DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Qui vi è dunque l'assoluto interesse delle classi dominanti di perpetuare la spensierata confusione. E a quale altro scopo sarebbero pagati i sicofanti ciarloni che non hanno altra carta scientifica nel loro gioco se non quella che nell’economia politica non è comunque lecito pensare?

Karl Marx, Lettera a Kugelmann, 11/7/1868

 

Ormai per circa due anni e mezzo, si è divulgata la rassicurante dichiarazione che “il peggio della Crisi” sarebbe stata alle spalle: dichiarazione subito smentita dai fatti, nonostante tutti i “timidi segnali” che facevano… ben sperare ([1]). La “ripresa è dietro l’angolo”: ma poi l’orizzonte non si è schiarito, minacciando sempre più tempesta. La terra (del capitale) è arsa, non assorbe il mare di liquidità che la sovrasta. La ripresa, per quanto drogata, non attecchisce: è fragile e irregolare in particolare nelle cosiddette “economie avanzate”, ed è disomogenea quella mondiale; nel primo e secondo scorcio del 2011, è già, nel complesso, in rallentamento, mentre si fan largo nugoli di “effetti collaterali”: la zavorra-bomba dei debiti sovrani sulle due sponde dell’Atlantico e in Giappone, il perdurare degli squilibri commerciali e valutari e dell’instabilità finanziaria, lo spettro dei contagi a livello globale.

Così, a più di quattro anni dalla sua esplosione, e nonostante la “potenza di fuoco” messa in campo, la “Grande crisi” (questa “magnifica crisi”, diciamo noi facendo eco a Marx ed Engels), sembra non aver mai fine.

 

L’agognata, stabile ripresa resta ancora una speranza e il come essa avverrà (nell’idiotismo borghese: a V o J rovesciata, piuttosto che a U, o L, o W), il modo e il quando della cosiddetta “exit strategy” dall’immane drogatura, restano ancora a lor signori altrettante incognite insondabili – che però, andata in frantumi l’ipotesi a V, si stanno sempre più svelando minacciose (W o la peggior L?) e beffarde.

La “cura” dunque non ha prodotto gli sperati frutti e ora dispiega i suoi nocivi effetti: “collaterali”, appunto, fra “trappole di liquidità” e “trappole del debito” (ovvero, trappola del capitale). Proprio ora che ripresa non c’è stata, e anzi si profila la “double dip” o la “giapponesizzazione”, la situazione conosce un’aggravante: le (solite) cartucce sono esaurite, restano solo quelle “lacrime e sangue”, mentre risuonano le lagnose note dell’ultimo “twist” ([2]). E, proprio come 3 e 4 anni or sono, tornano la paura e lo stesso, rimaneggiato e aggiornato, copione: borse in caduta, non giorni ma settimane di passione, miliardollari bruciati a Occidente e Oriente, speculazione e agenzie di rating (che sparano a raffica declassamenti su Stati, banche, imprese, comuni) su cui puntare il dito, banche col mal di pancia e Stati in crisi debitoria (e non) in interazione, valute in alta tensione e quel “figlio di nessuno” (l’euro) sempre più sul baratro, impasse della politica (che è poi il concentrato dell’economia) sull’orlo di una crisi di nervi, scambio di accuse di incapacità e  incomprensione, pii appelli alla… governance globale, etc. etc. Insomma, la solita commedia, resa ancor più tragicomica dalla ripetizione. Che alla “grande crisi” forse stia stretta la riduttiva definizione?

 

Da mini-crisi a Grande crisi

Erano passati appena sei anni dall’inizio della crisi precedente: appena tre di fiacca ripresa per il vecchio Occidente, ma, si diceva, pur robusta nel suo complesso ed eccezionale per il mondo emergente, tanto da considerare l’andamento dell’economia mondiale negli ultimi anni come straordinario (e non molto spiegabile) e soprattutto ancora in crescita elevata almeno nel breve periodo (salvo l’imponderabile). Insomma, c’era di che essere ottimisti: anzi, più che ottimisti, visti i “contenuti errori previsionali degli ultimi anni “([3]).

Ma quando mai “questi ottimisti borghesi” hanno compreso che, nella terminale fase del ciclo economico, proprio l’acme della prosperità capitalistica, in cui speculazione e credito giungono al parossismo pur non essendo la causa delle crisi, ne provoca lo scoppio? «Quando mai questi ottimisti borghesi hanno previsto o preconizzato una crisi? Non c’è stato periodo di prosperità in cui essi non abbiano approfittato dell’occasione per dimostrare che questa volta la medaglia non aveva rovescio, che questa volta il fato era vinto. E il giorno in cui la crisi scoppiava, si atteggiavano a innocenti e si sfogavano contro il mondo commerciale ed industriale [leggi: il mondo della finanza, ndr] con banalità moralistiche, accusandolo di mancanza di previdenza e di prudenza» ([4]).

