DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

La lotta di classe – la lotta del lavoro salariato contro il capitale, per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro, che portata al suo più alto sviluppo è lotta politica per la conquista del potere come condizione necessaria per la distruzione del modo di produzione capitalistico, dei rapporti sociali borghesi, dell’economia di mercato (libero, protetto o regolato che sia) e dell’appropriazione privata dei prodotti del lavoro – è il grande rimosso della fase attuale della storia del Capitale, almeno nei paesi di più vecchio capitalismo.

 

La classe operaia subisce la pressione del Capitale che rende sempre più miserabile e incerta la vita dei salariati, senza che, per adesso, si levi dalla classe dei “senza riserve” quel grido di battaglia che solo può incutere terrore alle classi dominanti e coraggio e audacia alla classe dei proletari. Con questo non si vuol sostenere che non ci sia contrasto sociale: c’è, ma è ben altro che la lotta di classe. Si tratta di una “conflittualità” espressa da un proletariato educato e costretto al rispetto della democrazia, ai sacrifici in nome del “bene comune” dell’azienda, della patria, della nazione, alla difesa dello Stato borghese e della sua Costituzione: un proletariato organizzato da sindacati impastoiati nello stato borghese, un proletariato che deve negoziare sempre i suoi bisogni di vita umana e piegarli all’interesse del Capitale.

 

Per chiarire la profonda differenza tra “conflittualità” e lotta di classe riportiamo quanto scrisse il nostro partito nell’immediato secondo dopoguerra: “Man mano che l’organizzazione operaia viene impastoiata nello Stato, come è oggi tendenza generale in tutti i paesi […] il problema dello svolgimento delle lotte economiche e degli scioperi in senso rivoluzionario diviene più complesso e arduo. […]. Essi possono raggiungere anche notevole ampiezza senza perciò rispondere alle esigenze di schierare il proletariato contro il principio del regime capitalistico, e senza condurre a un miglioramento nelle condizioni di lavoro. Quando il partito [o il sindacato – NdR] che maneggia tali movimenti pone come obiettivo la difesa di pretese conquiste democratiche e costituzionali […] le energie di classe del proletariato sono deviate a tutto benefizio della collaborazione di classe e della conservazione borghese” 1. Da oltre quarant’anni (cioè dal “biennio 1968-1969”, che “in Italia fu senza dubbio una fase di risveglio della classe operaia sul piano delle lotte in difesa delle condizioni di vita e lavoro, in cui la percezione reale dello sfruttamento e dell’immiserimento fu diffusa e le risposte spontanee dei lavoratori furono spesso così ampie che la volontà di reprimerle, da parte di tutte le forze politiche e sindacali, non riuscì facilmente nello scopo”) 2, non si vede la classe operaia scendere in lotta aperta e battersi per difendersi dallo sfruttamento del Capitale.

 

I grandi “momenti” di esplosione della lotta di classe, prodotti dalle contraddizioni dell’economia e del potere borghese (1870, Comune di Parigi; 1905 russo e Ottobre 1917; 1919-1920, “biennio rosso” in Italia; 1917 e 1923, tentativi rivoluzionari in Germania), hanno segnato il corso della storia del primo Novecento; punte avanzate di lotta economica dalla fine del secondo conflitto ad oggi (1943-1944 in Italia; 1968-1969 in Italia e Francia; 1980 in Polonia; 1984-1985 in Gran Bretagna) hanno mostrato che il fuoco della lotta di classe ha sempre covato sotto la cenere della “pace sociale”. Il nostro augurio (e per questo lavoriamo) è che l’inasprirsi della crisi di sovrapproduzione del Capitale, manifestatosi nel 2007 con l’esplosione della bolla finanziaria, possa sempre più approfondirsi e riportare sulla scena della storia la classe operaia con rivendicazioni esclusivamente di classe per sé. Il nostro lavoro è finalizzato dunque a liberare la classe da quelle mefitiche tendenze piccoloborghesi che fanno della rivendicazione della “democrazia” sindacale, proletaria o operaia, l’alfa e l’omega della lotta, e a far sì che essa riprenda invece la via aspra e intransigente che dalla difesa economica deve portarla all’“assalto al cielo”.

 

In merito alla “democrazia” (quella “vera”) come rivendicazione per scalzare le gerarchie dei “sindacati nazionali” cuciti sul “modello mussoliniano”, rispondendo a una “Lettera aperta” che un gruppo operaio di avanguardia aveva fatto pubblicare dalla Libreria Feltrinelli, il nostro partito scrisse: “Circa la denunzia di lesa ‘democrazia’ nei sindacati, ‘democrazia’ che non sappiamo bene come mai gli autori ritengono avvilita soltanto in questi ultimi anni, vogliamo precisare che, se per democrazia operaia si intende il corretto svolgimento della vita sindacale secondo l’organico svilupparsi dei rapporti tra i vertici e la base dell’organizzazione, questa non dipende da un meccanismo statutario, formale, costituzionale, ma dal giusto indirizzo di classe che la centrale è in grado di diffondere nelle masse organizzate. E’ così che si realizza inoltre la disciplina nell’azione e l’accordo sul programma. Se, invece, per democrazia operaia si intende la ‘libera’ esistenza di correnti e frazioni nel sindacato, come in qualunque altro organismo operaio di massa, e il ‘libero’ esercizio delle loro funzioni, allora noi diciamo che questa democrazia testimonia il prevalere dell’opportunismo in seno alle masse e in seno alle organizzazioni proletarie, e che questo prevalere non è da attribuirsi alle ‘correnti’ o frazioni, ma ad un rapporto di forze sfavorevoli all’avanguardia rivoluzionaria. Infatti, nel momento in cui la frazione rivoluzionaria comunista prevarrà tra le masse, le correnti, cioè l’organizzazione di partiti opportunisti nelle associazioni operaie, non esisteranno più, non certo per disposto statutario ma per prevalenza dell’ondata rivoluzionaria. In ambedue le accezioni della ‘democrazia’, è chiaro che una forza politica non prevale piuttosto che un’altra per la virtù taumaturgica di statuti, disposizioni formali, o simili. Ma è altrettanto evidente che, se alla ‘democrazia’ vogliamo dare il primo significato, di organico rapporto fra base e dirigenza, fra esecuzione e direttiva, allora questa è pienamente realizzata, proprio nel caso dell’inesistenza di frazioni e correnti […]. E con ciò ci sembra di aver confermato sufficientemente l’assunto fondamentale del programma comunista marxista che la democrazia è una mistificazione, e deve essere espulsa una volta per tutte dal movimento operaio anche come accezione rivoluzionaria” 3.

