europee, non ultime quelle tedesche, si sono lanciate nella speculazione finanziaria sui titoli tossici impacchettati e seminati nel mondo dalle banche americane per massimizzare gli impieghi e gli utili in rapporto al capitale proprio.

 

L'esplodere della crisi del 2007/2008 in Usa ha così coinvolto in pieno il sistema bancario europeo, spostando il baricentro della crisi nel vecchio continente. Dal 2007 al marzo 2012 i sistemi bancari dell'Eurozona hanno perso oltre 2000 miliardi di depositi internazionali, e il processo è tuttora in corso; solo nell'ultimo anno i fondi americani hanno ridotto la loro esposizione nell'Eurozona del 78%, abbandonando anche la Germania. Il costo dei salvataggi pubblici delle banche si è riversato sui debiti sovrani dei singoli Stati, aumentandone il peso in rapporto al Pil. Per alcuni di essi si è avviata una tendenza alla lunga insostenibile, perché nel frattempo venivano al pettine i nodi delle bolle speculative innescate dalla droga finanziaria.

 

A quel punto, l'apparenza di un percorso pacifico di integrazione europea e di convergenza delle diverse realtà economiche si è dissolta, mettendo in evidenza il processo che, attraverso la penetrazione finanziaria e commerciale, aveva accentuato le differenze di area e la subordinazione dell'Europa al capitale tedesco. L'espansione dell'export tedesco si è realizzata a danno di partners europei concorrenti nel manifatturiero, che hanno perso competitività sia rispetto alla Germania sia agli altri concorrenti mondiali. Fuori dall'Eurozona, il già alto grado di competitività tedesca è risultato potenziato (+20% di export fuori dall'area euro) da un rapporto di cambio calmierato dalle economie deboli dell'area, per le quali l'euro rimane una moneta troppo forte in rapporto alla capacità competitiva delle proprie strutture produttive. Mentre le bolle speculative nel settore finanziario e immobiliare hanno determinato una crescita tanto rapida quanto precaria in paesi come Irlanda e Spagna, l'Italia, paese che compete sullo stesso terreno della Germania - quello manifatturiero - , è stata condannata per un decennio ad una crescita asfittica o nulla. L'Eurozona, concepita come cornice di contenimento, si è dunque rivelata l'arena ideale per l'affermazione della supremazia economica del capitalismo più forte: ha funzionato egregiamente come piattaforma di lancio dell'economia tedesca sul mercato globale, dove nel frattempo è cresciuto notevolmente il peso dei Brics. Questa supremazia economica doveva alla fine trovare riscontro nei rapporti interstatali europei e mettere in crisi i vecchi assetti.

 

Il manifestarsi di squilibri così notevoli ha reso evidente la frattura obiettiva tra l'Europa forte del Nord e la fragile periferia mediterranea, scatenando le vendite di titoli sovrani dei Paesi in crisi da parte dei gruppi finanziari mondiali, in parte con intenti speculativi, in parte per salvaguardare il valore dei titoli in portafoglio dai rischi di default. Il concetto di rischio finanziario e di speculazione sono strettamente correlati: la speculazione gioca sul rischio, si dirige dove questo è più elevato. Il rischio in questo caso si è presentato come emergenza del debito pubblico che, in quanto espressione del rischio bancario, esprime le difficoltà del sistema economico-produttivo verso il quale le banche sono esposte. Come tale, la crisi del debito pubblico è solo la manifestazione secondaria di una crisi che ha origine nella difficoltà di valorizzazione del Capitale, nell'estrazione del plusvalore come forza motrice della riproduzione allargata. Il mantra della crescita economica è il richiamo all'intensificazione dello sfruttamento del lavoro umano, alla crescita del sopralavoro, e la competizione tra Stati si riduce in definitiva al confronto tra la capacità dei vari sistemi produttivi di estrarre plusvalore, di sfruttare il proprio proletariato. Alla fin fine, questa guerra tra Stati si decide nella guerra che ciascuno Stato sta combattendo, con maggiore o minor successo, sul fronte interno contro il proletariato. Le guerre vere e proprie che si profilano saranno il dispiegamento internazionale dell'attacco al proletariato mondiale, unica soluzione realistica alla crisi del meccanismo di accumulazione, col suo portato di distruzione di mezzi di produzione e di forza lavoro vivente, proporzionata al grado di sviluppo del mostro agonizzante e premessa per la sua rigenerazione.

 

3- Divari di produttività, concentrazione del capitale e deindustrializzazione

"Se nel Paese a più alto tasso di imprenditorialità nel mondo si arriva al punto che il guadagno d'impresa non ripaga il costo del capitale e che è meglio puntare alla rendita investendo in BTP vuol dire che davvero stiamo bruciando il futuro" (G. Gentili, “Cortocircuito da scongiurare”, Il Sole24Ore, 9.8.2012)

 

Il Paese di cui si parla nella citazione è evidentemente l'Italia, ma lo spettro della deindustrializzazione grava su tutti i paesi di vecchio capitalismo. La tentazione di affrancarsi dai crucci dell'impresa industriale per affidarsi a un comodo hedge fund che dà la caccia agli impieghi più remunerativi, alimentando la speculazione finanziaria, è un prodotto dell'evoluzione di una classe sociale che ha esaurito la sua funzione storica. Di recente, il rischio di fuga dall'impresa industriale è stato segnalato congiuntamente dalla Confindustria italiana e tedesca (Bdi), interessate a ridare centralità all'industria come “l'unica scommessa sicura per la creazione di valore aggiunto reale. Il settore industriale ammonta al 35% della forza lavoro in Europa. Ogni posto di lavoro nel settore industriale é collegato ad almeno due posti di lavoro di alta qualità nel settore dei servizi". (“Industria UE a rischio declino”, il Sole24Ore del 4.7.2012). Le due Confindustrie più influenti d'Europa richiedono uno sforzo comunitario per portare dal 15% attuale al 20% la percentuale del Pil europeo che si deve all'industria manifatturiera.

 

Quanti evocano la centralità dell'"economia reale" toccano il cuore del problema: motore del capitalismo rimane la produzione di plusvalore, l'interesse è esso stesso una parte del plusvalore e non può sopravanzarlo se non in dinamiche fittizie, alla lunga catastrofiche. La difficoltà del Capitale di valorizzarsi nella dinamica della produzione D-M-P-M'-D' lo spinge ad avvitarsi nella dinamica fittizia D-D', denaro che genera più denaro in virtù di una misteriosa qualità intrinseca, azzerando i tempi di produzione e circolazione. Tuttavia, anche nelle sue forme più astruse come i derivati, la moneta finanziaria ha le sue radici nella produzione: i subprime nell'industria delle costruzioni, il credito al consumo come stimolo all'industria manifatturiera, i futures per incassare subito con uno sconto il prezzo di vendita di una merce a una determinata scadenza - gli strumenti finanziari derivati si basano per definizione su un'attività sottostante, sia essa creditizia o industriale... Per quanto si autonomizzi, il capitale finanziario non può svincolarsi dalla produzione di plusvalore senza votarsi all'autodistruzione. Lo sviluppo della crisi in Europa vede capitali affluire là dove il meccanismo di valorizzazione attraverso la produzione funziona ancora (Germania: e tuttavia vi affluiscono in quantità eccessiva per le reali possibilità di investimento).

 

 

Grafico 1: Tassi di cambio effettivi reali

 

Dall'introduzione dell'euro in poi, Portogallo, Spagna, Italia e Grecia hanno subito una continua perdita di competitività: in particolare l’Italia, dove il tasso di cambio effettivo reale si è apprezzato del 35% (4).Su questi paesi grava lo scenario cupo della deindustrializzazione, evocato costantemente per giustificare le continue batoste cui è soggetto il proletariato, unica merce in grado di produrre valore, tanto più se a buon mercato e supina all'imperio del padrone. Se l'operaio vuole mantenere il posto, salvare la "sua" fabbrica, deve piegare la testa e tacere, dev’essere "più produttivo", accettare l'intensificazione dello sfruttamento che ha il suo unico limite nella durata della giornata lavorativa. Il paradosso della logica del capitale è che si chiede all'operaio di lavorare di più, di aumentare le ore di lavoro in presenza di un esercito di riserva che vede continuamente ingrossarsi le sue file come conseguenza della crisi. Dalle crisi, dalla rovina di una miriade di aziende medio-piccole, emergono necessariamente una maggiore concentrazione, una più elevata composizione organica media della struttura produttiva, ma anche, a meno di un’improbabile crescita sostenuta, un ulteriore aumento della sovrappopolazione relativa.

Questi Paesi, non potendo svalutare, possono recuperare competitività solo attuando una svalutazione interna, cioè riducendo i salari e i prezzi. L'Italia dovrebbe passare attraverso una deflazione del 30-35% dei salari diretti, indiretti (servizi) e differiti (pensioni), per di più in una fase di marcata recessione e nella prospettiva di un rallentamento globale che ormai sta toccando anche l'Asia (oltretutto, non è detto che la moderazione salariale si trasferisca in pari proporzione ai prezzi, dato che la voce “salari” incide in percentuale decrescente sulla determinazione dei cosiddetti “costi di produzione”, e che sui prezzi incidono la rendita, il monopolio e non da ultima la tassazione).