“Il diavolo fa le pentole e non i coperchi”.  Cioè: il limite del diavolo è lui stesso, come avviene, in terra, per il capitale. Così, dopo sei anni, il capitalismo mondiale si avvita nuovamente su se stesso, è nuovamente in una tormenta (e che tormenta!), da cui non potrà mai sfuggire affidandosi a un crescendo di potenza: la crisi è dapprima finanziaria ed è globale, esplode in superficie nel luglio-agosto 2007, e al solito coglie di sorpresa ([5]) gli agenti del capitale e della sua elefantiaca, e del pari caotica e marcescente, sovrastruttura. Considerata dai più, al suo esordio, come una mini-crisi e a maggio 2008 dichiarata in reflusso ([6]), come un vulcano che covava da lungo tempo ([7]), dopo i primi brontolii premonitori (inizio del 2007), in un crescendo di attività sismica inizia la sua vera eruzione nell’estate e in particolare a partire dal settembre 2008, impazzando con inusitata violenza dall’Artico all’Antartico, da Occidente ad Oriente. Fondi speculativi, banche blasonate e non, compagnie di assicurazione globali, iniziano a cadere come birilli. Crack eccellenti e a catena  aprono voragini incolmabili nel cuore e dintorni del sistema finanziario mondiale, crolli borsistici in sequenza e in ogni luogo del pianeta, crescita esponenziale dei prezzi dei beni di prima necessità e delle materie prime al culmine del parossismo speculativo, crollo successivo di quest’ultime, paralisi del credito, fuggi-fuggi di capitali, forte instabilità delle valute, bancarotta di Stati minori…

Il cosiddetto effetto domino sembra inarrestabile: chiusa, per dire, una falla, se ne aprono altre che diventano baratri di cui non si vede il fondo. La cosiddetta economia “irreale” (?) va sgretolandosi sotto i loro piedi, come non si era mai visto… dal 1929. La paura fa 90 e più. Che sia l’inizio della redde rationem?

 

La cura…

Si erano da poco apprestati a decretare la fine dello Stato-nazione, a bollare di scomoda e nefasta intrusione dello stato nell’economia ([8]), che ecco: il “libero” mercato (libero nella fantasia dei suoi sostenitori) invoca aiuto “a voce altissima e senza ritegno” al bistrattato Pantalone. Stati e massime istituzioni via via concitatamente iniettano nel paziente in putrefazione la loro “cura” a dosi sempre più massicce ([9]). Dai salvataggi pubblici in extremis alle immense e poi illimitate iniezioni di liquidità da parte delle Banche centrali, dall’abbassamento verso lo zero dei tassi di interesse interbancario alle nazionalizzazioni e garanzie statali a colmare (ossia socializzare) la voragine dei debiti privati, fino ai colossali piani di stimolo all’economia da cui nemmeno l’economia più effervescente del mondo si può sottrarre: la cura è da elefante, da stato di guerra in tempo di pace, ed è da loro stessi definita “eccezionale”, anzi “storica” – e, nel delirio neoliberista, addirittura “socialista”, tale che, per salvar la faccia, solo temporaneamente si può accettare ([10]).

Ma, potenza di fuoco a parte, le armi sono le solite, sempre spuntate nel momento della bisogna più nera. La politica economica e monetaria agisce non solo sulla base e nell’ambito delle leggi che governano l’economia capitalistica e delle sue innate contraddizioni, ma anche entro i determinati limiti, assai ristretti e di superficie, che tali leggi lasciano loro a disposizione, e con gli “effetti collaterali” che ne derivano. Nell’ambito di questi limiti, di queste contraddizioni e dei condizionamenti interni ed esterni ad essi (alla cui base stanno l’anarchia del capitale, la guerra di “tutti contro tutti”, destinata a trasformarsi all’ennesima potenza in guerra tra macchine statali), la parvenza di discrezionalità lascia supporre che si adottino misure appropriate o sbagliate (che lor signori ,col senno di poi e secondo i punti di vista, definiranno tali) ([11]): ma, anche se, nel migliore dei casi, possono attenuare la crisi, in nessun modo possono evitarla. Per dirla di nuovo con Marx: “Una legislazione bancaria miope ed insensata […] può aggravare questa crisi monetaria. Ma nessun genere di legislazione sulle banche può eliminare le crisi ([12]). In somma sintesi, le misure anti-crisi e le riforme “strutturali” tanto invocate sono sempre un effetto che non elimina le cause, e risultano sempre meno efficaci da quando il capitalismo è un insanabile drogato. Se riducono all’immediato gli eccessi, se fan fronte all’emergenza, non fanno altro che posticiparli intossicando ancor più il paziente, ieri giovane baldanzoso, oggi (da decenni) malato terminale ([13]). In fondo in fondo, lo sanno bene anche loro: ma che possono fare?