 

 

 

Il contratto di lavoro nel Capitale di Marx

 

Il “contratto di lavoro” è la forma specifica che, nel mondo del Capitale, sancisce la compravendita della forza lavoro, il suo prezzo, il tempo di lavoro (la giornata lavorativa) e le sue condizioni d’uso. Questo è il “contratto” – quello che oggi appare a tutti un fatto naturale e come tale da tutti accettato altro non è che un prodotto storico della lotta tra le classi sociali e quindi come tale transeunte. Perché apparisse “naturale”, un esercito di scribacchini al soldo della classe dominante borghese ha fatto di tutto per nascondere la violenza e il terrore impiegati dalla borghesia e dal suo Stato per espropriare e spogliare dai mezzi di produzione contadini e artigiani, fino a quel momento protetti dalle garanzie offerte dalle istituzioni feudali, e trasformarli così in venditori di se stessi, disciplinati operai salariati da impiegare nelle fabbriche/galere, per estorcere da loro il pluslavoro necessario.

 

Nel Libro Primo del Capitale (Sezione seconda, capitolo IV: “Trasformazione del denaro in capitale”), verso la fine del paragrafo 2 intitolato “Contraddizioni della formula generale”, Marx scrive: “La trasformazione del denaro in capitale deve essere spiegata in base alle leggi immanenti nello scambio di merci, avendo perciò come punto di partenza lo scambio di equivalenti 4. E così continua al paragrafo 3, dove il “contratto di lavoro” è definito “Compravendita della forza lavoro”: “Il cambiamento di valore del denaro che deve trasformarsi in capitale non può avvenire in questo stesso denaro, perché, come mezzo d’acquisto e come mezzo di pagamento, esso realizza soltanto il prezzo della merce che compera o paga, mentre, persistendo nella sua propria forma, si irrigidisce in pietrificazione di grandezze di valore invariabile. Né, d’altra parte, tale cambiamento può scaturire dal secondo atto della circolazione, la rivendita della merce, perché questo atto si limita a ritrasformare la merce dalla sua forma naturale alla forma denaro. Esso deve quindi verificarsi nella merce comprata nel primo atto D-M (Denaro-Merce), ma non nel suo valore, perché qui si scambiano equivalenti, cioè la merce è pagata al suo valore. In altri termini, il cambiamento può solo scaturire dal suo valore d’uso come tale, cioè dal suo consumo. Per estrarre valore dal consumo di una merce, il nostro possessore di denaro dovrebbe avere la fortuna di scoprire, entro la sfera della circolazione, sul mercato, una merce il cui valore d’uso possedesse esso stesso la peculiarità di essere fonte di valore; il cui consumo reale fosse quindi esso stesso oggettivazione di lavoro e perciò creazione di valore. E il possessore di denaro trova sul mercato una tale merce specifica - la capacità lavorativa o forza lavoro5. E ancora: “Ma perché il possessore di denaro trovi già pronta sul mercato la forza lavoro come merce, è necessario che siano soddisfatte diverse condizioni. […] Affinché la venda come merce, il suo possessore deve poterne disporre, quindi essere libero proprietario della sua capacita lavorativa, della sua persona. Egli e il possessore di denaro s’incontrano sul mercato ed entrano in rapporto reciproco come possessori di merci di pari diritti, […] quindi anche come persone giuridicamente uguali. Il perdurare di questo rapporto esige che il proprietario della forza lavoro la venda sempre soltanto per un determinato tempo6. Ne segue che “per trasformare denaro in capitale, il possessore del denaro deve trovare sul mercato delle merci il lavoratore libero; libero nel doppio senso che quale libera persona dispone della sua forza lavoro come propria merce e, d’altra parte, non ha altre merci da vendere, è nudo e spoglio, libero da tutte le cose occorrenti per la realizzazione della sua capacità lavorativa” 7. Quindi, nella sfera della circolazione “compratore e venditore di una merce, come la forza lavoro, sono unicamente determinati dal proprio libero volere, si accordano come persone libere dotate di fronte alla legge degli stessi diritti, e il contratto è il risultato finale in cui le loro volontà si danno un’espressione giuridica comune” 8.

 

Il fatto di “comprare” da parte dell’imprenditore capitalista e, da parte del proletario “nudo e spoglio”, di “vendere” sul mercato delle merci la forza lavoro è ciò che differenzia il modo di produzione capitalista da quelli che l’hanno preceduto (società antiche, feudalesimo) e da quello che lo sostituirà (comunismo = assenza del lavoro salariato). Il capitalista acquista la merce forza lavoro al solo e unico scopo di poterla sfruttare, consumare, nei luoghi di produzione, e solo finché dal suo consumo sia possibile estrarre pluslavoro/plusvalore/profitto, nella quantità necessaria all’accumulazione allargata del Capitale. Altrimenti, ove questo non fosse possibile, la forza lavoro è resa “libera” e rigettata nel mercato, come forza lavoro superflua ai bisogni di valorizzazione del Capitale, e va a far parte della popolazione di riserva, per poi essere assorbita in un eventuale futuro allargarsi dell’accumulazione capitalista.