Le statistiche sulla crescita della produttività oraria (5) nei Paesi europei dal 2001 al 2010 registrano aumenti in tutto l'Est, dalla Romania (+75%) alla Slovenia (+20%) (cfr. Corriere della sera del 16/7), frutto degli investimenti principalmente tedeschi e della massiccia delocalizzazione. Nello stesso periodo, la Germania ha registrato un aumento di produttività del 10% mentre l'Italia si è fermata a un misero 1,4%. E' realistico prospettare un recupero di produttività, in termini capitalistici, nell'ordine del 35% di cui sopra, nelle condizioni monetarie dell'Eurozona, in una fase di rallentamento del mercato mondiale e di intensificata concorrenza internazionale? Potrà il proletariato, in Italia e altrove, sopportare a lungo una simile pressione sulle proprie condizioni di vita e di lavoro senza reagire? Probabilmente, la domanda circola anche nei salotti buoni e negli uffici degli alti funzionari pubblici e privati, non senza un po' di tremarella. Ma, indipendentemente dalla risposta operaia, la soluzione capitalistica alla crisi è sempre votata al fallimento. In questa rincorsa alla competitività (produrre di più con meno operai), si verifica che la massa del profitto tende a scendere in rapporto al capitale complessivo impiegato. La crescita della produttività conduce al risultato opposto rispetto allo scopo che doveva ottenere: il saggio del profitto cala, sprofondando il capitale in una nuova e più devastante crisi. Dialetticamente, è proprio la Germania, dall'alto del suo irraggiungibile livello di produttività, a essere la più esposta alla caduta del saggio del profitto e alla sovrapproduzione. A ciò si aggiunge che l'aumentata dipendenza dell'economia tedesca dall'export e dallo sviluppo del mercato mondiale, che Marx annovera tra le controtendenze alla caduta del saggio del profitto, la esporrebbe ai contaccolpi di una contrazione degli scambi internazionali di cui si avvertono già i segnali. Dopo il crollo verticale del 2009, l'andamento del mercato mondiale ha visto una crescita del 14% nel 2010, scesa al 5% e al 2,5% nei due anni successivi.


 

4- Sovrapproduzione e finanziarizzazione

"Non è una crisi dei debiti sovrani, ma un processo di riduzione della leva finanziaria nel settore privato, con conseguente incremento del deficit degli Stati, a tassi bassi perché c'è più risparmio di quello che sarebbe auspicabile..." (P. Krugman, “I mercati si aspettano il peggio”, il Sole24Ore, 27.7.12)

 

All'origine delle dinamiche catastrofiche cui è soggetto il capitalismo, sono la caduta del saggio del profitto e la sovrapproduzione. La sovrapproduzione di mezzi di produzione e di merci si riflette nell'esistenza di una massa enorme di capitale finanziario, in gran parte fittizio. In presenza di un eccesso di capacità produttiva mondiale, di una sovrapproduzione di mezzi di produzione, di possibilità di investimenti redditizi sempre più limitate, il capitale finanziario genera una superfetazione di forme di investimento nell'ambito della finanza stessa che garantiscono sulla carta rendimenti più o meno alti in ragione del rischio. Questa deriva è stata favorita dalle politiche monetarie espansive delle banche centrali che, nel vano tentativo di finanziare la ripresa produttiva, alimentano il sistema bancario e il credito.

 

Dopo l'esplosione della crisi cosiddetta dei "subprime", gli strumenti finanziari derivati sono stati accusati di essere responsabili della crisi, o quantomeno di avervi svolto un ruolo decisivo. Si sarebbe trattato dunque di una crisi legata agli eccessi della finanza che si sarebbero poi scaricati sull'economia reale a causa di una improvvisa restrizione del credito a tutti i livelli. Di qui, i reiterati sforzi delle banche centrali (Fed, Boj, Banca d'Inghilterra e Bce - quest'ultima con minor libertà d'azione) di riattivare il credito inondandolo di liquidità, come se il capitale nella sua forma monetaria possedesse una capacità propria di generare ricchezza. Nel breve periodo, i sistemi bancari sono stati salvati dal default, ma si è generata un'enorme crescita dell'indebitamento degli Stati. La propensione speculativa delle banche, specie delle maggiori, anglosassoni e tedesche, si è rafforzata ed è ripresa l'espansione del debito a tutti i livelli (pare che in Usa la pratica subprime sia già ripresa a pieno regime). Innescando un meccanismo idiota per cui il debitore e creditore si scambiano i ruoli, le banche salvate dal denaro easy profuso in gran quantità hanno acquistato titoli di debito pubblico sostenendo lo Stato salvatore (non certo per gratitudine, ma per acquisire buoni rendimenti o sicurezza di investimento). A tre anni dal salvataggio, le banche hanno rafforzato l'indebitamento per fare acquisizioni e aumentare gli attivi in bilancio, senza contare il ricorso ai derivati, il cui ammontare abnorme si nasconde nell'oscurità dell'over the counter, negli scambi che avvengono al di fuori dei mercati ufficiali (6). La crisi, nel contesto di una politica monetaria espansiva, ha potenziato ulteriormente la finanziarizzazione dell'economia, con grande scandalo dei fautori del "buon" capitalismo, nostalgici della banca di servizio all'industria che invece, specie se di medie e piccole dimensioni, subisce il rischio di soffocamento per debito.

 

La ripresa in grande stile della speculazione, dell'azzardo finanziario, significa che il denaro facile si ferma nel circuito della finanza e raggiunge con difficoltà la struttura produttiva non ancora fuori dalla crisi. Significa che il credito non può svolgere la sua funzione "sana" di sostegno alla produzione, dove è ancora in atto un processo di enorme distruzione di capitale, con fallimenti, mezzi di produzione inutilizzati, merci invendute, che si concentra al momento nei Paesi più deboli nella competizione internazionale, ma che già minaccia gli Usa e il Giappone. Se i dati confermeranno il rallentamento dell'economia cinese, volàno del mercato mondiale, anche la boria del capitalismo tedesco è destinata a sgonfiarsi. A un certo grado di sviluppo capitalistico, la centralità della cosiddetta "economia reale" si fa sempre più problematica, e si profila l'ultima spiaggia di una guerra devastatrice che produca una regressione dalle forme monopoliste e dirigiste (7).

 

L'autonomizzarsi del capitale finanziario dalla produzione non è una "distorsione del mercato", ma effetto dello sviluppo capitalistico e della sua crisi epocale. Quanto più il credito agisce come fattore di sostegno alla produzione e al suo ampliamento, tanto più alimenta sovrainvestimento e sovraspeculazione a tutti i livelli. Al profilarsi del ristagno della produzione, vengono alla luce gli squilibri generati dagli eccessi nella speculazione, nell'investimento, nell'export, ecc... Le valutazioni dei titoli finanziari si fanno volatili, alla percezione del rischio segue una immediata corsa alla vendita, aumenta il premio al rischio e diminuisce il prezzo dei titoli, calano gli investimenti azionari. La crisi dei sistemi bancari è proporzionata all'entità della loro esposizione nel credito alle imprese, all'immobiliare, all'export, al consumo, mentre la massa dei titoli puramente fittizi ha origine nella pratica dell'assicurazione dalle perdite con l'emissione di una quantità di attività corrispondenti ai crediti concessi: pratica che è a sua volta humus fertilissimo per la speculazione senza limiti nell'ambito della finanza. Quanto più aumenta il rischio, tanto più aumenta il ricorso a strumenti finanziari di assicurazione contro il rischio, spingendo il sistema in una spirale catastrofica

 

 

5- Nelle braccia di Pantalone

"I profitti bancari vengono soprattutto dai titoli pubblici, grazie alle generose immissioni di capitali delle banche centrali, ma questo stringe sempre più il vincolo tra sistemi bancari nazionali e debito pubblico, cioè il circolo vizioso che l'Europa a parole vuole spezzare. Non a caso, nell'ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria, il FMI considera come indice di fragilità dei sistemi bancari il rapporto tra titoli nazionali detenuti dalle banche e il Pil, e mette l'Italia, insieme a Spagna e Irlanda, fra i Paesi più esposti [...] Se la crisi perdura, il processo di deleveraging delle banche può assumere dimensioni preoccupanti e tanto gravi da riverberare effetti negativi anche in altre aree, come Europa dell'est e America Latina [...] nello scenario negativo, la contrazione del totale attivo delle banche può arrivare al 12%, pari a 4,5 trilioni di dollari" (M. Onado, “Un vertice e troppi rinvii”, Il Sole24Ore, 20.10. 2012)

Alla fine, il disprezzatissimo Pantalone ha dovuto farsi garante in tutto o in parte di questa spazzatura, socializzando le perdite: ma Pantalone non gode ovunque della stessa forza e credibilità. L'aumento dei differenziali di rendimento tra titoli sovrani dell'Eurozona dipende dalla percezione di accresciuta rischiosità della situazione di alcuni Paesi, che fa dubitare della loro capacità di onorare il debito. L'incubo della svalutazione degli asset in portafoglio, del disvelamento del carattere in gran parte fittizio dei titoli detenuti, ha spinto i grandi fondi di investimento internazionali a fuggire dal rischio e a rifugiarsi nei lidi sicuri degli Stati ritenuti solidi, mentre i fondi speculativi scommettevano sul crollo parziale o totale della zona euro. L'attacco finanziario ha aggravato la crisi di Stati già in difficoltà e contribuito a rendere realistica la profezia implicita nella scommessa sul crollo dell'euro.