L’overdose di drogatura (la stessa, anche se in minor misura, che è additata come causa della catastrofe) non è sufficiente ad arrestare il propagarsi e l’approfondirsi della crisi finanziaria-creditizia, il suo trascrescere nella (ma in verità “agganciarsi” alla) più temuta crisi economica da cui promana – il loro conseguente e vicendevole alimentarsi.

Le Borse continuano la loro caduta, credito e sovrapproduzione hanno raggiunto il loro limite, le economie “reali” del mondo si avvitano con un sincronismo mai registrato in passato, il commercio crolla, la produzione pure, la disoccupazione dilaga, cresce ovunque la miseria non solo relativa ma anche assoluta.

 

Il re è nudo…

L’economia dello spreco (della produzione e distruzione fini a se stesse, del “dopo di me il diluvio”) ([14]), questo paradosso in cui si risolve l’anarchia del modo di produzione capitalistico – il suo compulsivo imperativo di crescita illimitata e senza alcun riguardo allo soddisfazione dei più elementari bisogni umani e alla capacità di consumo (solvibile) della società – , trova nella catastrofe il suo tragico e inevitabile coronamento ([15]) e trascina con sé i miti di progresso, efficienza, benessere dilagante, velati ai tempi della temporanea euforia.

Fin dalle sue prime battute e ancor più nel suo dispiegarsi e perdurare, la Grande Crisi ([16]) (o, per scaramantico timore, Grande Recessione, come sono stati poi costretti a definirla, anche se nessuno era ed è in grado di prevedere i reali effetti dinamici e interconnessi della spietata dialettica del determinismo economico), mostra anche ai bambini quanto i cosiddetti decisori della politica mondiale e i loro dotti consiglieri (il fior fiore degli economisti!) siano altrettanti burattini in balia degli eventi, incapaci di comprendere, governare e mantenere sotto controllo la loro cruenta economia. E pertanto anche di prevederne gli sviluppi e gli squilibri sempre più profondi, nonostante il sistema capitalistico generi al suo servizio un’ipertrofica (quanto socialmente improduttiva) folla di geni del calcolo sempre più sofisticato e un apparato gigantesco di strumenti dal computo iperbolico e di comunicazione e raccolta di informazioni in tempo reale su scala globale ([17]).

Le certezze, e non solo economiche, crollano insieme all’economia.

I recenti “modelli di sviluppo” (tipo Irlanda e Spagna) attraversano lo spazio-tempo come un’eclissi solare, andandosi ad aggiungere ai surclassati del passato. Le utopie di governance globale (G8 – G20 – G2 – G…) non hanno nemmeno il tempo di essere formulate. Superato (temporaneamente) l’incubo del crollo del capitalismo, le insicurezze del presente si proiettano malignamente sul futuro e sui prolungamenti politici e militari della crisi. Si paventa che la “sindrome del Sol calante” o “giapponesizzazione” possa gettare la sua ombra funesta oltre i suoi confini, in primis sull’altra sponda dell’Oceano Pacifico. Scongiurare il protezionismo, eppure difendersi e battere la concorrenza. Dollaro sì, dollaro no, Bretton Woods 2, e l’euro senza l’Europa? Il mondo non ha più un “centro di gravità permanente”: quale sarà nel dopo-crisi? Chimerica? Cindia? Il capitalismo anglosassone ha fallito: quale capitalismo, se il capitalismo vivrà, avrà la meglio? quale futuro per la beneamata democrazia, per lo “Stato di diritto” (leggi: tenuta della pace sociale) che il “liberismo selvaggio” negli ultimi 30 anni ha minato alle sue basi e che ora la Grande crisi espone al rischio del colpo definitivo? E già qualcuno s’interroga: visti i risultati, non è che sarà meglio il… “totalitarismo” cinese ([18])?

Insomma: la Crisi, e poi?

Non è lo spettacolo della devastazione che annichilisce la borghesia e i suoi tirapiedi, ma lo spettro che tale devastazione, non solo materiale, evoca e che l’accompagna fin dall’avvio della sua parabola storica.

