DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

L’entrata in lotta di strati e ceti sociali non operai o proletari, ma ascrivibili a un ceto medio sempre più colpito e rovinato dalla crisi attuale, pone problemi di carattere teorico legati all’atteggiamento pratico da tenere nei confronti di tali soggetti sociali.

E’ chiaro che piccoli autotrasportatori, contadini, pescatori, ma anche in genere piccoli artigiani e commercianti, il cosiddetto popolo della partita Iva, studenti, ecc., stanno sentendo e subendo la crisi pesantemente e che, anche per molti di essi, come ormai per molti proletari, arrivare alla fine del mese sta diventando sempre più difficile se non impossibile. Le mobilitazioni in atto agli inizi dell’anno, pari al malessere sentito e senza precedenti per durata e consistenza, rappresentano una lotta disperata per evitare di cadere nel proletariato, nell’“esercito di riserva”, non foss’altro perché, con la crisi attuale, questo si ingrossa sempre più per la crescente disoccupazione operaia e  non offre  possibilità di “riutilizzo” della forza lavoro nemmeno ai tradizionali “venditori”: una lotta che li vede strenuamente avversi all’aumento continuo dei prezzi delle materie prime (soprattutto del gasolio, dei pedaggi autostradali o dei traghetti), ma anche alla concorrenza dei grandi monopoli internazionali, che li costringe a indebitarsi con gli usurai (le banche ovviamente fanno spallucce) e con lo Stato e che li vede vessati sia dagli uni, coi loro alti interessi, che dall’altro, il quale non lesina, per recuperare i suoi crediti, azioni non meno criminali dei primi, come il sequestro stesso delle abitazioni.

Se oggi fosse in piedi un proletariato combattivo e organizzato da comunisti rivoluzionari e internazionalisti in direzione dello scardinamento dei vari apparati statali di difesa dell’ordine borghese, occasione che si verifica in rari momenti storici (ma che l’attuale crisi fa apparire sempre meno lontana), tali strati sociali, con le loro lotte, avrebbero potuto infoltire e rafforzare la schiera dei proletari più combattivi e, trascinati dalla loro forza e decisione, costituire alleati convinti. Purtroppo, il proletariato oggi non esiste in quanto classe lanciata verso i suoi storici obbiettivi e si trova ancora nell’abisso dove l’hanno buttato ormai 90 anni di controrivoluzione borghese, nella forma nazifascista prima, democratica poi, staliniana e riformista sempre. Da tale abisso, sotto l’incalzare sempre più duro della crisi, esso stenta a risalire e si trova ancora a fronteggiarla in uno stato di  estremo isolamento e divisione. L’“unità operaia”, di cui si riempivano un tempo la bocca gli stalinisti del PCI e di cui ancora cianciano neo-stalinisti e le attuali organizzazioni sindacali di regime, era ed è una frase  tanto pomposa quanto fasulla, dietro la quale è stata spezzata nel tempo ogni vera, reale unità, magari solo parziale o di categoria, che i lavoratori mettevano in atto. Dietro quella frase, vi era e vi è solo la politica della collaborazione di classe, della subordinazione degli interessi proletari a quelli dell’economia nazionale – in altre parole, a quelli del padronato e del suo Stato. Gli effetti di tale politica di collaborazione sono sotto gli occhi di tutti: gli operai, sebbene colpiti sempre più duramente, ritrovandosi disperatamente soli, lasciati a se stessi, non riescono a dare ancora risposte valide ad arginare in qualche modo l’attacco portato nei loro confronti. Subiscono così tutti gli effetti della crisi in termini di licenziamenti, cassa integrazione, mobilità, flessibilità, disoccupazione, ecc. Nessuna meraviglia se in tale situazione l’iniziativa della combattività è tenuta dai suddetti strati sociali, anche in termini di compattezza o di durezza dello scontro contro i grandi interessi economici e l’apparato statale. Non è certo una novità il fatto che siano proprio i ceti medi impoveriti, più disagiati, a reagire o a lanciare un segnale di lotta, a dare a volte l’“esempio” – e che possano perfino, in certe condizioni, rimettere in movimento e dare forza al fronte proletario. E’ il gigante proletario che però, a un certo momento, dovrà pur rimettersi in marcia e riprendere l’iniziativa nelle proprie mani, perché solo esso possiede potenzialmente la forza, se ben compatto e organizzato, di contrastare validamente gli attacchi del capitale, ma soprattutto di spezzare, alla testa di tutti gli strati sociali combattivi, la macchina statale posta a salvaguardia del sistema economico capitalistico.