 

Così si esprime Marx nel rendere evidente “la differenza specifica della produzione capitalista”: “Qui la forza lavoro non è acquistata per soddisfare col suo servizio, col suo prodotto i bisogni personali dell’acquirente: scopo di quest’ultimo è la valorizzazione del proprio capitale, la produzione di merci che contengono più lavoro di quanto egli ne paghi, e quindi di una parte di valore che a lui non costa nulla ma che si realizza mediante la vendita delle merci. Produrre plusvalore […] tale è la legge assoluta di questo modo di produzione. Solo in quanto conservi i mezzi di produzione come capitale, e fornisca in lavoro non retribuito una sorgente di capitale addizionale, solo in questi limiti la forza lavoro è vendibile. Le condizioni della sua vendita […] implicano quindi la necessità della sua costante rivendita e la riproduzione sempre allargata della ricchezza come capitale. Il salario […] comporta sempre per sua natura l’erogazione da parte dell’operaio di una quantità di lavoro non pagato” 9. Per questo, nel modo di produzione capitalista, “la grandezza dell’accumulazione è la variabile indipendente, e la grandezza del salario dipendente e non viceversa” 10.

 

Tracciate, col supporto di Marx, le fondamenta del rapporto capitale-lavoro salariato, dopo l’acquisto della forza lavoro, usciamo dalla sfera della circolazione, quella che per l’ideologia delle classi dominanti borghesi e i suoi pennivendoli, è il regno dei “diritti innati dell’uomo”, dove regnano… Libertà, Eguaglianza e Proprietà. Noi, scrive ancora Marx, “Abbandoniamo questa sfera chiassosa, superficiale e accessibile agli occhi tutti, insieme al possessore del denaro e al possessore della forza lavoro, per seguirli entrambi nella sede nascosta della produzione”, dove si consuma la merce (forza lavoro) acquistata: “Nel lasciare questa sfera della circolazione semplice […] dalla quale il libero scambista vulgaris attinge idee, concetti e criteri di giudizio sulla società del capitale e del lavoro salariato, la fisionomia delle nostre dramatis personae sembra aver già subito un certo cambiamento. Il fu possessore di denaro marcia in testa come capitalista; il possessore di forza lavoro lo segue come suo operaio; quegli con un sorriso altero, e smanioso di affari; questi timido e recalcitrante, come chi abbia portato la sua pelle al mercato, e abbia ormai da attendere solo che – gliela concino11. Qui, nella sfera della produzione, si svela la vera natura del rapporto capitale-lavoro: che non è un rapporto tra cose, come vuole fare intendere l’economia politica borghese, ma un rapporto sociale tra persone-uomini, in cui il proletario “nudo e spoglio”, attraverso l’accordo di un contratto formale o informale (in nero), fornisce forza lavoro in cambio di un salario: in cui cioè il “valore della forza lavoro si risolve nel valore di una certa somma di mezzi di sussistenza12, il cui valore varia al variare della “grandezza del tempo di lavoro richiesto per la loro produzione” 13, il cui “limite estremo, o minimo, […] è costituito dal valore di una massa di merci senza il cui afflusso quotidiano il depositario della forza lavoro, l’uomo, non può rinnovare il suo processo vitale; quindi, dal valore dei mezzi di sussistenza fisicamente indispensabili14.

 

In tutti i paesi in cui domina il modo di produzione capitalistico, inoltre, “la forza lavoro viene pagata solo dopo che ha già funzionato per tutto il periodo stabilito nel contratto d’acquisto […]. Perciò, dovunque, l’operaio anticipa al capitale il valore d’uso della forza lavoro; la lascia consumare dal compratore prima di riceverne in pagamento il prezzo; insomma l’operaio fa credito al capitalista” 15. Cede per un certo periodo di tempo (8-10-12-14 ore il giorno) l’uso della forza lavoro, cioè mette a disposizione il suo consumo, sottomette la sua capacità lavorativa alle condizioni imposte dallo sfruttatore capitalista. Ed è qui, nel consumo della forza lavoro nelle fabbriche-galere, che si manifesta la cruda realtà di quella che nella sfera della circolazione (mercato) appariva come “libertà”, “eguaglianza”, “proprietà”: la “libertà” non è altro che “scegliere a chi vendersi, e cambiare padrone”, o più semplicemente “scegliere fra lavorare sodo e morire di fame”; non è altro che la moderna schiavitù salariata, principio e fine della società del Capitale. Così Marx definisce la condizione della schiavitù salariata nel capitalismo rispetto alla schiavitù antica: “Come schiavo il lavoratore ha valore di scambio, ha un valore; come libero lavoratore invece egli non ha nessun valore; solamente la disposizione sul suo lavoro, prodotta dallo scambio con lui, ha valore. Non è lui che sta come valore di scambio di fronte al capitalista, ma il capitalista di fronte a lui. La sua mancanza di valore, la sua svalutazione è il presupposto del capitale e la condizione del lavoro libero in generale. Linguet lo considera un regresso; ma egli dimentica che con ciò il lavoratore è formalmente posto come persona che è ancora qualcosa per sé al di fuori del suo lavoro, e che aliena le sue energie vitali solo come mezzo per la sua vita personale” 16.

 

Da questa potente e scultorea definizione, si deve trarre e si trae la tesi che i proletari, i lavoratori salariati, possono essere e agire come persone solo fuori dal processo lavorativo, fuori dalle fabbriche, e solo fuori da essi possono assurgere alla consapevolezza politica di farla finita con il modo di produzione capitalista. Perché solo fuori dai luoghi di sfruttamento il proletariato può, organizzandosi in maniera autonoma e ponendosi sotto la direzione del partito politico di classe, assurgere alla coscienza politica della necessità della distruzione/trasformazione rivoluzionaria del capitalismo: solo così può manifestare la propria vitalità.