Perché, dietro l’economia “irreale”, ci sta quella reale. E, in quella reale, ci stanno non solo le varie fazioni della borghesia nazionali e mondiali, i loro stati armati fino ai denti e in lotta fra loro nel “si salvi chi può”, e le classi senza storia coi loro striduli da proletarizzazione. Ci sta soprattutto la classe operaia mondiale, oggi incatenata, narcotizzata e frammentata al massimo grado, ma che si può sempre risvegliare. Qua e là, i fermenti ci sono, soprattutto negli anelli più deboli della periferia: al momento, circoscritti, deragliati, annientati, ma possono dilagare e appiccare il fuoco alle roccaforti dell’imperialismo mondiale ([19]).

Su tale fronte, i “nemici” sono tutti “fratelli”, asserragliati nelle loro macchine da guerra: che sono, non solo lo Stato politico-militare, ma tutto l’insieme delle istituzioni che regolano, anche ideologicamente e culturalmente, l’intera vita sociale per la difesa e conservazione dello stato esistente delle cose. Sempre pronti col bastone e la mitraglia dietro il velo lercio e sdrucito della popolar democrazia: la rottura della pace sociale sarebbe una catastrofe ben maggiore, e il salvabile non sarebbe salvabile, se al momento opportuno un “welfare state” rispolverato alla bisogna (poi comunque da far ripagare a suon d’usura) e soprattutto la borghese arte secolare della menzogna, del divide et impera e dell’abbindolar-rincoglionire, non affinassero le armi, affinché le porte del tempio di Giano restino serrate il più a lungo possibile. MA QUANTO POTRA’ DURARE, QUESTO STATO DI “PACE”?

 

…e anche le sue concubine

La Crisi è un rullo compressore, uno schiaccia-bubboni. Non solo svela che il capitale, ormai drogato fino al midollo, si è retto e si regge sul debito, che il passivo è immensamente più ampio dell’attivo: e ciò è fallimento. Non solo genera sulla sovrastruttura politica e ideologica una fibrillazione di impotenza, fa saltare o rimpastare governi e mette a nudo, nella sua degenerazione senza ritorno, la finitezza del capitalismo, la vuotaggine dei suoi conclamati valori e principi – e, di conseguenza, come tutto sia celato dalla menzogna e controllato con un dispiegamento enorme di violenza potenziale, pronta a rendersi attuale alla bisogna e con un limite di guardia che sempre più si abbassa. Mentre la polarizzazione di ricchezza e miseria crescente accelera bruscamente senza possibilità d’inversione e la merda trabocca da ogni poro della sua civiltà di “liberté, egalité e… Bentham” (Marx), la Crisi spazza via, ancora una volta, la cosiddetta scienza economica borghese, che non può esistere come scienza senza accezione: ovvero, tutta l’accozzaglia delle sue teorie, strette nella morsa di un modo di produzione e di un dominio di classe tanto più degenerati quanto più opprimenti e parassitari – teorie, certo, poi costrette a risorgere come la fenice, apparentemente sotto altre spoglie e in sostanza sempre più volgari, fin quando quest’infame quanto obsoleto modo di produzione non sarà distrutto.

Come in pratica, anche in teoria si brancola nel buio. S’interrogano i classici: Adam Smith va meglio, e non a caso, di Riccardo; calza molto bene la “distruzione creatrice” alla Schumpeter; Keynes tiene banco contro Fischer, Hayek e Friedman, sebbene gli “effetti collaterali” della cura siano lì a riportarli in gara... Ma è il red terror doctor, dichiarato morto da tempo e, si dice, definitivamente sepolto dal crollo della balla spaziale del “socialismo reale”, che non possono fare a meno di risuscitare ad ogni crisi, e in questa più delle passate. Col suo faccione, il Moro capeggia così sulla copertina del Time, che invita a studiarlo per salvare il capitalismo, eminenti personaggi gigioneggiano davanti ai media discettando sulla sua opera magna, e persino un alto prelato della Chiesa di Roma (suo omonimo e curatore di anime in quel di Treviri) ne ha fatto oggetto di un “saggio”, con tanto di immaginario dialogo introduttivo a mo’ di letterina e fregiato dal titolo di Das Kapital ([20])…

Certo, questi triviali revival hanno il solo scopo di esorcizzare il diavolo: irridere la teoria marxista, che, pur non capita e dichiarata defunta ad ogni crisi e dopo-crisi, è il tormento – e ci sarà pure una ragione! – che periodicamente li attanaglia ed è più che sufficiente per smascherare le loro sempre più grossolane falsificazioni.