 

Questa enorme massa di capitale finanziario minacciato di deprezzamento si affida a tutte le latitudini alla garanzia dello Stato. Il sistema bancario americano e mondiale sarebbe precipitato nel caos, se la Fed con tre successivi QE (Quantitative Easing) non avesse acquistato la montagna di titoli a rischio registrati nei bilanci delle banche, inondando il mercato di liquidità. Analoga sorte per le banche spagnole, senza il passaggio di Bankia sotto il controllo dello Stato, e per l'intero sistema bancario europeo, se la Bce non avesse attuato due provvidenziali "Operazioni di rifinanziamento a lungo termine”, offrendo alle banche dell’area euro la possibilità di scontare i propri titoli alla Bce, per quasi mille miliardi di euro (8). Questo gran prodigarsi ha preservato i bilanci bancari dalla catastrofe al prezzo di un incremento del 50%, dal 2007 ad oggi, del debito degli Stati (per l'84% in quelli avanzati). Non per caso, il nodo attorno al quale si è avvitata la crisi dei debiti pubblici è la non corrispondenza tra l'area monetaria europea e uno spazio politico integrato pienamente sovrano. Qui il meccanismo di trasferimento del debito privato al debito pubblico ha funzionato male, perché a sua volta il debito pubblico non dispone di una banca centrale in grado di garantirlo incondizionatamente. In nome dell'"indipendenza" della banca centrale dai governi nella salvaguardia della moneta unica, la Germania continua a opporsi ad un'azione a tutto campo della Bce a salvaguardia della zona euro. I limiti di manovra della Bce rispetto a quelli delle banche centrali di Stati sovrani (è autorizzata per statuto a finanziare le banche, non gli Stati) riflettono interessi divergenti tra Stati riguardo alla copertura illimitata dei debiti pubblici nazionali appartenenti all'Eurozona. Le due operazioni di finanziamento della Bce alle banche (Ltro), varate per altro con l'opposizione della Bundesbank, si sono trasformate in un finanziamento indiretto dei debiti statali, poiché le banche hanno utilizzato quei fondi per acquistare titoli pubblici del proprio paese sostenendone il debito: ma questo non è servito a invertire l'andamento degli spread e a risolvere il problema. Il tutto si è tradotto in una rinazionalizzazione del debito di alcuni paesi a compensare la fuga di investimenti esteri, ma ha sovraccaricato i bilanci bancari di titoli di Stato in corso di svalutazione. Contemporaneamente, si verificava la fuga di capitali dai sistemi creditizi dei paesi in difficoltà e daii loro debiti pubblici.

 

Grafico 2: Cds sui titoli di Stato

 

In un simile contesto, gli interessi degli Stati creditori divergono radicalmente da quelli degli Stati debitori. I primi - Germania in testa - perseguono la stabilità monetaria di area e premono per politiche deflazioniste orientate al pareggio di bilancio che garantiscano il rimborso dei debiti; i debitori, per i quali una sana inflazione ridurrebbe progressivamente il peso dei debiti, non dispongono dello strumento necessario a innescarla: la creazione di moneta. Finché si mantiene la moneta unica, possono solo sperare che la Germania apra i cordoni della borsa e promuova l'espansione del proprio mercato interno con un aumento della spesa pubblica e l'apertura di una fase di crescita salariale. La speranza si scontra con l'indirizzo mercantilista tedesco centrato sull'export, ma in qualche misura si sta realizzando in virtù delle dinamiche attivate dalla crisi.

La politica monetaria della Bce, con il tasso di riferimento inferiore all'1%, è già fortemente espansiva e continua a dare sostegno ai bilanci bancari, ma da un lato non è minimamente paragonabile alle dimensioni dell'ultimo QE della Fed (9), dall'altro la presenza di interessi sul debito pubblico differenziati impedisce che si trasmetta uniformemente in tutta l'area (10). Il dato di fondo rimane l'enorme, crescente sproporzione tra la massa dei valori finanziari e i valori prodotti dall'economia "reale", la presenza di una bolla finanziaria senza precedenti che deve necessariamente giungere ad un ridimensionamento o esplodere da qualche parte. Alcuni sistemi bancari nazionali, in primo luogo quello spagnolo, sono esposti al rischio immediato di un fallimento dovuto alla massa di crediti in sofferenza o inesigibili. Se, prima della crisi, la copertura del rischio di credito era affidato a titoli finanziari divenuti spazzatuta o quasi (cartolarizzazioni, Cds, ecc..), ora sono i titoli di Stato acquistati con finanziamenti pubblici in cambio di quella spazzatura a fungere da garanzia. Lo Stato spagnolo non è nelle condizioni di farsi carico di ulteriori salvataggi attraverso un'espansione del debito pubblico e si trova nella necessità di affidarsi a Bce e Fondo salvastati. Nell'ultimo summit europeo sulla crisi dell’Eurozona (metà ottobre 2012), sono emerse più brutalmente che in passato le divergenze nette tra la posizione tedesca e nordica - ancora una volta dilatoria sull'Esm e sulla vigilanza unica - e gli altri. Il tutto si è risolto nell'ennesimo rinvio dell'intervento a favore delle banche e degli Stati in crisi, in primo luogo di quelle spagnole, cui di fatto la Germania ha negato la possibilità di attingere all'Esm. La Spagna potrà richiedere l'intervento del vecchio Fondo salvastati (Efsf), che però comporta un'emissione di titoli del debito pubblico corrispondente all'ammontare del finanziamento.

La prossima manifestazione acuta della crisi riguarderà dunque con tutta probabilità il sistema bancario spagnolo. L'attivazione degli interventi di salvataggio metterà alla prova un meccanismo che finora ha funzionato solo a chiacchiere. E subito dopo potrebbe essere il turno dell'Italia... Se ne vedranno delle belle! Intanto, emergono già alcuni segnali della tendenza a creare banche pubbliche per gestire politicamente il tracollo dei sistemi finanziari nazionali. La questione di fondo è il necessario ridimensionamento, a livello non solo europeo, ma mondiale, della redditività delle banche centrata sul commercio degli strumenti finanziari. I giganti globali, specie americani, "hanno raggiunto un grado di concentrazione sui mercati ancora superiore a prima della crisi e per di più mostrano (Fmi dixit) una preoccupante vulnerabilità dei loro modelli di businnes. L'incertezza sul futuro delle banche è tale che si moltiplicano le iniziative pubbliche". Nel Regno Unito, è stata proposta una banca pubblica per finanziare le piccole e medie imprese, e la Francia ha creato una banca pubblica per gli investimenti con una dotazione finanziaria di 40 miliardi (11).


 

6- Germania: forza capitalistica e fattori di debolezza

Le diverse condizioni del credito nell'Eurozona sono determinate oltre che dagli spread, dalla tendenza dei capitali ad abbandonare le banche dei paesi in difficoltà. In ambito europeo, il movimento dei capitali in fuga dal rischio si è manifestato dal 2011 con un forte travaso dall'area mediterranea all'area germanica e nordica. Capitali in quantità crescente defluiscono dai paesi periferici e affluiscono nelle casse delle banche nordiche, o vi rientrano (dal 2008, le banche tedesche hanno rimpatriato 550 miliardi di euro dalle banche del sud Europa). La crisi sta favorendo un formidabile processo di concentrazione finanziaria che accentua le differenze di area a favore della Germania e dei suoi satelliti nordici.

La fuga di capitali dai paesi in crisi è ben esemplificata dall'Italia, che dal 2010 ad oggi ha visto scendere i Btp nelle mani delle banche estere dal 52% al 36% del totale. Nel solo primo trimestre 2012, il calo dei depositi per le banche italiane è stato di 25 miliardi di dollari, per quelle spagnole di 42 - denari che in quantità crescente defluiscono dai paesi periferici e affluiscono nelle casse delle banche tedesche, austriache, finlandesi e olandesi, tanto da rendere superfluo il normale finanziamento sul mercato interbancario, per altro sostanzialmente bloccato dalla reciproca sfiducia delle banche. Nell'Europa forte, affluiscono investimenti anche su azioni, bond e derivati: tra marzo 2011 e marzo 2012, in Germania sono affluiti in questa forma 196 miliardi di Euro in più, mentre in Italia nello stesso periodo 192 miliardi hanno preso altre strade (12).

 

L'atteggiamento dilatorio con cui la Germania affronta l'emergenza Euro si spiega anche con la situazione enormemente favorevole agli interessi tedeschi nell'immediato. Il finanziamento del debito pubblico a tasso zero determina un obiettivo vantaggio per il sistema bancario che può a sua volta praticare alle imprese tassi remunerativi, ma estremamente inferiori a quelli che sono costrette a praticare le banche italiane o spagnole.

La forza di attrazione della Germania si esercita anche nei riguardi della forza lavoro, qualificata e non qualificata, che cerca di vendersi nell'unico contesto economico che oggi offra occasioni occupazionali, fatto che comporta una pressione al ribasso dei salari, a compensare la contemporanea tendenza alla loro crescita. Ma comincia a manifestarsi anche la tendenza al trasferimento di aziende dal Sud Europa all'area germanica, dove il mercato interno è tutt'altro che depresso e dove si godono i vantaggi di una maggiore organizzazione sistemica (agevolazione alle imprese, tempi burocratici, ecc...). La Germania nella fase attuale agisce come un potente magnete che drena risorse dalla sua immediata periferia, le concentra e le mette a disposizione del capitale nazionale.

 

L' obiettivo processo di divaricazione economica, sociale e finanziaria tra Nord e Sud Europa ha il suo fondamento nella superiorità dell'organizzazione produttiva del capitalismo tedesco e nel suo essere il centro di un processo di integrazione di area, coincidente grosso modo con la vecchia Mitteleuropa. Questa superiorità ha consentito all'economia tedesca, e di riflesso all'area nordica, di ridurre gli effetti della crisi, registrando nel 2011 una moderata crescita del Pil e una contrazione minima della produzione industriale, mentre nello stesso periodo i PIIGS, con l'eccezione dell'Irlanda, registravano una secca contrazione di entrambi.