 

 

 

Salario e miseria crescente

Dopo questa lunga premessa che, con l’aiuto di citazioni dal Capitale e da altre opere di Marx, ci ha permesso di tracciare la posizione e la funzione del proletariato nell’ambito della società borghese, cercheremo di vedere come, attraverso le lotte, la classe operaia abbia tentato di opporsi allo sfruttamento del capitale, difendendo le proprie condizioni di vita e di lavoro, a cominciare dal salario, tramite la funzione svolta dalle “sue” organizzazioni economiche di difesa e gli accordi o i contratti di lavoro che queste hanno stipulato con il padronato.

Prima però di passare a una “storia della contrattazione”, è bene ricordare in maniera sintetica quelle che sono le leggi del salario e della miseria crescente, perché è sulla loro base, conosciuta o meno, che si fonda di necessità la lotta di classe di difesa e prendono corpo le battaglie “contrattuali”: per la diminuzione dell’orario di lavoro e per l’aumento del salario, per la sicurezza e contro gli “omicidi sul lavoro”, per la difesa delle condizioni di vita personali e familiari, per una minima protezione nelle situazioni generali di crisi – tutte lotte, in cui la difesa si trasforma spesso in sciopero, picchettaggio, occupazione di piazze e fabbriche, insomma in scontro sociale, che vede i proletari opposti alle forze dell’ordine in assetto di guerra, preposte ad assicurare alla borghesia il suo dominio.

Marx spiega dunque nel Capitale che il prezzo che il capitale paga in salario nella compravendita della forza lavoro è il tempo di lavoro necessario, cioè quella parte dell’intera giornata di lavoro equivalente al valore contenuto in media nei mezzi di sussistenza della forza lavoro stessa, che variano con l’accumulazione del capitale. Al di là di quella quota, il tempo di lavoro fornito, usato e logorato, il tempo di plusvalore (assoluto e relativo), è tempo gratuito ceduto dal proletariato.

Nella sua realtà, il salario non è una somma costante nel tempo, ma corrisponde al prezzo medio o normale del tempo di lavoro necessario. L’offerta del compratore di forza lavoro dipende dai costi della produzione e riproduzione del lavoratore e della sua famiglia in una data epoca e questo costo varia nel tempo. La legge della domanda e dell'offerta spinge verso il basso tale costo, che dipende fortemente dalla concorrenza che si fanno i proletari (in particolare, la massa della popolazione proletaria di riserva nei confronti di quella attiva): ma è la legge del valore che regola la dinamica su grande scala attorno al valore dei mezzi di sussistenza.

Il minimo, scrive Marx, vale per la classe dei lavoratori e non per il lavoratore singolo: d’altra parte, è della classe dei proletari nel loro insieme che ci occupiamo, e non del singolo. In tal senso, la valutazione del salario non può essere fatta per una frazione della classe, per un settore, per una categoria, ma deve essere fatta per l’intera classe. In tale valutazione, converge, infatti, non solo il proletariato attivo, ma anche il proletariato di riserva, in quanto massa latente, fluttuante, precaria, miserabile. La massa salariale conquistata e decisa contrattualmente con la lotta va quindi divisa per l’intera classe: si troverà allora che il tempo di lavoro necessario ha un limite nel valore medio di quei mezzi di sussistenza. E tuttavia il salario, variabile dipendente, cresce con l’accumulazione (che è la variabile indipendente).

Nel suo scritto “Il salario”, del dicembre 1847 (De Adam Editore, 1969), Marx esamina in forma sintetica la dipendenza del salario dallo sviluppo delle forze produttive e spiega che con la meccanizzazione e l’aumento della divisione del lavoro, “il lavoro qualificato si trasforma sempre più in lavoro semplice”; i costi si riducono, il lavoro diviene meno caro, la concorrenza fra lavoratori aumenta, la situazione dei lavoratori peggiora. “Il salario dipende sempre più dal mercato mondiale e quindi la condizione del lavoratore diviene sempre più casuale”. La questione è importante, ci avverte Marx: la contrattazione non è un affare locale, di categoria, nazionale: essa riguarda il proletariato nella sua totalità, anche se i protagonisti si muovono (sembrano muoversi) su un terreno locale e specifico. Inoltre, “nel capitale produttivo la parte destinata alle macchine e alle materie prime cresce molto più rapidamente di quella destinata ai mezzi di sussistenza. L’aumento del capitale produttivo non è accompagnato da un pari aumento della domanda di lavoro. Il salario pur dipendendo dalla massa globale del capitale produttivo e dalle proporzioni delle sue parti costitutive non ha alcuna influenza su questi due fattori”. In questo senso, “Ogni sviluppo di una nuova forza produttiva è anche un’arma contro i lavoratori; ad esempio, ogni miglioramento dei mezzi di comunicazione facilita la concorrenza tra lavoratori dei vari paesi e trasforma la concorrenza locale in concorrenza nazionale. Tutte le merci diventano meno care – ad eccezione dei beni indispensabili alla sussistenza”.

S’impone, a questo punto, un’osservazione di carattere generale. Seguiamo ancora Marx: “noi non consideriamo qui che un solo aspetto, il salario come tale. Ma lo sfruttamento del lavoratore ricomincia ogni volta che egli baratta il prezzo, frutto del suo lavoro, con altre merci. Il droghiere, l’usuraio, il proprietario, tutti lo sfruttano ancora una volta”. Inoltre, “disponendo dei mezzi di occupazione, l’imprenditore dispone dei mezzi di sussistenza”: quindi, anche della esistenza del proletario. “Il lavoro per sua natura è più deperibile delle altre merci: non può essere accumulato, non si può aumentarne o diminuirne l’offerta facilmente come per le altre merci”. Marx aggiunge: “Per una legge economica generale, non si possono avere due prezzi di mercato. Su mille lavoratori di uguale abilità, non sono i 950 in attività che determinano il salario, ma i 50 disoccupati […] I lavoratori si fanno concorrenza non soltanto perché l’uno si offre più a buon mercato dell’altro, ma perché uno svolge il lavoro di due. […] In caso di una crisi, a) i lavoratori ridurranno le spese o, per aumentare la produttività, lavoreranno un maggior numero di ore o produrranno di più in una stessa ora. Ma appena il loro salario è ribassato – in seguito ad una scarsa domanda di lavoro – accentuano ulteriormente il rapporto sfavorevole tra offerta e domanda, e il borghese dice allora: se soltanto avessero voglia di lavorare. E mentre si affannano il loro salario si riduce ancora di più”. Ne consegue un “vantaggio del lavoratore celibe sul lavoratore sposato, ecc., concorrenza tra i lavoratori della campagna e quelli della città”.