Le pretese di spiegare gli eventi s’infrangono nell’impotenza di comprendere le loro intime radici, i loro nessi, il loro dialettico sviluppo, spesso per lungo tempo sotterraneo. Così non si accorgono nemmeno di farvi riferimento, mentre prendono atto che «nei primi anni Settanta, la crescita rallenta in tutto il mondo industrializzato, per motivi che in parte restano ancora misteriosi” (pag.67), il successivo sviluppo accelerato di parte del Terzo Mondo è anch’esso “un misterioso insieme di eventi che ancora non abbiamo ben compreso” (pag.31), la ragione per cui l’Unione Sovietica sia finita così all’improvviso, senza esplosioni, ma con solo un leggero brontolio, va considerata “uno dei grandi misteri dell’economia politica” (pag.15), “la stessa lentezza con la quale l’economia del Giappone si è deteriorata è un grande motivo di perplessità” (pag.77) ([21]).

Gli ultimi quarant’anni del capitalismo mondiale, tralasciando i precedenti, sono dunque un buco nero per l’economia politica. Ma scambiare queste dichiarazioni d’impotenza con onestà intellettuale sarebbe un grave errore: la questione puzza lontano un miglio e ben si accoppia con l’appellare la Grande Crisi con termini presi in prestito dalle calamità naturali – terremoto, tempesta perfetta, tsunami, ecc. Mistero e Natura: ecco gli ingredienti-base con cui condire la “scienza triste”, la volgarizzazione dell’economia classica borghese, allo scopo di convincere soprattutto il “popolino” che la crisi, e anche questa “grande crisi”, è una manifestazione del tutto naturale di quell’organismo naturale che è il capitalismo ([22]). 

Che furbacchioni! Istintivamente sanno bene di non raccontarla tutta: nessun modo di produzione finora esistito si è estinto da sé, anche se in esso sono insiti e si sviluppano la causa e le basi materiali per il suo superamento. Ci vuol ben altro! ci vuole la rivoluzione politica, la presa del potere e quel che ne consegue, per estirparlo dalla faccia della terra, per passare dall’ultima fase della vera preistoria (la società divisa in classi, della produzione mediata dallo scambio: il capitalismo) alla produzione immediatamente sociale, alla storia della specie: il comunismo. Questo è il punto da esorcizzare.

E allora, tranquilli: anche se non è influenza ma acuta polmonite (perché il capitalismo ha esteso il suo dominio su tutto il globo ed è sempre più interdipendente), è pur sempre malattia fisiologica e in verità… salutare. E’ la reazione dell’organismo sano che espelle corpi estranei e nocivi. Non si tratta né del 1929 ([23]) né, tanto meno, della fine del capitalismo, come istintivi deboli di cuore paventano. Tranquilli: il capitalismo “ha (ancora) i secoli contati” ([24]), è il “migliore dei mondi possibili”, “si rigenera sempre”([25]): ovverossia, è eterno.

Questo è l’assioma fondamentale, la cornice entro cui i grandi esperti dell’economia borghese, i policy makers e il guazzabuglio di specialisti e opinionisti d’ogni risma (compresi psicologici, religiosi e puttane al servizio di sua maestà il Capitale) non si sprecano e non si sprecheranno nel commercializzare le proprie teorie, magari con tanto di conferma del solito, puntuale, “l’avevo detto io”, per propinare al popolo bue le loro multiformi panzane: sulle cause, sulle rievocazioni del passato e relativi confronti, sugli errori commessi e su chi li ha commessi, sui rimedi, su come “gestire la crisi”, sulle lezioni da trarre per il futuro per evitare simili disgrazie, sulle previsioni di quel sarà il prosieguo della crisi e il dopo-crisi.

 

La spensierata confusione

La crisi economica viene banalmente spiegata dal “‘moltiplicatore’ meno ordini meno produzione meno magazzino meno ordini eccetera” ([26]), senza nemmeno spiegare almeno il perché del primo fondamentale “meno” – donde la ricetta, semplice e burlona: consumare, consumare, come prima e più di prima, perché così tutto si rimette a posto… Tralasciando il fatto che si tratta pur sempre di consumo solvibile (cash o a credito, non fa differenza: la differenza sta nell’avere o nel non avere l’uno o l’altro, sebbene l’altro prima o poi richieda il primo).

 Ma, sulla crisi finanziaria, si brancola nel buio: non vi è consenso su alcuna spiegazione e tanto meno su come rimediare ai suoi sconquassi. Non potrebbe essere altrimenti, vista la teoria delle “due economie”: quella “irreale”, della finanza, e quella “reale”, del cosiddetto capitale-lavoro (che è sua volta conseguenza dell’incomprensione di come funziona l’economia capitalistica). Ma che importa, se ciò serve a salvare il capitalismo da se stesso.