Tuttavia, l'economia tedesca, per quanto eccezionalmente favorita dalla crisi, è tutt'altro che immune da rischi. Il sistema bancario, dopo aver sostenuto l'export delle imprese nazionali nell'Eurozona a tassi ovviamente remunerativi, ha accumulato un'esposizione di 438 M€ nei paesi euro attualmente in crisi. Nel 2011, l'esposizione verso i PIIGS si è ridotta del 7% e nei primi cinque mesi del 2012 del 25%, portandosi a 241 M€. La Bundesbank è esposta per 630 M€ nell'Eurosistema. Anche in questo caso, la Banca centrale si fa carico di addossarsi buona parte dei rischi di credito del sistema finanziario privato. Complessivamente, l'esposizione del sistema finanziario tedesco nell'area a moneta unica è di 1200 M€ (13). Le banche tedesche hanno inoltre una notevole esposizione nell'Est Europa dove non mancano elementi di potenziale crisi. Il differenziale di spread da questo punto di vista è una manna, perché garantisce al sistema di rifinanziarsi presso la Banca centrale e sui mercati a un tasso molto inferiore a quello pagato dalle banche italiane o spagnole, e su questa base lucrare ampiamente con operazioni tipo carry trade o giocando sui derivati (14). Si fa un gran parlare del passaggio alla Bce dei compiti di vigilanza sulle banche eurozona per sottrarle alla loro gestione "politica": ma in Germania il mondo bancario è interessato a escludere dalla futura - sempre che si realizzi - vigilanza comunitaria le Sparkassen e le Landesbanken, limitandola ai soli "istituti sistemici". Le sei Landesbanken, tutte pubbliche e di dimensioni ragguardevoli (rientrano tra le prime cento europee) nel recente passato hanno pesantemente investito in titoli tossici (15). Non per caso, anche in tema di vigilanza bancaria unica la Germania attua strategie dilatorie, e al summit di metà ottobre ha ottenuto di ritardare di un anno la sua introduzione, mentre rimane ferma nella volontà di limitarne la giurisdizione alle sole banche sistemiche.

Tanta forza relativa contiene dunque elementi di instabilità, sia dal lato finanziario che nelle prospettive complessive dell'economia. Il grande afflusso di capitali verso il sistema bancario e il debito pubblico determina un incremento della massa monetaria e un eccesso di disponibilità finanziaria che si sta scaricando rapidamente sui prezzi del mercato immobiliare, dove è in corso la formazione della prossima bolla. L'inflazione è destinata a crescere sotto la spinta dell'aumento dei prezzi immobiliari, del valore dei titoli finanziari, degli incrementi salariali nel settore pubblico e privato. In risposta alla crisi del 2007, il governo tedesco ha incrementato la spesa pubblica, l'occupazione e le retribuzioni nella Pubblica amministrazione, mentre spingeva gli altri al rigore (16).

In tal modo, l'inflazione, che nella memoria tedesca richiama i tremendi anni di Weimar e contro la quale sono state modellate la Bundesbank e tutta la politica monetaria del dopoguerra, uscita dalla porta rientra dalla finestra. Il paradosso è che ciò accade proprio in conseguenza dell'imposizione di politiche deflazioniste al di fuori dei confini tedeschi (17). Di per sé la crescita dei prezzi non costituisce un fenomeno negativo, almeno fintanto che esprime un aumento della domanda e una crescita della produzione. Ma questa massa di capitale finanziario in eccesso, per trovare impieghi remunerativi, alimenterà ulteriormente la speculazione, gli investimenti, le delocalizzazioni, la penetrazione finanziaria e commerciale nei mercati più redditizi.

Si riaccende così, da un lato, il circuito perverso da cui il capitalismo finanziarizzato, così in Europa come oltreatlantico, non riesce a sfuggire. L'eccesso di disponibilità di capitali - in USA, amplificato delle politiche Fed; in Germania, dal surplus commerciale e dai differenziali di spread - produce un eccesso di indebitamento (in USA, quello pubblico e privato; in Europa, quello degli Stati periferici), come riflesso della necessità/difficoltà di valorizzazione del capitale, favorisce la presenza di bolle speculative nell'immobiliare e nel credito, la tendenza al sovrainvestimento, alla crescita della capacità produttiva eccedente la crescita della domanda, in una fase in cui si profila un ristagno, se non una contrazione, dei mercati mondiali.

 

Finora, la crisi Europea ha preservato la Germania dal crollo produttivo che ha interessato i PIIGS, dandole la possibilità di attirare capitali flying to quality dai paesi periferici e di finanziare a costi bassi il sistema produttivo e la domanda interna con la spesa pubblica: ma questa condizione di favore non potrà protrarsi a lungo, ed è di per sé generatrice di nuovi e più profondi squilibri. A questo, si deve aggiungere il rallentamento della crescita cinese e degli altri emergenti. La forza del capitalismo tedesco è ancora oggi, nell'epoca epoca della finanziarizzazione, nel suo sistema produttivo manifatturiero, nella produzione di plusvalore: ma proprio l'accresciuta dipendenza della Germania dall'export la rende più vulnerabile alle ripercussioni di un calo dei commerci internazionali. I dati più recenti documentano un calo intorno al 13% dell'export tedesco nell'Europa mediterranea, ma lo scenario già annuncia una frenata dell'interscambio mondiale, di cui la Cina rappresenta attualmente il motore (18).

 

7- Morire di rigore o di spread?

 

I processi obiettivi di divaricazione fanno a pugni con le dichiarazioni di intenti per salvare l'Eurozona e la retorica dell'integrazione. La direzione e le dimensioni dei flussi finanziari hanno reso evidente l'esistenza di un nuovo assetto dei rapporti intra-europei, segnato dalla frattura Nord/Sud. La Germania, capofila del fronte settentrionale, ha continuato a ostacolare ogni soluzione in grado di dare all'Eurozona stabilità nel medio periodo. A fine giugno 2012, all'annuncio dello "scudo salva stati", è seguita la doccia fredda del rinvio dell'approvazione dell'Esm (il nuovo fondo europeo che succede al vecchio Fsfs) al giudizio della corte suprema tedesca; le attesissime dichiarazioni di Draghi su interventi a tutto campo della Bce sui titoli sovrani non ne hanno chiarito né i tempi né i modi, lasciando imprecisate importanti questioni applicative e lo stesso ambito degli interventi. Alla fine, l'approvazione dell'Esm e l'impegno della Bce a finanziare illimitatamente gli Stati in crisi hanno determinato una parziale riduzione dei famigerati spread e una limitata inversione di tendenza nei flussi di capitali, ma non han segnato alcuna svolta nella generale impasse europea. Si è trattato dell'ennesimo intervento dilatorio - non seguito per altro, a tutto il mese di ottobre 2012, dall'esborso di un solo euro - in vista di soluzioni di più ampio respiro che rimangono allo stadio di annunci e la cui realizzazione si presenta quanto meno problematica.

 

Restano a livello di dichiarazioni d'intenti questioni decisive quali la l'attivazione dell'Esm, che i nordici subordinano alla vigilanza bancaria unica e alla verifica della sua efficacia, e che intendono limitare ai nuovi debiti; sulla stessa vigilanza bancaria le posizioni sono contrastanti (vedi questione delle Landesbanken). Sullo sfondo di questa evidente impasse non mancano i richiami velleitari all'unione bancaria, fiscale... politica, ma quando si tratta di prendere decisioni operative ognuno va per suo conto.

 

Di certo è rimasta la condizionalità degli eventuali aiuti a una richiesta ufficiale degli Stati in difficoltà e all'impegno ad applicare le politiche ultrarestrittive concordate. Così, la situazione di fondo rimane invariata: di fronte alla destabilizzazione che investe paesi cardine dell'Europa come Spagna e l'Italia, la Germania detta tempi e modalità degli eventuali salvataggi, mettendo in sospeso anche la possibilità di un loro default e della conseguente dissoluzione dell'Eurozona, e lascia ai mercati finanziari la libertà di demolire la stabilità dei debiti sovrani nei paesi soggetti al rischio teorico di un default, forzando così i governi a politiche di rigore. Chi intende salvarsi deve farlo alle condizioni draconiane imposte dal fiscal-compact, dalla spending review, dalla legge morale nordica del pareggio di bilancio.

 

L'alternativa è l'uscita dallo spazio euro e il ritorno alle monete nazionali, con tutte le conseguenze e le incognite del caso. Delle due l'una: o la fuoriuscita dalla moneta unica con effetti potenzialmente catastrofici o la scure dei tagli allo stato sociale, all'occupazione, ai salari, abbinata all'ulteriore spoliazione del proletariato e delle mezze classi attraverso l'aumento del prelievo fiscale. Si tratta in altri termini di indurre una contrazione della massa salariale e dei servizi che si rifletta in un calo dei prezzi corrispondente al gap di competitività. Con l'uscita dall'euro si avrebbe lo stesso risultato in termini di svalutazione monetaria, ma anche il rischio del caos finanziario internazionale.

 

Tutto questo rigore non dà comunque garanzie sulla soluzione della crisi, dato che deprime ulteriormente il mercato interno e le prospettive, già debolissime, di crescita del Pil (19). Senza il sostegno della spesa pubblica in deficit - con ciò che ne consegue in termini di indebitamento e crisi fiscale - , l'economia dei paesi a capitalismo maturo non può crescere, come dimostra la politica dei governi USA. A meno che non sia centrata, come nel caso tedesco, sull'export: ma abbiamo visto come anche in questo caso lo Stato - trovandosi nelle condizioni di farlo - apra i cordoni della borsa per stimolare il mercato interno. L'altro paese in surplus da export (il Giappone) in vent'anni non è riuscito a rilanciare il mercato interno nonostante una politica monetaria ultraespansiva e un debito monstre (20).

