DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

La più recente delle fantasie neoriformiste, alimentata già dalla prima crisi della metà degli anni ‘70 del ‘900 e propagandata regolarmente e con insistenza all’erompere di nuove crisi di sovrapproduzione, è la rivendicazione del “reddito di cittadinanza o di esistenza”. La sceneggiatura è quella di una società avanzata e costituita ormai da un’immensa massa di disoccupati, precari, inoccupati, affamati, mendicanti, poveri, effetto reale e ultimo della crescita straordinaria della produttività, dell’intensità, degli orari di lavoro insopportabili, che pesano su una massa sempre più ridotta di lavoratori salariati attivi, a profitto di capitalisti, ceti medi improduttivi, commercianti di merci e denaro, parassiti di specie diverse. Il diritto a riscuotere un “reddito di esistenza” non sarebbe determinato dall’essere sfruttati, ma dal fatto di esistere e dall’appartenenza nazionale: esso si presenterebbe come “titolo di proprietà”, come assegno vitalizio, come credito non legato ad alcun lavoro né ad alcuna ricerca di lavoro. L’attuazione di questa proposta vedrebbe in circolazione due specie di entrate: il salario da lavoro e il reddito da non lavoro, quest’ultimo distribuito a titolo gratuito dallo Stato – reddito che si auspica possa trasformarsi in lavoro di tipo speciale, di carattere autonomo, “scelta libera del soggetto” (?).

 

 

 

Che si tratti del vecchio gioco delle tre carte (una sottrazione mascherata di plusvalore), che nasca da un incremento di sfruttamento ad hoc o da una sottrazione di una parte del lavoro necessario, pare non sia chiaro ai neo- esperti. L’abbattimento della proprietà privata non è preso in considerazione: semmai, se ne ha qui l’eterna riconferma. Rimane fuori della portata dei proletari la proprietà sui mezzi di produzione, sulle materie prime, sui prodotti e quindi sul plusvalore, che resta invece nelle mani della classe borghese dominante e del suo Stato (e che deve anzi aumentare). Da una parte, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo continuerebbe; dall’altra, un assegno “impedirebbe” (?) la miseria di coloro che sono stati lasciati fuori dal lavoro attivo nelle diverse congiunture capitalistiche. L’ignoranza della realtà capitalistica tocca in queste proposte i suoi vertici. Salvare il capitalismo è l’aspetto ripugnante di questo neoriformismo. E’ un’operazione che non smette mai di trovare adepti: anzi, più cresce la produttività, più cresce “la corte dei miracoli” di chi vi si accosta.

L’appartenenza nazionale relativa alla riscossione dell’assegno è proprio la dimostrazione del carattere miserabile, nazionalista, patriottico, di questa proposta. Alla domanda se questo reddito favorirebbe l’immigrazione, la risposta che viene in soccorso è questa: “Non è vero. L’introduzione del redditto di cittadinanza si accompagnerebbe ad una revisione delle condizioni di attribuzione della nazionalità. Lo status di cittadino deve poter essere raggiunto solo a determinate condizioni; in particolare quella di un sufficiente inserimento nella società e di partecipazione attiva ad essa”. Che i buoni e bravi cittadini rispettosi della Legge si facciano avanti! Alla osservazione: “Ma così si diventa tutti degli assistiti!”, la risposta è conseguente: “l’individuo, una volta munito del necessario, proverà il bisogno di agire e di realizzarsi”. Provate a non ridere: tutto ciò dovrebbe avvenire in una società in cui la maggioranza della popolazione, lavorando attivamente fino allo stremo delle forze, fino a perderci la vita, e creando quel tale plusvalore (che si aggira intorno alle sette ore giornaliere), rimane entro i limiti della miseria! Alla domanda: “come finanziare una tale proposta”, ecco la risposta: “certo un tale reddito non può essere una cosa miserabile, ma deve essere compatibile economicamente e finanziariamente con il bilancio dello Stato. […] Inoltre il suo ammontare deve essere indicizzato con l’inflazione”. Avanti, popolo, alla riscossione!  