 

Corporativismo e lotta di classe

L’accusa che si sente spesso rivolgere contro le lotte di strati sociali o movimenti come quello dei “forconi siciliani”, ecc., è che essi rappresentano “interessi corporativi”. Lanciano tale accusa benpensanti politici e gazzettieri di ogni colore (con sempre sulla bocca il “bene comune nazionale”, l’“unità nazionale”), veri servitori fedeli e timorosi degli interessi di una frangia ben più  minoritaria e ultracorporativa di quella rappresentata dagli attuali movimenti: quella cioè dei grandi gruppi industriali e della finanza, alla guida degli stati nazionali, con interessi economici rivolti in ogni parte del mondo a loro esclusivo vantaggio e tornaconto. Tali lacchè in veste di “difensori del bene comune”, tra cui i grandi sindacati di regime, di fronte allo sfacelo economico e al crescente malessere sociale, lanciano continui appelli affinché i vari gruppi sociali, le suddette categorie e movimenti, ma soprattutto i proletari, precari, disoccupati, ecc., aspettino ancora, fiduciosi e soprattutto tranquilli e in buon ordine, che il sistema economico possa riprendersi, magari a forza di misure rigorose “ tecniche” e “imparziali” come quelle cui stiamo assistendo in questi giorni. Nel frattempo, sono proprio quei grandi gruppi della finanza, i dirigenti dell’economia nazionale, che dalla crisi presente traggono i maggiori vantaggi, accentuando ancor più i loro interessi corporativi, cercando di rastrellare quanti più profitti e rendite possibile, raschiando perfino il barile, a danno non solo dei soliti, di coloro che vivono di salari, stipendi e pensioni, ma anche di quelli che possedevano e possiedono piccoli capitali per le loro imprese, professioni, ecc., e che adesso vedono pararsi davanti lo spettro della fame o della miseria. Quale diavolo di “interesse comune nazionale” hanno rappresentato e rappresentano le piccole lobby di potentati che in tutto il mondo hanno concentrato nelle loro mani gran parte delle ricchezze prodotte dal lavoro salariato? quale fiducia può essere ancora riservata a coloro che, in tutta evidenza e in forza delle stesse leggi del capitale, si arricchiscono continuamente, lasciando nella miseria e nella disperazione più nera gran parte della popolazione? I servitori di tali potentati – politici, tecnici, sindacati, mass media – trovano pericolose le lotte che quei movimenti mettono in campo! Ma gran parte di questi non fanno che difendersi e resistere per non soccombere, per evitare il fallimento; altri ancora tentano solo di difendere privilegi e rendite che il sistema economico stesso ha loro concesso per farsene suoi difensori, legandoli a questo o quell’altro gruppo di potere, che se ne faceva a sua volta “garante”. Quale sarebbe dunque il pericolo della loro discesa in campo? In realtà, il pericolo non è rappresentato tanto dalla strenua difesa dei loro interessi economici, siano questi di pura sopravvivenza o di difesa di posizioni di rendita, ma dal fatto che queste  azioni possano rappresentare il segnale o la miccia per la discesa in campo di un avversario ben più temibile, quello proletario, in una situazione in cui la polveriera comincia forse a prepararsi e prendere una qualche consistenza. D’altra parte, il vero pericolo corporativo per i difensori del sistema capitalistico, non ultimi i cosiddetti partiti di sinistra vecchi e nuovi e i sindacati di regime, è stato sempre rappresentato dalle lotte proletarie, quando travalicano gli argini posti dagli stessi difensori, costituendo un pericolo per azioni non più controllabili o “concepibili” per coloro che avevano a cuore anzitutto la “compatibilità col sistema”. Quante volte i proletari, ingaggiando lotte di una qualche consistenza o durata, anche se limitate alla sola fabbrica o categoria, si sono sentiti lanciare addosso l’accusa di essere “corporativi”! La lotta di classe, quella vera e non quella declamata retoricamente, per i capi dei partiti politici e sindacali legati a fili doppio alle sorti del capitale dal dopoguerra ad oggi, equivale a “lotta corporativa”, perché essa “non si coniuga” con gli interessi nazionali e padronali! perché l’unica lotta concepibile, per loro, è quella che possa piegarsi e subordinarsi agli interessi del sistema capitalistico, spacciato ovviamente come “bene nazionale comune”! Questi signori, da decenni, non fanno che educare i proletari a considerare ogni vera lotta di classe come lotta corporativa, cioè come lotta egoistica, di un gruppo particolare della nazione. I loro richiami e appelli suonano come quelli aperti e tradizionali della classe dominante: è vero, la crisi è grave, porta sofferenze e miseria, il sistema capitalistico è quello che è, ecc. ecc.; ma esistono forse alternative ad esso o alla difesa della comune patria nazionale? Per costoro, non esistono alternative, per cui non resta che attendere che la bufera passi, e se non passa attendere tutte le conseguenze ancora più terribili, come una nuova guerra mondiale. Non è certo da questi signori che i proletari potranno ricevere risposte sul modo con cui rispondere alla crisi attuale, né tantomeno sul modo con cui combattere per superare l’infernale sistema capitalistico. Gli operai dovrebbero infatti essere “uniti”, magari dietro le varie sigle sindacali di regime: ma “uniti” non per portare avanti i loro interessi di classe, bensì solo per subordinarli in modo totale e completo agli interessi del sistema capitalistico.