 

I cosiddetti mercati queste cose le sanno bene e, indifferenti ai comportamenti virtuosi come tali, continuano a bastonare gli Stati costretti al dimagrimento, che si trovano avvitati in una spirale senza uscita: quello che riescono a risparmiare in termini di bilancio, a costi sociali altissimi, lo perdono in termini di spread crescente. Ma ci si mettono anche i meccanismi comunitari con i costi dei salvataggi che gravano sul debito anche di Stati già in crisi. Ad esempio, "dei 100 miliardi prestati a Madrid al tasso del 3%, [per il salvataggio delle banche spagnole], una ventina arrivano dall'Italia: la quale, di fatto, s'indebita a oltre il 6% per trovarli" (21) . Anche gli Stati in difficoltà hanno l'obbligo di contribuire al finanziamento dei salvataggi, a meno che non chiedano loro stessi gli aiuti. Da quel momento decade il loro obbligo di contribuire. Il problema è che se alcuni paesi in difficoltà chiedessero aiuto, rimarrebbe quasi soltanto la Germania a sostenere il peso dei salvataggi, fatto che in parte spiega la reticenza tedesca, il tempismo con cui Monti ha dichiarato che l'Italia non ha bisogno di essere aiutata e i continui rinvii del governo spagnolo della procedura di richiesta di finanziamento tramite il nuovo Fondo salvastati.

 

La classe dirigente tedesca non è così fessa da non mettere in conto i rischi per la stessa Germania in caso di crollo di una di queste economie, ma guarda con realismo ai costi dei salvataggi e alle prospettive dei mercati. Un gruppo di economisti e industriali tedeschi ha calcolato in 3700 miliardi di euro (il 150% del Pil tedesco) i costi potenziali per la Germania del nuovo Esm per salvare Spagna, Italia e ... Francia. I problemi di Italia e Spagna sono noti. L'Italia tuttavia ha i conti pubblici in ordine, cosa che non si può dire per la Francia, il cui deficit strutturale giustifica l'ipotesi di un futuro salvataggio (22). La proposta di questo gruppo per uscire dalla crisi dell'Eurozona è di affiancare all'euro un Guldmark nei paesi del Nordeuropa, affidando agli sviluppi futuri la scelta fra l'una o l'altra moneta, ed è significativo che tra i più convinti sostenitori di una rottura della zona euro non vi sia solo la Bundesbank, ma anche importanti rappresentanti dell'industria, il settore che pure ha tratto i maggiori vantaggi dall'euro. La nota proposta di uno sdoppiamento dell'euro nelle varianti nordica e mediterranea viene da un ex presidente di Confindustria, oggi molto vicino al movimento bavarese antieuropeista Freie Waehler: ma nel mondo industriale sono numerose le prese di posizione per un superamento dell'assetto monetario attuale (23).

 

Dietro quest’orientamento c'è il dato obiettivo della rapida contrazione dei mercati dell'Eurozona fatti oggetto della cura da cavallo della dottoressa Merkel. E' la stessa terapia tedesca, che si sostiene finalizzata a salvare l'assetto comunitario dal marasma, che favorisce la tentazione del distacco, togliendo ai Paesi in difficoltà quel poco di affidabilità che avevano in veste di consumatori di prodotti tedeschi. Lì ormai c'è poca trippa per gatti: meglio guardare altrove per piazzare l'ultimo modello della BMW.

 

 

8- La Germania ha una strategia?

 

Tutto ciò ci porta a considerare se c'è una strategia tedesca e quale sia. La reticenza tedesca a impegnarsi oltre certi limiti nel salvataggio dei paesi in crisi, il suo assecondare solo soluzioni temporanee a imminenti disastri, e al costo minore possibile, sono anzitutto una tattica che punta ai vantaggi immediati della situazione.

 

- Anzitutto, la politica tedesca manifesta un carattere fortemente nazionale e assai poco europeo. Finché perdura la situazione attuale, ne perdurano i vantaggi in termini di afflusso di capitali, con ciò che ne consegue per la salute del sistema bancario e industriale. La crisi rafforza la Germania economicamente e politicamente, e indebolisce gli altri. Il fatto che si indebolisca anche la capacità di alcuni Paesi di importare merci tedesche è compensato dalla proiezione mondiale del sistema produttivo tedesco.

 

- La posizione attendista è frutto delle incognite sulla sorte di Grecia, Spagna e degli altri Stati, e dei costi potenziali dei salvataggi che graverebbero in prevalenza sulle spalle della Germania, determinando il suo coinvolgimento in un'area che non occupa un posto prioritario negli interessi tedeschi e che al momento costituisce una zavorra economica.

 

- La Germania è riuscita finora e imporre la sua dottrina rigorista e deflazionista; ostacolando ogni provvedimento volto a garantire sostegno agli Stati in crisi e alle loro banche senza dure contropartite, esercita un effettivo dominio politico sull'area, basato su un brutale ricatto: o stare alle condizioni del fiscal compact o uscire dall'Euro. Una stabilizzazione di questa posizione di dominio potrebbe teoricamente anche realizzarsi in termini "europeisti" alle condizioni tedesche, con il mantenimento dell'integrità dell'area euro e una politica di bilancio comune: un'Europa germanizzata a moneta unica, con rinuncia degli Stati alla sovranità in materia di politiche di bilancio. Ciò che al momento tiene in piedi questa prospettiva è più il timore delle conseguenze di una deflagrazione dell'area che una reale determinazione a perseguirla.

 

D'altra parte, rimane forte la tentazione di abbandonare la barca che affonda, nella consapevolezza dei costi potenziali dei salvataggi e delle enormi difficoltà che si frappongono a una più elevata integrazione comunitaria come soluzione della crisi. Una maggiore integrazione europea è teoricamente auspicabile per tutti, ma è poco realistica, considerati gli interessi nazionali in ballo, le obiettive perdite di sovranità, le inevitabili resistenze alle politiche di rigore e i loro riflessi politici. Ne consegue una sorta di navigazione a vista, con adesione a iniziative che non coinvolgano in modo irreversibile nella direzione dell'integrazione e che garantiscano una via di uscita. In questo scenario di attesa di soluzioni che non arrivano (né arriveranno), mentre la classe dirigente si riempie la bocca di Europa, le tendenze reali stanno disgregando che quel poco di coesione che si era creata nei decenni passati. Con tutta probabilità, è in atto in Germania uno scontro interno tra tendenze diverse che determina una impasse logorante, destinata alla lunga a esasperare i fattori di crisi, scontro che per altro attraversa tutti i Paesi lungo la linea di demarcazione pro e contro l'euro. E' un fatto evidente che la questione europea si ripresenta ancora una volta come questione tedesca. La Germania sta prendendo coscienza della propria forza politica e si troverà nella necessità di mettere in campo una strategia che la riporti al ruolo di potenza imperialista che storicamente le spetta. In questa prospettiva, può solo rafforzare i propri legami, già solidissimi, con l'Est Europa e l'Eurasia, che si basano non solo sull'integrazione finanziaria e commerciale, ma sulla delocalizzazione produttiva e il rifornimento di vitali materie prime.

Un segnale che la Germania è orientata ad andare per suo conto viene dal no tedesco alla fusione tra la britannica Eads e la franco-tedesca Bae, che avrebbe dato origine al primo gruppo mondiale nell'aereonautica civile e militare, braccio industriale nell'Europa della difesa, ma che avrebbe anche sancito una riduzione del peso tedesco nel controllo del gruppo. L'atteggiamento della Germania in questa trattativa, poco disposto a compromessi paritari con i partners, delinea una strategia tedesca su questioni decisive che riguardano la definizione del proprio ruolo imperialista. E' anche significativo che la Germania non abbia accettato una compartecipazione con il Regno Unito, tradizionale avversario politico-militare nelle questioni europee.

 

In alternativa alla definizione di un proprio ruolo autonomo, o comunque dominante a livello di area, la Germania potrebbe solo riproporsi come attore di secondo livello, integrato nel sistema politico militare USA (possiamo immaginare la fibrillazione che attraversa gli uffici dell'intelligence americana sulla questione che ha dominato per tutto il secolo scorso e che sembrava risolta definitivamente con la Seconda guerra imperialista!).

 

9- Prospettive: polarizzazione delle nazioni, polarizzazione di classe

La ri-nazionalizzazione del debito pubblico e dei sistemi bancari europei è un processo oggettivo che prelude a una rinnovata frammentazione politica dell'Europa lungo la linea che separa il Nord tedesco dal Sud mediterraneo. La crisi conferma che non esiste un progetto politico europeo: quelle che vengono proposte sono soluzioni tecniche che servono a prendere tempo e ad allontanare temporaneamente lo scenario del crollo della moneta unica.

 

Alcuni obiettivi dichiarati sono molto ambiziosi e hanno in sé una forte valenza politica. Ad esempio, il passaggio alla Bce dei compiti di vigilanza bancaria costituirebbe un obiettivo superamento dei limiti nazionali dei sistemi bancari, ma si scontra con enormi resistenze a livello dei singoli Stati, dove i legami tra politica e finanza sono strettissimi. Gli istituti di vigilanza nazionale hanno consentito il finanziamento della speculazione edilizia in Spagna e Portogallo, la creazione di liquidità illimitata nel Regno Unito e i titoli strutturati ad alto rischio garantiti dal rating sovrano in Germania. La Germania oppone una ferma resistenza al passaggio alla Bce della vigilanza sulle proprie banche, né la Francia, tradizionalmente gelosa della propria sovranità, accetterebbe di buon grado di cedere la vigilanza sulle proprie. Per superare queste resistenze, sarebbe necessaria una determinazione politica verso l'integrazione che i fatti smentiscono continuamente e che non appartiene al Dna del fragile progetto europeo (24).