Che cosa succede ancora, in tempi di crisi? “b) disoccupazione totale. Riduzione del salario. Mantenimento del salario e riduzione della giornata lavorativa. c) In tutte le crisi si produce un movimento ciclico che colpisce i lavoratori. Il datore di lavoro non potendo vendere i suoi prodotti non può nemmeno assumere lavoratori. Egli non può vendere i suoi prodotti perché non ha compratori. Non ha compratori perché i lavoratori non hanno nient’altro da scambiare all’infuori del loro lavoro e appunto per questo essi non possono scambiare il loro lavoro. d) Notiamo che quando si parla dell’aumento del salario bisogna, sempre, tener presente il mercato mondiale e che l’aumento del salario non si ottiene che al prezzo di disoccupazione dei lavoratori in altri paesi”. Marx insiste dunque sempre sul carattere internazionale della lotta di classe anche sul piano della lotta economica. “Il salario minimo varia nei diversi paesi, segue un movimento storico e si avvicina sempre più a un livello assoluto più basso; tende a uguagliarsi nei vari paesi, una volta che il salario sia stato ribassato, e, se anche salirà, non raggiungerà mai il livello precedente. La riduzione del salario è relativa, è misurata in rapporto allo sviluppo della ricchezza generale. La riduzione è assoluta data la diminuzione crescente della quantità di merce che il lavoratore riceve in cambio (corsivo nostro - NdR).

Torniamo al testo di Marx sul salario: “Con lo sviluppo della grande industria il tempo diviene sempre più la misura del valore delle merci, dunque anche quella del salario. Al tempo stesso la produzione della merce-lavoro diviene sempre meno cara e costa sempre minor tempo di lavoro, man mano che la civiltà progredisce”. Marx procede poi a elencare i rimedi proposti dai borghesi per migliorare la situazione dei lavoratori: 1) il sistema delle casse di risparmio (risparmio operaio); 2) l’istruzione, in particolare l’istruzione industriale generale – altro rimedio molto caro ai borghesi; 3) la diminuzione dell’offerta di figli per diminuire la concorrenza (il rimedio malthusiano).

Poiché l’argomento centrale di questo nostro testo non è il salario, ma la contrattazione, ci limitiamo a queste osservazioni, che prendono forza dall’insieme degli scritti di Marx. Ricordiamo però ancora il “risparmio di capitale costante”, all’interno delle fabbriche, in nome del profitto, da cui traggono origine le morti sul lavoro, le malattie professionali, la presenza costante di pericoli, l’usura dei corpi e dei nervi, il maneggio di materie prime pericolosissime. Da ogni aspetto della vita di fabbrica e dell’esistenza sociale del proletariato è possibile trarre insegnamenti straordinariamente importanti, che spingono i comunisti alla lotta contro un mondo di oppressione e sfruttamento.

In tutta la sua complessità, la situazione della classe operaia gira intorno alle sue condizioni di vita e di lavoro, di cui il salario e il tempo di lavoro acquistano una centralità da cui non si può prescindere. Nella lotta contrattuale, il salario sarà determinante, in quanto esprimerà in termini pregnanti proprio quella complessità. Si chiami salario diretto (quello che si riceve in busta paga), salario indiretto (quello ricevuto in prestazioni sociali), salario differito (la pensione), il capitale, nel corrispondere in forma immediata o differita il valore contenuto nel lavoro necessario, come ha bisogno che il regime di fabbrica non consenta vuoti di produttività, di intensità del lavoro, di disciplina e di ordine, così ha bisogno della stabilità sociale, della pace sociale. Finché ciò è consentito dallo sviluppo delle forze produttive, esso non fa fatica a corrispondere quegli elementi (busta paga, prestazioni sociali e pensione). Quando la crisi divampa, tutto viene messo in discussione, non esistono diritti e conquiste, saltano la busta paga, le prestazioni, le pensioni, gli ammortizzatori sociali, l’assistenza malattia, l’orario di lavoro, contrattati in precedenza. Insieme alla rivendicazione del salario, la contrattazione comprende soprattutto quella per l’orario di lavoro, che non è qualcosa di diverso da quella per il salario, in quanto strettamente legate. E anche qui il tempo di lavoro non pagato si allunga assolutamente o relativamente come un elastico sulla base di quello pagato (sarà determinato, indeterminato, part time, flessibile, ecc). E’ nella difesa di tutte queste parti del salario e dell’orario e nel loro intreccio a ogni rinnovo contrattuale, ed anche prima, che si dimostrano la vitalità della classe operaia, la sua capacità di risposta agli attacchi del capitale e la funzione svolta dai sindacati.

Insieme con questo, occorre ricordare sempre che tutte le lotte di difesa economica, anche quelle che nell’immediato ottengono qualche vittoria, se non si elevano a (e integrano in) una lotta per la conquista del potere politico e per la distruzione del modo di produzione capitalista – e in questo è necessario e determinante l’intervento del partito rivoluzionario di classe –, sul lungo periodo sono destinate a essere assorbite e dunque sconfitte. Il che equivale a dire che la classe operaia o è rivoluzionaria o non è nulla.