 

Teppismo e spontaneismo

Accanto all’accusa di corporativismo, sulle suddette categorie e movimenti in lotta, si sono riversate anche quelle di essere più o meno fomentate od organizzate da bande di malavitosi o frange ultradestrorse. In una situazione economica putrescente, in cui non esiste più alcuna differenza tra affarismo legale e illegale, tra personale “pulito” o criminale, queste belle anime giudicanti  vorrebbero che le esplosioni di collera e di rabbia di tali strati sociali presentassero poi curriculum di comportamenti perfettamente “legali” e rispettabili. Aprono così la caccia a individuare il “losco figuro”, il “mestatore”, il “malavitoso” nascosto o alla testa del movimento in lotta, per poi marchiarla e bollarla come emanazione di tali organizzazioni e personaggi. La lotta non trova più così la sua causa nella crisi, nei suoi effetti e nelle misure governative incapaci di eliminarle o attenuarle, ma sarebbe più o meno conseguenza di giochi politici “sporchi”. Questi signori sono talmente imbevuti e pervertiti dal clima generale di corruzione in cui sguazzano allegramente da non riuscire più a vedere azioni che non siano più o meno sua diretta emanazione. Trasferiscono al fronte della lotta degli “autonomi” in via di declassamento lo stesso trattamento riservato da sempre alla lotta proletaria e di classe: se essa non rientra nei limiti delle compatibilità economiche nazionali, allora perde la sua “rispettabilità” e diventa solo effetto ed opera di loschi figuri, facinorosi, estremisti, “stranieri”, agitatori venuti da fuori, ecc. Quante volte, insieme all’accusa di corporativismo, gli operai si sono sentiti appioppare, nelle situazioni di vera lotta e mobilitazione, epiteti come “teppisti”, “anarchici”, “terroristi”? Da Togliatti e Di Vittorio ai partiti e sindacati di regime attuali, un filo rosso lega questi signori nella condanna “a fuoco” di ogni vera azione di classe.