 

Il rigorismo imposto dalla Germania agli Stati spendaccioni produce a sua volta una ridefinizione degli scenari politici nazionali: i nuovi raggruppamenti tendono a non coincidere con la fasulla discriminante sinistra/destra, ma con quella pro/contro il rigorismo europeista. Da una parte, si raccoglie il moderatismo "responsabile" del centro-sinistra-destra; dall'altra, si va dai gruppi xenofobi fascistoidi alle manifestazioni della cosiddetta "antipolitica", fino alle varianti nazionalcomuniste. Questa ridefinizione interessa però tutti i paesi, anche quelli nordici e "ricchi". Il risveglio separatista in Catalogna, nei Paesi Baschi, in Belgio e in Sudtirolo esprime la volontà di liberarsi dalla zavorra fiscale ed economica dei rispettivi Sud. In Germania, il sostegno diffuso al rigore altrui è l'altra faccia della volontà di non rinunciare ai vantaggi garantiti dalla situazione attuale: come tale, è manifestazione di antieuropeismo (25).

 

Sono fenomeni che dimostrano come la crisi scuota nel profondo gli assetti sociali e agiti i ceti intermedi che hanno beneficiato di un benessere relativo in mezzo secolo e più di pace sociale. Come scrivevamo a metà degli anni ’50 del ‘900: "I ceti sociali che affondano in quel dubbio melmoso tramezzo delle vere classi sono facili ad apparire e scomparire; quando la tempesta rugge quelle grigie folle si disperdono e si annebbiano. E' facile prevedere che le forme economiche e sociali corruttrici, con cui il grande capitale le porta innanzi, si mostreranno al venire della crisi straordinariamente precarie" (Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, p.657). Tra le forme corruttrici rientra senz'altro la misera rendita spettante ai piccoli sottoscrittori del debito pubblico, che vedranno falcidiati i loro risparmi al primo default e saranno depredati dalla fiscalità incattivita dalle politiche di rigore. La fuga in luoghi più sicuri dei conti bancari non irrisori segnala già la linea di demarcazione tra i possessori di capitale e i piccoli rentiers, prossimi all'espropriazione e allo scivolamento tra i senza riserve.

 

Anche i salariati hanno beneficiato delle relative garanzie del welfare, oggi messe radicalmente in discussione. Le forme economiche e sociali corruttrici avevano alimentato l'illusione della scomparsa delle classi in un generale imborghesimento, ma le categorie salariate in se stesse, per le funzioni che svolgono nella società capitalistica, non sono immediatamente e in ogni momento classi portatrici dell’alternativa storica: lo sono entro la dinamica che sospinge necessariamente un sistema storicamente esausto alla sua fine. Solo quando questa dinamica le muove a difendere con i denti quel poco che hanno, e infine a non aver nulla da difendere, solo allora diventano agenti attivi della trasformazione rivoluzionaria della società. Nel definirsi della polarizzazione sociale, tutte queste categorie - salariati e ceti immiseriti - saranno chiamate nuovamente a schierarsi sugli opposti fronti di classe, prospettiva che obbliga ciascuna borghesia nazionale europea a fare i conti con il proprio proletariato.

 

La Germania difende il proprio modello di welfare, garanzia di pace sociale, dalle insidie di una mutualizzazione dei debiti; gli altri sono costretti a ridurre drasticamente i costi delle "protezioni sociali", aprendo la strada a una nuova epoca di conflitti che noi ci auguriamo evolvano in lotta di classe aperta.

Il dato politico fondamentale che emerge dalla crisi europea è legato alla brusca accelerazione del processo di distruzione delle forme corruttrici che hanno a lungo mascherato la natura di classe della società borghese in Europa, nate per esorcizzare il fantasma della rivoluzione e ben rappresentate dalla corrotta pletora che ancora banchetta a Bruxelles.

 

In questo senso, la linea di frattura che attraversa l'Europa, e che segue al momento la geografia di nazioni e Stati, preannuncia quella fra le classi in lotta per l'alternativa storica tra capitalismo e comunismo.

 

 

 

NOTE

 

1- "dal 2002 al 2011, la Germania ha accumulato un saldo commerciale positivo con gli altri 26 paesi della Ue di ben 1.302 miliardi, come risulta dai dati comunicati a Repubblica dal Statistisches Bundesamt - Destatis, l’Istat tedesco. [...] Di questi 1.300 miliardi di euro di avanzo commerciale tedesco, poco meno della metà, ossia 600 miliardi, provengono dai 3 principali paesi dell’Eurozona, ovvero Francia (263,3 miliardi di deficit commerciale accumulato con la Germania negli ultimi 10 anni), Spagna (178,2) e Italia (158,1), gli ultimi due, come noto, in gravi difficoltà economiche e di finanza pubblica. Anche la Grecia ha offerto il suo contributo alla ricchezza della Germania, visto che ha dato alla patria di Goethe tra il 2002 ed il 2011, grazie ad importazioni di merci tedesche di gran lunga superiori all’export ellenico, 45 miliardi di euro, ossia un terzo del piano di aiuti (130 miliardi di euro, di cui però 28 dal Fmi), previsto per tirar fuori la patria della democrazia dalle secche pericolose di una crisi economica senza precedenti[...]. E’ il caso di rilevare che i soldi guadagnati dall’economia tedesca grazie all’avanzo commerciale con la Grecia (45 miliardi in 10 anni), sono di poco inferiori alle risorse finora messe in campo dall’Ue per aiutare Atene, pari a 52,9 miliardi di euro, ai quali vanno però sommati i 20,1 miliardi di provenienza Fmi [...] L’Europa è, per la nazione della signora Merkel, una specie di Pozzo di San Patrizio, da cui trae buona parte della sua ricchezza odierna. Basti pensare che il 75,7 per cento del surplus commerciale del 2011, pari a 158 miliardi di euro, proviene dalla Ue." (Bonafede-Di Pace, “Berlino conta i dividendi dell'euro”, Repubblica, 18.6.2012)

 

2- E' previsto un surplus di 210 miliardollari, il 6% del Pil, contro 203 miliardollari del surplus cinese, il 2,5% del Pil (Il Sole24Ore del 15 agosto 2012). Sul rapporto tra export e Pil: "Se nel 2000 le esportazioni di beni e servizi producevano solo il 33,4% del totale del pil tedesco, a fine 2009 la percentuale risultava salita al 46,3% e a fine 2011 al 53,4%." (M. Bonafede, “La Germania e l'euro. Surplus da 1300 miliardi”, Affari e finanza, 16.6.12). Secondo altre fonti, la percentuale dell'export sul Pil sarebbe addirittura del 60%; per contro, per l'Italia rappresenta il 30,2%, per la Spagna il 35,5%, per la Francia il 30,6%. Il surplus tedesco sull'estero è cresciuto in percentuale sul Pil dal 5,5% del 1999 al 38,4% del 2010. Grazie all'acquisto massiccio di prodotti tedeschi da parte dei partners europei, dal 1990-2011 la Germania ha accumulato 301 miliardi di € di surplus solo con Spagna, Portogallo e Grecia; 298 con la Francia, 185 con l'Italia. Il 50% del surplus accumulato dal 2002 al 2011 riguarda i tre maggiori partners dell'Eurozona (SP, IT, FRA).

 

3- Nel primo trimestre 2012 si registra un calo del 13% di export tedesco nel Sud Europa. Stando a un recente articolo del Sole24Ore del 26.9. 2012 (“Germania esposta al contagio”), il surplus dei conti correnti che nel 2009 derivava per il 65% dall'area euro, ad oggi si sarebbe ridotto al 30%. Va considerato che paesi come Austria e Belgio, completamente integrati nell'area economica tedesca, contano nell'export tedesco come o più di Italia e Spagna; Est e resto d'Europa contano come l'Eurozona. Se nel primo trimestre 2011 il 59% dell'export totale tedesco era prodotto fuori dall'area Euro e il 39,4% fuori dalla UE, le percentuali salgono rispettivamente al 61% e al 41,6 . Un calo analogo vale per la Francia e per l'Italia, mentre la Finlandia è passata dal 68% al 72% di export extra Euro. Penati, sulla Repubblica del 7 luglio 2012, parla di "secessione" tedesca in direzione Est, riferendosi all'intensificazione dei rapporti economici con quell'area. L'export verso la Cina è aumentato del 5,8% da maggio 2011, anche grazie a un rapporto di cambio euro/yuan sceso nel frattempo del 17%. Tutti questi dati, per quanto non sempre concordi, convergono nel documentare la riduzione del peso dell'Eurozona nell'export tedesco in rapporto alle altre aree.

 

4- Il tasso di cambio effettivo reale (uno dei principali indicatori di competitività internazionale elaborati dall’Ocse) misura l’evoluzione del tasso di cambio di un paese rispetto al paniere dei tassi di cambio dei principali mercati di sbocco commerciale del paese stesso, aggiustato per tener conto della potenziale perdita di competitività derivante dall’evoluzione del costo del lavoro per unità di prodotto. Il caso dell'Irlanda, dove il tasso di cambio effettivo è diminuito di quasi 40 punti percentuali, sembrerebbe dimostrare l'efficacia di una "cura" che passi attraverso la flessione dei prezzi e dei salari, ma bisogna considerare la specifica situazione di quel paese, la struttura economica e i rapporti col capitale internazionale, che guarda con occhio più benevolo in generale all'area nordica e a quella anglosassone in particolare.