La crisi è ora dichiarata “naturale”, smentendo la teoria che, poco tempo fa, asseriva che le crisi erano ormai un “retaggio del passato” (vecchia solfa); così come l’aver decretato la fine dei cicli economici è oggi, con una crisi che non trova ancora la fine, sconfessato dall’auspicio del loro ripristinarsi. Tale “naturismo”, che considera ogni crisi a sé stante, è solo il primo passo dell’apologetica del capitalismo, da completare con il secondo: far passare la crisi finanziaria come una crisi che viene dall’esterno. E’ la finanza a crollare e a esporre al rischio del malefico contagio la “sana”, “reale” economia (altra vecchia storia che accompagna il capitalismo fin dalla sua nascita): dunque, è la finanza o meglio la sua creatività distruttrice il male da esorcizzare – la follia che si è impadronita dei mercati, l’avidità sfrenata, il turbo-capitalismo, il massimizzare tutto e subito, non è capitalismo, coi suoi semplici e sudati profitti ([27])! Il mercato, ovvero il nebuloso concetto con cui fino a ieri si sostituiva quello di capitalismo, viene ora disgiunto da questo. Il capitalismo, come idea, è perfetto: tuttavia, nella realtà, è perfettibile; tutt’al più, è un modello di capitalismo, quello anglosassone, ad aver fallito. La storia, quella scritta dalla borghesia e continuamente riscritta per adeguarla a uso e consumo del proprio dominio di classe, è lì a provarlo... E, messo il capitalismo al riparo, quando le cose vanno male non restano che l’indignazione morale e la riforma morale.

Solita storia e soliti clichés: si cercano i capri espiatori, si apre la caccia all’untore che ha infettato il sistema, si mette qualcuno sul banco degli imputati, si avviano inchieste parlamentari e poliziesche. E si può andare oltre: si può prendere di mira anche il fatidico mercato, a cui si attribuivano ieri un’impersonale razionalità e doti taumaturgiche di autoregolamentazione ed efficienza. Il mercato ha fallito, non è razionale, non si autoregola e non è efficiente! Il dio, un tempo benevolo e osannato dispensatore di sì facili e portentosi guadagni, ma anche di crescita tangibile e reale, che ogni borghesia registrava con compiacimento nella propria contabilità aziendal-nazionale, è ora diventato il mostro a sette teste da domare ([28]). I suoi teorici adulatori, tornati in auge con la crisi del 1975 a detrimento dei keynesiani, sembrano ora clamorosamente smentiti e, obtorto collo, cedere la patente di credibilità ai loro avversari, ai sostenitori della necessità dell’interventismo statale, in soldoni, debiti e regolamentazione, per porre rimedio alle disarmonie del mercato: ma sono pronti a rifarsi vivi, quando gli “effetti collaterali”, quel semplice spostare debiti dal privato al pubblico, quel pompare credito e carta straccia a iosa, si faranno sentire. Anche se nessuno vuol mollare l’osso e si accusano l’un l’altro di non capire, in fin dei conti credono tutti nel mercato, perfetto o imperfetto che sia, in quanto inevitabile quanto il capitalismo. Mentre la crisi imperversa e mette tutti alla berlina, la caciara si amplia, insieme ai capri espiatori. Le individualità, che si vuol far credere facciano la storia, cadono dalle stelle alle stalle. Storici dell’economia si scagliano contro i teorici dell’economia, i politici accusano gli economisti di non essere stati in grado di prevedere la crisi e di averli mal consigliati, gli economisti accusano i politici di non averli ascoltati, di sbagliare questa o quella manovra e tuttavia fanno ammenda per non aver, in maggioranza, tenuto conto di alcune variabili, per non aver aggiornato i loro sofisticati modelli matematici, e si fa largo l’ammissione che “le crisi non si possono prevedere”, mentre commissioni d’inchiesta poi affermano il contrario ([29]).

Del parapiglia generale, della “spensierata confusione”, si può comporre il seguente sintetico collage: la crisi sarebbe stata generata da mancati “aggiustamenti tecnici”, da mancate regole che non hanno seguito il passo dell’innovazione finanziaria e tecnologica, dal loro allentamento (deregulation), dall’insufficienza di controlli, dalla complicità dei controllori, da un’insufficiente gestione del rischio (risk management), dai paradisi fiscali, dagli squilibri mondiali (in particolare tra gli spendaccioni americani e i parsimoniosi asiatici, Cina, Giappone e dintorni). A causa di ciò e di una politica monetaria oltremodo espansiva e generatrice di “credito facile” (anche grazie alle crescenti diseguaglianze sociali: bassi salari o great moderation) e di eccesso di leva finanziaria (ossia del debito), i soliti “squali” (i “pubblicani”, li chiamò F. D. Roosevelt nel 1932) e le grandi banche dedite all’uso e abuso del “moral hazard” in quanto “too big to fail”, all’aggiramento delle regole e dei mercati regolamentari, alla manipolazione dei bilanci (la cosiddetta “finanza ombra” e i “bonus” e “superbonus” ai loro manager), hanno generato la metastasi del sistema finanziario mondiale, trasformatasi in necrosi senza che nessuno sia stato in grado di individuarla. I mutui subprime hanno acceso la miccia. E’ esploso il panico che si è trasformato in crisi di fiducia. Il credito si è fermato, la liquidità si è prosciugata e poi si è trasformata in “trappola”, ossia chi ce l’ha se la tiene sotto il materasso. Il denaro ha smesso di svolgere la sua funzione, quello di semplice mezzo di circolazione, e di conseguenza ha intaccato e portato con s’è nell’abisso l’economia reale. Che fare?