Per noi comunisti, è chiaro che le lotte di ogni categoria, strato sociale o movimento, non potranno mai essere “pure”, immuni o indenni da infiltrazioni di ogni tipo e di ogni soggetto che cerca in essa vantaggi economici o politici che siano. Non si tratta di aspettarsi una “purezza spontanea” che nessun movimento potrà mai avere, ma, caso mai, di vedere e sapere chi organizza o tenta di organizzare tali movimenti e se in forza di tale tipo di influenzamento esso è anche suscettibile, in determinate condizioni, di essere organizzato in direzione anticapitalistica o meno. Per noi comunisti, è chiaro che ogni movimento non classista (ma la cosa vale anche per quello classista), anche se inizialmente genuino e spontaneo, lasciato a sé, senza una forte presenza e azione sociale di classe, organizzata e diretta politicamente dal partito comunista, non potrà che essere riassorbito da soggetti e bande più o meno legate alla difesa dell’ordine borghese. Non per questo si tratta di unirsi al coro di chi cerca subito in tali movimenti pretestuosi certificati di “spontaneità” o di legalità, per giustificarne la condanna. Ben vengano le lotte anche di strati sociali non proletari con tutti i loro “pregiudizi, fantasie ed errori”! Noi aspettiamo che esse comunque riescano a contagiare la lotta proletaria di classe, e che questa, a sua volta, riesca un giorno a contagiare anche la loro lotta, trascinandola e sottraendola quanto più possibile all’influenzamento di ogni e qualsiasi difensore dell’ordine borghese.

Tutto questo occorre ribadire anche contro coloro che favoleggiano una lotta di classe “pura”, tutta chiusa in se stessa, senza “contaminazioni” esterne, o anche solo “spontanea” o “autorganizzata”. Sulla scorta degli insegnamenti dei nostri maestri, nonché di tutta l’esperienza storica della lotta di classe, riaffermiamo che la lotta contro il sistema capitalistico non potrà essere una lotta di “soli e puri operai o proletari” (meno che mai di tutti loro), ma si dovrà avvalere positivamente anche di tutto il potenziale di lotta espresso da strati sociali intermedi declassati dalla crisi del capitale. Scriveva Lenin (“Risultati della discussione sull’autodecisione”, 1916): “La rivoluzione socialista in Europa non può essere nient’altro che l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi parteciperanno inevitabilmente – senza una tale partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna rivoluzione – e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, i loro errori. Ma oggettivamente essi attaccheranno il capitale, e l’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato, esprimendo questa verità oggettiva della lotta di massa varia e disparata, variopinta ed esteriormente frazionata, potrà unificarla e dirigerla, conquistare il potere, prendere le banche, espropriare i trust odiati da tutti (benché per ragioni diverse!), e attuare altre misure dittatoriali che condurranno in fin dei conti all’abbattimento della borghesia e alla vittoria del socialismo, il quale si ‘epurerà’ delle scorie piccolo-borghesi tutt’altro che di colpo.”

Altrettanto esplicito in tal senso, è un nostro testo del 1953, “Classe, burocrazia e stato nella teoria marxista”, dove si legge: “Proletari contro borghesi è formula per descrivere marxisticamente la società attuale, non formula marxista della rivoluzione. La formula giusta è comunismo contro capitalismo. Ma sono uomini che lottano tra loro! E chi lo nega? Nell’infinito intreccio storico la forma che muore e quella che nasce determinano lo schierarsi dei loro agenti e seguaci, in conflitto tra loro, ma in diversissimi gradi edotti del corso del trapasso. Non per avere fatto un corso di filosofia della storia, ma per avere assunto uno schieramento organizzativo e politico, si potrà parlare di comunisti contro capitalisti, ove tuttavia per capitalisti intendessimo non i possessori del capitale ma i fautori e difensori del sistema capitalistico.”

Contro i maniaci della cosiddetta “spontaneità” o dell’“autorganizzazione”, bisogna infine sottolineare come la strenua e lunga lotta per strappare la classe operaia all’attuale gioco politico e sindacale non potrà avere i suoi effetti se non si legherà alla lotta per la rinascita di vere associazioni operaie di classe e per un loro influenzamento crescente da parte dei comunisti. In epoca imperialista come l’attuale, non vi è spazio per una idealistica, pura o spontanea “autorganizzazione operaia”. Tali associazioni di classe, una volta risorte, o saranno conquistate dai comunisti rivoluzionari per farne la leva per la lotta politica rivoluzionaria contro il capitalismo, o saranno infine sempre terreno di conquista di mestieranti e burocrati di regime, strumenti di conservazione dell’ordine capitalistico.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2012)

 

 

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