 

5- La produttività è data da un rapporto tra capitale variabile e capitale costante; al crescere di questo rapporto e al calo relativo della sua componente variabile corrisponde un aumento del plusvalore (cioè della parte di v non pagata) e del saggio del plusvalore (pv/v). Lo scopo ultimo di questa superiore produttività è in definitiva l'aumento del profitto, che cresce come massa in virtù dell'aumentata scala della produzione. La conquista tedesca dei mercati dell'Eurozona è avvenuta sulla base della più alta concentrazione dell'industria tedesca, della sua più elevata composizione organica, potenziata da una politica di contenimento salariale e di flessibilizzazione del lavoro come fattore di contrasto alla discesa del saggio del profitto, oltre che dai vantaggi della delocalizzazione a Est. Per contro, la struttura produttiva di un paese come l'Italia, con un'industria diffusa e poco concentrata, nelle fasi di relativa prosperità economica si è mantenuta a galla, anche per la possibilità di finanziarsi a basso prezzo. La forza relativa del capitalismo italiano risiede proprio nella sua bassa concentrazione, che comporta un (relativamente) basso saggio del plusvalore, ma un buon rapporto tra plusvalore estratto e capitale impiegato, grazie anche al prezzo strutturalmenta basso della forza lavoro. Ma con l'insorgere della crisi una parte consistente del tessuto produttivo si è rivelata inadeguata a fronteggiare una concorrenza internazionale sempre più aspra, anche a causa di una moneta forte. Risultati: distruzione, senza precedenti dal dopoguerra ad oggi, di capitali e posti di lavoro, chiusure di migliaia di piccole e medie imprese, acquisizioni a prezzi stracciati da parte di gruppi finanziari esteri con intenti speculativi. La trita retorica del "piccolo è bello" si è spenta tra i capannoni industriali dismessi, dove il capitalismo riafferma la sua innata vocazione al gigantismo e alla concentrazione. La stessa Fiat - uno dei pochi grandi gruppi nazionali - è oggetto di ridimensionamento a vantaggio delle produzioni statunitensi che (alla faccia del mercato e della retorica liberista) godono di consistente aiuto pubblico (Marchionne ennesimo agente del capitalismo americano nel Belpaese? La guerra economica si avvale all'occorrenza anche di simili generali!).

6- Secondo uno studio Bri su 40 banche di 14 Paesi (soprattutto USA, R.U., Francia, Germania, Olanda) salvate con 350 miliardollari, confrontate con 47 banche che non hanno avuto bisogno di aiuti pubblici, queste ultime si sono fatte più prudenti, mentre le prime hanno aumentato la percentuale di indebitamento per fare acquisizioni da registrare in bilancio come attivi. Se vale la regola too big to fail, meglio essere ancora più grossi per garantirsi futuri salvataggi. La chiamano "distorsione del mercato" (M. Onado, “La lezione che le banche non vogliono imparare”, Il Sole24Ore, 22.9.2012). Quanto ai derivati, riportiamo da M. Panara (“Tre scenari per euro e finanza", Affari e finanza, 11.6.2012): “la massa delle attività finanziarie è oggi oltre 14 volte il prodotto dell’intero pianeta, nel 2003 era pari a nove volte. Guardando dentro questa massa gigantesca scopriamo che la finanza classica tra il 2003 e il 2010 è passata da tre a quattro volte il Pil globale, a espandersi come una immensa metastasi è stata la finanza derivata da meno di sei a oltre 10 volte la ricchezza prodotta ogni anno in tutto il mondo. Ma a caratterizzare il ruolo della finanza non è solo la dimensione, si aggiungono infatti la rapidità di movimento, la totale libertà dai confini nazionali, il fatto che per larga parte sfugga a qualsiasi forma di controllo regolatorio e fiscale. Per dare un’idea, gli interest rate swap su titoli pubblici europei sono pari a 25 volte il debito sovrano del vecchio continente, una quantità che rende sufficiente un piccolo cambiamento di percezione per destabilizzare qualsiasi economia e qualsiasi paese [...]. Nessuno è in grado di controllare e quindi nessuno lo sa se chi vende derivati di varia natura ha riserve adeguate per coprirli, se chi li compra a termine ha i soldi per pagarli. L’opacità nasconde incertezze e rischi che possono trasformarsi in qualsiasi momento in temporali devastanti come quello al quale abbiamo assistito al tempo dei subprime e dal quale non ci siamo ancora ripresi".

La mancanza di regole è ormai connaturata ai mercati finanziari: non solo i Cds e i derivati sono trattati over the counter, ma anche in prevalenza i titoli di Stato! Anche per le azioni non c'è più l'obbligo di concentrazione degli scambi, proprio per effetto degli interventi regolatori (direttiva Mifid). In questo contesto, è impensabile una regressione a forme di controllo dei movimenti del capitale finanziario, e iniziative come la Tobin tax o il divieto di vendite allo scoperto sono facilmente aggirabili.

 

7- Di questa regressione dalle forme monopoliste e dirigiste al capitalismo molecolare e vitale, che ha nel proliferare della borsa nera la sua manifestazione più tipica, si parla nella nostra Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, Edizioni Il programma comunista, p.378.

 

8- M. De Cecco, “Bolla immobiliare”, Affari e finanza. Bankia, la più dissestata banca spagnola, è stata salvata dal fondo pubblico per la ristrutturazione bancaria. Da allora, il titolo azionario è balzato del 24% e 19% in due giorni. Poi è disceso del 19% per una dichiarazione del fondo pubblico: "anche gli investitori privati dovranno partecipare al salvataggio". In meno di un mese (tra luglio e agosto), il titolo è salito del 100%. I veri affari si fanno quando compare il paracadute pubblico, indipendentemente dallo stato di salute della banca. Mai investimento azionario fu più facile, salvo poi ritirarsi alla notizia che deve contribuire anche il privato investitore ("Dalla UE 100 miliardi alle banche spagnole”, IlSole24Ore, 10.6. 2012). Del resto, i grandi gruppi non diventano tali se non grazie alla simbiosi con lo Stato. Il fondo pensionistico della Norvegia, che oggi determina massicci spostamenti di capitali e che tra l'altro si sta liberando di titoli sovrani dell'Eurozona, è diventato un colosso dopo aver ricevuto un finanziamento miliardario dallo Stato nel 1996.

 

9- Il programma di QE3 prevede 40 miliardollari di acquisti mensili di titoli ipotecari da parte della Fed, oltre a quelli già stanziati in altre modalità, per stimolare l'economia in ristagno. La Banca centrale giapponese ha risposto incrementando di una cifra pari a 126 miliardollari il precedente programma di stimolo all'economia portandolo a 1000 miliardollari entro la fine del 2013. Il governo brasiliano, a proposito del QE3, ha parlato apertamente di guerra valutaria, poiché queste enormi immissioni di denaro producono un deprezzamento del dollaro e dello yen. Quale migliore stimolo all'economia nazionale di una moneta svalutata? Tuttavia, il terzo QE, non ha ottenuto, come i due precedenti, l'effetto di rilanciare il mercato azionario. Ciò dimostra che le politiche monetarie hanno un limite, che i mercati mostrano alla lunga assuefazione e scarsa reazione all'immissione di liquidità.

10- Una banca, non essendo un ente benefico, non presta a un privato riferendosi al tasso Euribor se gli interessi sui titoli di Stato raggiungono il 5-6%: "...non solo i tassi del debito pubblico, ma anche il costo del finanziamento alle imprese e quello della raccolta bancaria si sono divaricati nel giro di pochi anni, ovviamente a vantaggio dei tedeschi e a scapito dei Paesi periferici. Il tasso dei nuovi prestiti alle imprese italiane è ora circa una volta e mezzo quello pagato dalle imprese tedesche; il costo della provvista delle banche italiane, che fino al 2007 era fra i più bassi dell'area euro, oggi è il più alto e addirittura triplo di quello delle banche tedesche, che pure erano arrivate all'appuntamento della crisi con bilanci da brivido e oggi ricevono un vantaggio comparato tanto cospicuo quanto immeritato. La Bce è impegnata quindi in una vera e propria corsa contro il tempo: se queste differenze non verranno riassorbite in tempi ragionevolmente brevi, la politica monetaria non produrrà gli effetti desiderati, perché i tassi in Italia e negli altri Paesi periferici saranno troppo alti per stimolare l'attività produttiva e avere un effetto benefico per i debitori. E, ancora peggio, si rischia un indebolimento strutturale del nostro sistema bancario, che pure era indubbiamente fra i più robusti in Europa al momento in cui la crisi è scoppiata." (M. Onado, “La corsa parallela di Ben e Mario”, IlSole24ore, 15.9.2012).

11- "Il punto è che se il futuro delle banche prevede un ridimensionamento rispetto alla redditività del passato [... ] allora ha senso che [...] una parte delle funzioni del credito che attiene all'interesse generale sia svolta da istituzioni pubbliche [...] che banca vogliamo per il futuro? Qual è il sistema di regolazione e vigilanza che vogliamo per l'Europa?" ( M. Onado, “Per le banche ancora un euro-rinvio”, Il Sole24Ore, 20.10.2012)

12- M. Longo,2000 miliardi fuggiti dalle banche europee”, Il Sole24ore, 12.8.2012.

13- A. Cerretelli, “Salvare l'Euro costa meno di un divorzio tra europei”, IlSole24Ore, 22.6.2012.

14- L'ultima indagine di Mediobanca offre l'ennesima conferma: i contratti derivati continuano ad aumentare. Rispetto al prodotto interno lordo, il totale dei derivati sarebbe oggi pari al 254% in Svizzera, al 106% nel Regno Unito, al 55,3% in Francia, al 38,4% in Germania, al 15,3% in Spagna, al 10,7% in Italia (D. Masciandaro, “Una spirale da fermare”, Il Sole24ore, 20.6.2012). Complessivamente in Europa la massa dei derivati vale il 50% del Pil. Dallo scorso anno le 20 maggiori banche europee hanno aumentato l'esposizione sui derivati proprio per aggirare le nuove regolamentazioni sul capitale di garanzia (i derivati non sono conteggiati nei bilanci). La loro incidenza sul Pil europeo è salita dal 41,3 al 53,2. Il rischio potenziale è enorme: il 10% di perdite sui derivati si mangerebbe il 55,6 del patrimonio di vigilanza delle banche europee. In questo campo l'Europa sta peggio dell'America, dove il valore dei derivati è passato in un anno dal 26,7% del Pil a stelle e strisce al 32,8%. Al primo posto c'è la Deutsche Bank con il 40% dell'attivo in derivati. I grandi gruppi francesi superano il 20% di esposizione, gli svizzeri oltre il 30%. I rischi impliciti in queste esposizioni superano di gran lunga quelli connessi ad un eventuale default dei debiti sovrani. In tutto, il debito sovrano dell'Europa periferica – Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna – conta per 303 miliardi nei portafogli delle grandi banche continentali (A. Oliviero, “La mina dei derivati vale metà del Pil europeo”, il Sole24ore, 20.6.2012).