A questo punto, non restano che i buoni propositi: trarre le lezioni dalla crisi (e anche le ghiotte opportunità) e far sì che ciò non avvenga più in futuro; quindi, riscrivere le regole a livello globale, riportare la finanza ai dettami dell’etica e della morale, al suo ruolo di servizio all’economia, ripensare una nuova Bretton Woods (2, per l’appunto), costruire un governo mondiale dell’economia e, dulcis in fundo, “riscoprire la centralità dell’impresa e la civiltà del lavoro, liberandosi dall’illusione… che il denaro produca da solo altro denaro”([30]).

 

… e il suo scopo

La congerie di “opinioni”, gli altisonanti quanto illusori propositi, i pii desideri in cui trovano spazio soprattutto speranze, apprensioni e angosce ([31]), sono il riflesso ideologico della agonica senescenza del capitalismo, che la potenza della crisi ora concentra. Quando tali trivialità vengano ridotte al loro effettivo contenuto, allora finiscono col dire molto più di quanto non credano i loro predicatori ([32]). Sveleremo in seguito queste “verità nascoste”: non certo per il puro gusto della polemica o dell’esercizio accademico, ma per ribattere la teoria marxista e i suoi/nostri soliti chiodi, e al solo fine della lotta rivoluzionaria, che è tale solo se è conseguente e intransigente – certo qui e ora “limitata” alle “armi della critica”, e da lungo tempo, per determinazioni storiche, sbilanciata in tal senso, ma indispensabile per indirizzarsi poi verso la risolutiva “critica delle armi”. Qui vogliamo sottolineare quel che è già evidente: e cioè che tutta questa  “confusione”, tanto volgare per il livello raggiunto di solenne ignoranza quanto ben oliata e sbandierata, ha un duplice significato e un solo scopo.

In primo luogo, è la dimostrazione (ulteriore ed ennesima conferma) che la scienza borghese  è una pseudo-scienza, in quanto è incapace di cogliere il nesso che sta alla base della produzione sociale in generale e del modo di produzione capitalistico in particolare, in cui la prima si impone come legge del valore: ossia assume una determinata, storica e dunque transitoria, forma. Scriveva Marx a Kugelman: “L'economista volgare non se lo sogna nemmeno che i reali, quotidiani rapporti di scambio e le quantità di valore non possono essere immediatamente identici”. Tutto questo ciarpame non riesce a cogliere che “il senso della società borghese consiste appunto in questo, che a priori non ha luogo nessun cosciente disciplinamento sociale della produzione. Ciò che è razionale e necessario per la sua stessa natura, si impone soltanto come una media che agisce ciecamente. E poi l'economista volgare crede di fare una grande scoperta se, di fronte alla rivelazione del nesso interno, insiste sul fatto che le cose nel loro apparire hanno un altro aspetto. Infatti egli è fiero di attenersi all'apparenza e di considerarla definitiva” ([33]).

Restando alla superficie dei rapporti reali, ai prezzi, alla domanda e all’offerta, alla concorrenza, alla rendita, al currency, etc. (da cui le teorie corrispondenti, dall’utilità marginale alle aspettative razionali, etc.), si rimane imbrigliati nelle loro contraddizioni e si rinuncia a comprenderli e spiegarli alla radice. Partire da queste determinazioni storiche concrete significa dare la scienza prima della scienza, partire dal risultato, non dalle premesse bensì dalle conclusioni. Eleggendo il modo di produzione capitalistico a produzione sociale in generale non si riesce quindi a comprendere né la legge del valore né come essa s’imponga ciecamente e alle spalle degli agenti del capitale. Si giunge così anche a negarne l’esistenza. “A che serve allora una scienza?” ([34])