 

 

Manifattura, cooperazione, e lotte per la riduzione della giornata lavorativa

 

All’origine, il capitale assoggetta la forza lavoro e gli strumenti di lavoro così come storicamente si erano formati nelle epoche precedenti. Dapprima, attraverso il lavoro a domicilio, poi riunendo nelle manifatture gli operai di diversa ed elevata specializzazione che, nella fase storica precedente il modo di produzione del capitale, svolgevano la propria attività in piccole officine come artigiani, ed erano stati proletarizzati dall’attività dissolutrice del capitale, oppure operai comuni scacciati dalle campagne. In questo periodo storico, la lotta tra capitale e lavoro salariato si concentra nella difesa delle condizioni di vita e di lavoro delle donne e dei fanciulli, nella difesa delle competenze tecniche e dei processi produttivi di cui erano portatori gli ex artigiani divenuti adesso operai e tecnici specializzati e nella lotta contro la disciplina di fabbrica, quegli ergastoli dove venivano rinchiusi i proletari per estorcere loro pluslavoro/profitto. E’ nelle fabbriche-galere che ha inizio la produzione specificamente capitalista: mentre nella fase precedente del lavoro a domicilio e nelle manifatture il processo produttivo veniva adattato all’operaio, nel lavoro di fabbrica il rapporto si capovolge – è l’operaio a doversi adattare ai nuovi strumenti di produzione che sono di proprietà dell’imprenditore capitalista. Quindi, non siamo più nella fase storica precedente del lavoro a domicilio e nelle manifatture, in cui l’operaio utilizza strumenti di sua proprietà; qui, nella moderna fabbrica capitalistica, è l’operaio che deve servire i nuovi strumenti di produzione, sotto la sorveglianza e la direzione dell’imprenditore capitalista. Questa lunga fase storica si conclude con l’avvento del sistema di Taylor e Ford: il nuovo modo di organizzare e sfruttare il lavoro salariato in fabbrica. Nel 1912, davanti a una commissione della Camera dei Deputati USA, Taylor dichiara: “La direzione [dell’impresa] deve raccogliere […] tutta la massa di conoscenze tradizionali che nel passato era patrimonio dei lavoratori e registrarla e ridurla a leggi, regole e persino formula matematica” 17.

 

Prende così avvio l’organizzazione scientifica e capitalista del lavoro dentro gli ergastoli del capitale 18. Il vecchio operaio-artigiano viene espropriato dalla sua “professionalità”, dalla possibilità di trasferire, attraverso l’ammaestramento dell’apprendistato, le proprie conoscenze degli strumenti lavoro e dei processi produttivi alle nuove generazioni di apprendisti operai: termina l’epoca dell’operaio-artigiano e inizia l’epoca dell’operaio parziale. La conoscenza, la progettazione e la direzione del sistema produttivo sono assorbite interamente dal capitale. Nella fabbrica, l’operaio è solo parte della macchina produttiva. Così Marx scrive nel Capitale (Libro Primo, Cap. XII, paragrafo 1): “La cooperazione poggiante sulla divisione del lavoro si crea la propria figura classica nella manifattura […]. La manifattura ha una duplice origine. Da un lato, operai di diversi mestieri indipendenti, per le cui mani un prodotto deve necessariamente passare fino a raggiungere la maturità completa, vengono riuniti in una sola officina sotto il comando del medesimo capitalista. […] La manifattura, tuttavia, nasce anche nel modo opposto. Molti artigiani che fanno la stessa cosa o cose analoghe, […] vengono occupati contemporaneamente dallo stesso capitale nella stessa officina. […] Dunque, il modo di originarsi della manifattura, del suo enuclearsi dal mestiere artigiano è duplice. Da un lato, essa nasce dalla combinazione di diversi mestieri indipendenti, che vengono resi unilaterali e dipendenti fino a costituire pure operazioni parziali e complementari nel processo di produzione di un unica e medesima merce. Dall’altro, sorge dalla cooperazione di operai dello stesso tipo, scinde lo stesso mestiere individuale in tutta la varietà delle sue particolari operazioni, le isola e le rende autonome al punto, che ognuna di esse diventa funzione esclusiva di un particolare operaio. Perciò la manifattura, da una parte, introduce o sviluppa ulteriormente la divisione del lavoro in un processo di produzione; dall’altra, combina mestieri un tempo distinti. Ma, qualunque ne sia il punto di partenza, la sua forma finale è la stessa - un meccanismo di produzione i cui organi sono uomini19.

 

Con l’originarsi del rapporto sociale capitalistico, si accese la lotta tra il capitalista, proprietario dei mezzi di produzioni, delle condizioni di lavoro e dei prodotti del lavoro, e gli operai salariati nulla tenenti. La lotta tra capitalisti e operai salariati riguarda principalmente la compravendita della forza lavoro, con i primi che cercano di comprarla al prezzo più basso possibile e gli operai che cercano ogni occasione per strappare ai capitalisti salari più alti. Ma con l’introduzione delle prime macchine “l’operaio combatte lo stesso mezzo di lavoro, il modo di esistere materiale del capitale: si rivolta contro questa forma determinata del mezzo di produzione” 20 con la distruzione dei macchinari. Nel corso del XVII secolo, in quasi tutti i paesi europei dove venivano introdotte queste macchine – la bandmuhle, macchina per tessere nastri e passamani, la macchina per cimare lana, la cardatrice meccanica, i filatoi meccanici – , ci furono rivolte contro la loro introduzione. La più conosciuta prese il nome di movimento luddista, che si svolse nel corso del primo quindicennio del secolo XIX in Inghilterra contro l’introduzione del telaio a vapore. A questo proposito, scrive Marx: “Le lotte salariali all’interno della manifattura presuppongono la manifattura, e non sono affatto dirette contro la sua esistenza. La battaglia contro la creazione di manifatture è condotta dai maestri artigiani e dalle città privilegiate, non dagli operai salariati” 21, in quanto l’accumulazione allargata e lo sviluppo del capitale li rendeva superflui. E continua: “Ci vogliono tempo ed esperienza, perché l’operaio impari a distinguere fra le macchine e il loro impiego capitalistico, e perciò a spostare i suoi attacchi dal mezzo di produzione materiale alla sua forma sociale” 22.