Per altro, la proposta riformista prevede il ritorno a un’attività lavorativa autonoma. Ora, l’aspetto essenziale del processo capitalistico è la produzione associata, socializzata, non la produzione artigiana, individuale, autonoma. Il ritorno alle forme autonome del passato (familiari, individuali) è la dimostrazione del carattere reazionario di quest’ideologia. Marx fa rilevare in modo netto il carattere di quella conquista storica: “Lo stesso macchinario può essere raramente impiegato con successo per ridurre il lavoro di un individuo: si perderebbe più tempo a costruirlo di quanto ne potrebbe essere risparmiato ad applicarlo. Esso è realmente utile quando agisce su vasta scala, quando una singola macchina può aiutare il lavoro di migliaia di individui.” (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 1857-58, La Nuova Italia, vol.I, pp. 412-413).

Marx spiega ancora che l’origine della proprietà nella forma capitalistica e del titolo di valore (plusvalore) che l’accompagna sta nella produttività del lavoro. Il parassitismo della classe dominante e dei suoi servi nasce proprio dallo sfruttamento della forza-lavoro e dalla produttività che riduce sempre più il lavoro necessario, la parte salariale legata ai mezzi di sussistenza (e alle condizioni di vita sociali). La quota aumentata di plusvalore corrispondente si converte in nuovo capitale costante (fisso e circolante): ovvero, in proprietà capitalistica accresciuta e in un capitale variabile in una quota sempre più piccola rispetto al capitale costante. Quando l’intero mondo è stato colonizzato dalla forma capitalistica avanzata, quando un unico grande mercato del lavoro è sottoposto alla disciplina del capitale, quando il macchinario, la tecnologia, l’automazione, l’informatizzazione si sono accampate sull’intero pianeta, allora la produzione di proprietà (di plusvalore e quindi di parassitismo generale costituito dalla massa di servi, galoppini, sottoproletari al servizio della classe dominante) si è estesa in forma gigantesca, perché estesa è la messa fuori produzione dei lavoratori a causa dell’aumento della produttività. Nella visione riformistica, si ha il coraggio di affermare che, se questo reddito guadagnasse nel confronto con il salario, la liberazione dal lavoro salariato potrebbe essere possibile: la distribuzione di un assegno libererebbe dall’angoscia del cercare lavoro, dell’accettare un sussidio di disoccupazione, e il versamento ricevuto fin da piccoli potrebbe essere conservato e accumulato fino al momento in cui si decidesse di mettere in atto un lavoro autonomo, ovvero... tornare al mondo dei Puffi. L’imbecillità procede a rotta di collo perché si afferma anche, in piena libertà, che “il valore” di questa tessera dovrà essere fissato al livello del salario minimo garantito o dovrà avere come punto di riferimento la soglia di povertà! Non solo. Si pensa di trasferire in essa una parte dei fondi oggi assegnati alla protezione sociale: il reddito di cittadinanza si sostituirebbe allora ai meccanismi redistributivi e degli aiuti sociali attuali. Se questo è tanto, che il cielo ci salvi da queste rivendicazioni “rivoluzionarie”!

Produzione di plusvalore significa riduzione della parte di giornata lavorativa destinata al lavoro necessario al sostentamento dell’operaio e della sua famiglia, alla cure della prole e degli anziani, al fabbisogno adeguato alle condizioni sociali di esistenza, al di sotto delle quali c’è solo il titolo di povertà.    

Nella società capitalista, questa riduzione del tempo di lavoro necessario per produrre maggior plusvalore impone condizioni generali di esistenza della classe proletaria sempre più gravose (creando, al polo opposto, estreme condizioni proprietarie di ricchezza), cui devono soccorrere il prolungamento della giornata lavorativa, l’aumento dei ritmi di lavoro, la reperibilità giorno e notte... Nella società socialista, la riduzione del lavoro necessario (non più commisurato al valore) a due, tre ore (cosa già oggi possibile, dato lo sviluppo delle forze produttive, il livello della tecnologia, ecc.) permetterà di aumentare il “tempo liberato”, dedicato al riposo, alle relazioni sociali e alle più alte facoltà delle nostre dotazioni di specie.

In questo neoriformismo (vecchia conoscenza: niente di nuovo nel fitto buio capitalista), c’è solo qualche pendolino da far oscillare davanti agli occhi allucinati dei clienti di Mirabilandia.

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