15- "... anche gli istituti tedeschi hanno i loro problemi: un eccesso di leva finanziaria e bilanci ancora pieni di titoli cosiddetti 'tossici'. Secondo le ultime analisti di R&S Mediobanca (aggiornate a giugno 2011) gli istituti che ancora devono smaltire quelle obbligazioni illiquide legate a mutui sono quelli inglesi, tedeschi e svizzeri. Credit Suisse a giugno aveva 37miliardi di euro di titoli ‘tossici’: pari al 111% del patrimonio netto. Abbastanza esposta anche la tedesca Deutsche Bank: sebbene oggi abbia la metà dei titoli ‘tossici’ del 2008, ne ha in bilancio comunque 45 miliardi. Cifra pari all'88% del patrimonio netto. Le banche italiane e spagnole, invece, hanno cifre risibili" (Pavesi, “BTP e crediti dubbi pesano sull'Italia”, il Sole24ore, 12.6.2012). Sulla situazione delle banche tedesche, vedi A. Merli, “Berlino in trincea per le sue casse”, IlSole24Ore, 24.10.2012.

16- "... perché il Pil tedesco negli ultimi quattro anni è cresciuto mentre quello italiano è molto calato? Condizione forzata di austerità? Un divario di competitività? Generalmente si pensa che l'industria tedesca stia diventando sempre più forte mentre la nostra è giudicata in crisi irreversibile da tempo. Ma non è affatto così. I dati Eurostat indicano che rispetto ai massimi del 2007 il valore aggiunto tedesco del manifatturiero nel 2011 era ancora sotto in termini reali di ben 46 miliardi (l'Italia di 33). E che la domanda estera netta tedesca lo scorso anno risultava ancora inferiore di 16 miliardi a quella del 2007 (quella italiana è peggiorata solo di 3 miliardi). Con che cosa è cresciuta dunque la Germania se non attraverso l'industria e l'export netto? Può apparire sorprendente, ma dal lato della domanda la voce aumentata di più in valore assoluto in Germania è stata la spesa pubblica (+42 miliardi in quattro anni, mentre in Italia siamo diminuiti di 400 milioni). Dal lato della generazione del valore aggiunto il settore della pubblica amministrazione tedesco è cresciuto in volume di 27 miliardi (il nostro di 1 miliardo); il settore tedesco delle costruzioni e dell'immobiliare (inclusi i lavori pubblici) è aumentato di 12 miliardi (quello italiano è crollato di 14 miliardi). In parallelo, dal 2007 al 2011 in Germania gli occupati nella Pa (che per di più hanno appena ottenuto un forte aumento della retribuzione), nella difesa, nell'istruzione e nella sanità sono aumentati di 477mila unità (in Italia si sono ridotti di 66mila)" (M. Fortis, “Berlino, Keynes e l'austerità altrui”, IlSole24Ore, 1.4.2012). L'aumento della domanda interna tedesca potrebbe costituire un fattore di rilancio dell'economia dell'Eurozona, a condizione che la Germania accetti di svolgere a livello continentale il ruolo svolto dalla la Cina nei confronti degli Usa: ha finanziato i consumi americani, e il proprio export, con l'acquisto di titoli di debito pubblico e del sistema finanziario statunitense, creando un circuito per certi versi assurdo (il venditore finanzia il compratore) ma capitalisticamente virtuoso, e sostenendo contemporaneamente il dollaro. Il rifiuto di assecondare un'"unione dei trasferimenti" significa che la Germania è orientata a mantenere l'indirizzo mercantilista votato all'export e insieme a promuovere i consumi interni con la spesa pubblica, ma a vantaggio principalmente della propria industria e dei rapporti commerciali con i nuovi partners mondiali (Cina soprattutto). Quali vantaggi ne possano trarre gli Stati sottoposti alla cura dimagrante del fiscal compact, è tutto da verificare.

 

17- Le preoccupazioni della Bundesbank su una ripresa dell'inflazione trovano giustificazione nella crescita veloce della massa monetaria In Germania (+7,8 il contributo a M2 a maggio, +5,9 quello a M3); in Italia invece si contrae (-5,9 a maggio M1) o cresce lentamente (+0,78 M3 dopo il - 0,44 di aprile). M2 dopo una flessione durata un anno è rimbalzato del 3,3%. Vedi grafici di M1 e M3 in Sorrentino, “Sull'Europa incombe lo spettro della deflazione”, IlSole24Ore, 25.7.2012. Nei Paesi in difficoltà, al contrario, lo scenario tende alla deflazione.

 

18- Nel 2011 l'interscambio tra Germania e Cina è salito del 18,9%; metà delle esportazioni europee in Cina vengono dalla Germania, che a sua volta riceve 1/4 dell'export cinese in Europa. L'anno scorso sono state aperte in Cina 5000 aziende a capitale tedesco, con 220.000 addetti. L'interdipendenza è forte, ma il rallentamento cinese è ormai un dato di fatto così come lo è la recessione di mezza Eurozona, anche se dati recentissimi segnalano un aumento dell'import cinese, dove lo sviluppo del mercato interno potrebbe compensare la contrazione degli scambi internazionali e contemporaneamente sostenerli. Questa tendenza, se confermata, va nella direzione di un rafforzamento dei rapporti sino-tedeschi. Da parte sua, la Cina nutre grandi timori sulla sorte dell'euro e non approva la mancanza di soluzioni politiche alla crisi, di cui attribuisce le responsabilità alla Germania, e già appaiono alcuni segnali di protezionismo reciproco: "La Germania, per suoi motivi interni e di politica europea, non intende garantire fino in fondo la moneta unica, nè ne prevede l'uscita. Questo lascia nell'incertezza Pechino, che di fatto non può impegnarsi o disimpegnarsi a pieno nell'euro” (A. Penati, “II vero rischio euro”, Repubblica, 31.8.12).

 

19- Uno studio Fmi - ed è singolare che un tale richiamo giunga da un organismo esperto in ... strangolamento per debito - ha calcolato che a ogni riduzione del deficit corrispondente all'1% del Pil segue una minor crescita nella migliore delle ipotesi quasi equivalente o, nella peggiore, molto superiore all'1%, in una situazione in cui mezzi di produzione e forza lavoro sono già in gran parte inutilizzati (sovrapproduzione!).

20- Il debito USA, tenendo conto dei debiti degli Stati e delle agenzie pubbliche che gestiscono i mutui immobiliari, supera in percentuale al Pil quello italiano, il Giappone si permette un rapporto debito/Pil del 200%; nel primo caso, la sostenibilità del debito poggia sul privilegio del dollaro e sulla potenza politico-militare; nell'altro, sul surplus con l'estero. E' opportuno ricordare che gli USA sono gravati da un deficit cronico dovuto a spese che annualmente sopravanzano del 30% gli introiti.

21- W. Riolfi, “Quella logica ‘perversa’ che oggi governa il mercato”, Il Sole24Ore, 14.6.2012.

22- Il deficit francese per il 2012 ammonterebbe a 12 miliardi, che diventerebbero 40 nel 2013. Questo dato si lega alle ambizioni militari francesi, non più corrispondenti al reale peso economico della Francia negli scenari europei e mondiali (si parla della costruzione di sottomarini nucleari da un miliardo l'uno).

 

23- M. Gergolet, “Kerber, l'eurodeluso che ama la Sardegna...”, Corriere della Sera, 15.8.2012, e A. Merli, “Germania esposta al contagio”, Il Sole24Ore, 26.9.2012.

 

24- A creare i maggiori ostacoli in questo percorso sono, manco a dirlo, i nordici. Per consentire all'Esm di ricapitalizzare direttamente le banche, Germania, Finlandia e Olanda chiedono che sia preventivamente attivata la vigilanza bancaria unica (limitata ai grandi gruppi sistemici) e che gli interventi dell'Esm non comprendano gli aiuti approvati prima della sua introduzione. La cosa non è indifferente, perché gli interventi a carico del fondo precedente - l'Esfs - comportano un aggravio corrispondente del debito pubblico del Paese interessato. A questo si aggiunge che l'attivazione a regime della vigilanza unica - che dovrebbe entrare formalmente in vigore dal 1/1/2013 - richiede tempi lunghi, e i "mercati" non hanno tutta questa pazienza.

 

25- Anche in Olanda - paese finora ultrarigorista e filotedesco - la prospettiva di applicare il rigore al proprio interno come condizione per conservare al Paese la tripla A di rating ha spinto il populista Partito della Libertà a togliere l'appoggio esterno al governo di centrodestra. Per poter approvare un piano di tagli, il governo ha dovuto cercare l'accordo con le opposizioni "di sinistra", e non ha fatto gran fatica a trovarlo. Poi, la variante tulipana della "Grande coalizione" ha vinto le elezioni, rafforzando il fronte pro-euro (tralasciamo la questione "Lega Nord", anticipatrice da lungo tempo della "soluzione territoriale" della crisi: la sua meschina parabola ha già dimostrato la consistenza di questi populisti in salsa padana).

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2013)

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