 

Oggigiorno, tutta una serie di pennivendoli delle mezze classi e di scribacchini del capitale attribuiscono la disoccupazione, la distruttività e l’alienazione totale (la mercificazione non solo della forza lavoro, ma di tutti gli aspetti della vita, e anche degli organi del corpo umano), prodotte dalla società del capitale alle macchine, alle nuove tecnologie, alla “Tecnica”, nuovo Moloch totale e totalizzante che tutto sovrasta e domina, e non alla “forma sociale” capitalista. Ma l’operaio, con il tempo e l’esperienza storica e teorica condensata nel suo partito di classe, comprende che tutto ciò appartiene alla dinamica del capitale e che soltanto la distruzione della “forma sociale” capitalista può liberare il proletariato dalla schiavitù salariata e dall’alienazione e con esso liberare l’umanità dalla infame società mercantile borghese. Nel suo costituirsi in classe contrapposta al capitale e alla borghesia, la classe operaia ha dovuto “inventarsi” gli organismi economici per la difesa del salario e delle condizioni di vita e di lavoro contro la determinazione dispotica della classe dominante, contro le angherie in fabbrica, contro le molestie sessuali e i maltrattamenti fisici, contro il codice di fabbrica dove “alla frusta del sorvegliante di schiavi subentra il registro dei delitti e delle pene del capo-reparto o del capo-officina23 - codice di fabbrica, in cui “il capitale formula in termini di diritto privato, e di suo arbitrio, la propria autocrazia sugli operai” 24.

 

Inoltre, il proletariato, per assurgere a classe per sé e non per il Capitale, si è dovuta costituire in partito politico con la pubblicazione del suo programma storico, il Manifesto del Partito Comunista (1848). Le grandi lotte della classe operaia, a livello nazionale e internazionale, che hanno tracciato un solco storico sul quale si devono incamminare le nuove generazioni di proletari, si sono svolte come vere guerre sociali tra capitale e lavoro salariato e hanno fatto sì che il proletariato e il suo partito traessero insegnamenti e lezioni sia per il futuro scontro rivoluzionario sia per l’immediata lotta di difesa economica. Lotta di classe storica è stata e sarà quella per la limitazione della giornata lavorativa. Come scrive Marx, “La fissazione di una giornata lavorativa normale è il risultato di una lotta plurisecolare fra capitalista e salariato25. L’istinto del capitalista nella sua smisurata fame di pluslavoro è quello di allungare il più possibile la giornata lavorativa, di spremere e consumare senza riguardi né morali né fisici per tutte le 24 ore del giorno la forza lavoro. Nella sua fame di pluslavoro, il Capitale ruba “il tempo necessario per nutrirsi di aria pura e di luce solare. Lesina sull’ora dei pasti e, se possibile, la incorpora nello stesso processo di produzione, in modo che i cibi vengono somministrati l’operaio quale puro mezzo di produzione, così come si somministra carbone alla caldaia” 26. I periodi che il salariato dovrebbe dedicare “per sviluppo delle capacità intellettive, per l’adempimento di funzioni sociali, per i rapporti umani e di amicizia, per il libero gioco delle energie fisiche e psichiche” 27 sono perdite di tempo da eliminare: tutto il tempo disponibile deve appartenere alla valorizzazione del capitale. Scrive ancora Marx: “Il capitale non si dà pensiero della durata di vita della forza lavoro; ciò che unicamente lo interessa è il massimo che può mettere in moto durante una giornata lavorativa. Ed esso raggiunge lo scopo abbreviando la durata in vita della forza lavoro […]. La produzione capitalista, che è essenzialmente produzione di plusvalore, estorsione di pluslavoro, produce quindi col prolungamento della giornata lavorativa non soltanto il deperimento della forza lavoro umana, che deruba delle sue condizioni normali, morali e fisiche, di sviluppo e di auto esplicazioni, ma il precoce esaurimento e la prematura estinzione della forza lavoro stessa: allunga per un certo periodo il tempo di produzione dell’operaio abbreviandone il tempo di vita28. “Dopo che il capitale aveva messo secoli per prolungare la giornata lavorativa fino al limite massimo normale […] fino alla barriera della giornata naturale di 12 ore, con la nascita della grande industria nell’ultimo terzo del secolo XVIII si ebbe un precipitare come di enorme, travolgente valanga. Ogni confine di morale e natura, di sesso ed età di giorno e di notte venne abbattuto” 29.

 

Contro questo impulso del capitale a prolungare la giornata lavorativa e far lavorare a morte la forza lavoro, la classe operaia intraprende una lunga lotta per la riduzione della giornata lavorativa, per la limitazione del lavoro dei fanciulli, delle donne e del lavoro notturno, che raggiunge punte di guerra civile: per la vita, contro l’istinto necrofilo del capitale. La storia di questa lunga, dura e aspra lotta, mostra che “l’operaio isolato, l’operaio come libero venditore della sua forza lavoro, a un certo grado di maturità della produzione capitalistica soccombe senza resistenza. L’instaurazione di una giornata lavorativa normale è quindi il prodotto di una lenta è più o meno nascosta guerra civile fra la classe capitalistica e la classe lavoratrice” 30. Nulla caratterizza meglio lo “spirito del capitale” che la storia della legislazione di fabbrica inglese dal 1883 al 1864, che tra le furiose proteste dei fabbricanti impose la limitazione dell’orario di lavoro. La legge del 1883 proclamava che “la giornata lavorativa normale” di fabbrica nel settore tessile doveva iniziare alle ore 5,30 e finire alle 20,30 e che entro tale periodo di 15 ore si potevano impiegare adolescenti fra i 13 e i 18 anni per 12 ore il giorno (per i fanciulli dai 9 ai 13 anni l’orario di lavoro era limitato alle otto ore giornaliere). La legislazione inglese dal 1833 al 1864 subì la stessa sorte dei cinque Factory Acts emanati dal 1802 al 1833: il Parlamento fu così furbo (ah, la democrazia!) da non assegnare neppure un soldo per la sua attuazione. Nella cittadina di Nottingham, nel suo palazzo municipale, il 14 gennaio del 1860, si tenne una riunione per discutere delle condizioni di lavoro degli operai addetti alla fabbricazione di merletti: “il giudice di contea ha dichiarato che nella popolazione addetta regna un grado di sofferenza e privazione ignoto al resto del mondo civile. Alle 2, 3, 4, dell’alba, fanciulli in età di 9 o 10 anni vengono strappati dai loro sudici giacigli e costretti a lavorare fino alle 22, alle 23 e alle 24 per la nuda sussistenza, cosicché le loro membra si consumano, il loro corpo si rattrappisce e i tratti del loro volto si ottundono, e la loro essenza umana si irrigidisce in un torpore di pietra, raccapricciante anche solo a vedersi” 31. L’agitazione per la riduzione della giornata lavorativa raggiunse il culmine nel periodo 1846-47 con la lotta per le 10 ore, che malgrado l’opposizione dei libero scambisti il Parlamento votò. Il capitale allora si lanciò in una campagna per impedire che la legge fosse integralmente applicata l’1 maggio 1848. “I fabbricanti […] scoppiarono in aperta rivolta, non solo contro la legge delle 10 ore, ma contro la legislazione che, dal 1883, cercava di imbrigliare il ‘libero’ dissanguamento della forza lavoro” 32: cominciarono a licenziare, urlando che la canaglia operaia otteneva un salario da 12 ore per un lavoro di 10 ore. Gli operai, che fino allora avevano opposto una resistenza passiva, adesso presero a protestare minacciosamente, e così si arrivò a un compromesso, confermato dal Factory Act del 5 agosto 1850. Con la vittoria nei più importanti rami dell’industria, che sono la più genuina forma di produzione moderna, il principio della limitazione della giornata di lavoro si era imposto.

 

In Francia, ci volle la rivoluzione del 1848 per imporre la legge delle 10 ore, poi cancellata nel Secondo impero da Napoleone il piccolo, a dimostrazione che nella società del capitale tutto svanisce se non si lotta per mantenere ciò che si è conquistato con la lotta. Negli Stati Uniti d’America, il movimento operaio era bloccato dall’esistenza della schiavitù dei neri negli Stati del sud: non poteva esserci emancipazione dei lavoratori, finché una parte di essi era ridotta in catene. Con l’abolizione della schiavitù, “il primo frutto della guerra civile è stato l’agitazione per la giornata delle otto ore […]. Il congresso generale operaio americano dell’agosto 1866 a Baltimora dichiara: ‘la prima e grande necessità dell’ora presente, per emancipare il lavoro dalla schiavitù capitalista, è l’adozione di una legge che fissi a otto ore la giornata lavorativa’ [...]” 33.

 

Contemporaneamente – a Ginevra, ai primi di settembre 1866 – , il primo congresso europeo dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, su proposta di Marx, dichiara: “Consideriamo la riduzione delle ore di lavoro la condizione preliminare, senza di cui gli ulteriori sforzi di emancipazione devono necessariamente fallire[...]. Proponiamo 8 ore come limite legale della giornata lavorativa” 34.


 

(I – Continua)

1 “Il marxismo e la questione sindacale II”, Battaglia Comunista, n. 3/1949 (ricordiamo che allora era questo il nostro organo di Partito).

2 “Per non dimenticare”, Il programma comunista, n.5/2008.

3 “Il partito di classe è uno solo”, Il programma comunista, n. 3/1968 (ripubblicato in “Per non dimenticare”, cit.).

4 K. Marx, Il Capitale, Libro Primo, UTET 1975, p.259.

5 Ibidem, p.260.

6 Ibidem, p.261.

7 Ibidem, p.262.

8 Ibidem, p.271.

9 Ibidem, pp.788-789.

10 Ibidem p. 790.

11 Ibidem p. 271.

12 Ibidem p. 266.

13 Ibidem p. 266.

14 Ibidem p. 267.

15 Ibidem pp. 268-269.

16 Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. 1, La Nuova Italia 1978, pp.274-275.

17 Cit. in “Operaio parziale”, N+1, n. 1/2000, p.17.

18 "Il River Rouge [il maggiore stabilimento Ford] era un grande campo di concentramento basato sulla paura e la violenza fisica”(Irving Bernstien, Turbulent Years: A History of the American Worker 1933-1941, Boston, Houghton Mifflin, 1969, p. 737, cit. in F. Gambino, “Critica del fordismo della scuola regolazionista”, http://www.intermarx.com/temi).

19 K. Marx, Il Capitale, Libro primo, UTET, 1975, pp. 462-464.

20 Ibidem p. 567-568.

21 Ibidem p.569.

22 Ibidem.

23 Ibidem, pp. 563-564.

24 Ibidem, p. 563.

25 Ibidem, p. 381.

26 Ibidem, p. 374.

27 Ibidem.

28 Ibidem, p. 375.

29 Ibidem, pp. 389-390.

30 Ibidem, p.415.

31 Ibidem p. 350.

32 Ibidem p. 399.

33 Ibidem p. 417.

34 Ibidem p. 418.

 

Partito Comunista Internazionale

(il programma comunista n°06 - 2012)

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