A niente, e allora tutta questa confusione non è solo la dimostrazione di ciò. “…Qui la faccenda ha ancora un altro sfondo. Assieme alla introspezione nel nesso crolla, di fronte alla rovina pratica, ogni fede teorica nella necessità permanente delle condizioni esistenti” ([35]). La borghesia istintivamente percepisce che le condizioni esistenti del suo dominio sono cadute, sono storicamente finite: non fosse per altro che per il timore che incutono i periodici sconquassi della sua economia. Certo, non può ammetterlo né accettarlo. “Qui vi è dunque l'assoluto interesse delle classi dominanti di perpetuare la spensierata confusione. E a quale altro scopo sarebbero pagati i sicofanti ciarloni che non hanno altra carta scientifica nel loro gioco se non quella che nell’economia politica non è comunque lecito pensare?”.

Ecco dunque che tutto il cianciare ha un senso e uno scopo. Credere che ciò sia semplice scambio di opinioni è altra cialtroneria: è lotta di classe di primaria grandezza che fa da sfondo allo strombazzato leitmotiv della “coesione sociale” per il fatidico “bene comune” – nelle sue varie forme senza soluzione di continuità: là, della ricostruzione post-bellica, tanto cara agli onorevoli Togliatti e Di Vittorio; qua, del “progetto Paese” dei nipotini Epifani-Camusso e colleghi sempre più sbracati ([36]); un domani – sempre più ravvicinato – per la “difesa della patria” nella Terza guerra tra stati.

E’ una forma di lotta di classe, tanto subdola quanto d’importanza capitale, che si unisce alle altre, dirette e indirette, aperte e nascoste, economiche ed extraeconomiche, continuamente messe in campo dalla classe dominante per mantenersi tale, ossia conservare i propri privilegi di classe, identificati e spacciati per bene comune, e sempre più in triviale ostentazione e maleodoranti di parassitaria putrefazione ([37]). Tradotto in soldoni: controllare e mantenere in catene (arduo compito, mentre la crisi le mette a nudo!) il nemico storico in quanto unico produttore di valore, legarlo al proprio carro per conservare più a lungo possibile il proprio caduto ma dorato dominio. Perdere il presunto controllo dell’economia significa infatti perdere il controllo della classe operaia: se la si mantiene al suo posto, tutto resterà al suo posto, e questa pagherà il prezzo più elevato della crisi, e pure quello della ripresa.

Questo è il significato nudo e crudo del “gestire la crisi”, nelle pantomime delle destre e delle “sinistre”, passando per il centro ([38]). E il punto è: quanto si potrà tenere a bada, con maggior spremitura e a testa china, dentro e fuori le galere di produzione della ricchezza sociale privatamente appropriata, il pachiderma dormiente, che la potenza della crisi, il suo perdurare e forse peggiorare, e le non prorogabili manovre di bilancio “lacrime e sangue”, scuoteranno sempre più con violenza?

Se i borghesi, nella paura che tali cataclismi e dilemmi incutono, si rincuorano con buoni propositi per l’avvenire, coloriti di umanità e buon senso, dandosi il compito di imparare, far tesoro delle lezioni che la crisi impartisce loro (con tanto di veri ricchi che chiedono di pagar più tasse), ebbene anche la classe operaia mondiale ha tutto da “imparare”: naturalmente, sulla propria pelle, per lo stato “naturale” delle cose, e contro tutti gli ostacoli che le oppongono la borghesia e tutto il suo servidorame. “Imparare”, in un percorso tutto in salita, fatto di sudore, miseria, sofferenza e sangue, di avanzate e di rinculi, che ha “soltanto” da liberarsi delle proprie catene.

“Utopia, utopia!”, hanno sempre detto. Beh! La vera utopia è credere (ancora) che il capitalismo possa essere abbellito, che si possano eliminare le contraddizioni “naturali”, i “vizi” congeniti, le crisi sempre più devastanti, e che si e possa andare verso un radioso futuro. Questa è l’“idea” inadeguata, castrante. Come diceva Spinoza – per non citare sempre i maestri del comunismo (che è solo rivoluzionario) – , “più abbiamo delle idee inadeguate più siamo facile preda della sofferenza, e, più abbiamo idee adeguate, più agiamo”.

 

 



[1] Tralasciamo qui le cronache da marzo 2009: la nuova euforia delle Borse, le banche che del vecchio vizio han fatto virtù (del quale ci si lamenta: come se la crisi non ci fosse stata e non avessero imparato niente) e le speranze alimentate da queste e dal ritorno al positivo in ordine sparso di qualche dato macroeconomico (esclusi quelli di occupazione, salari, condizioni di vita di qualche miliardo di proletari). All’inizio di aprile 2010, il povero Obama è finalmente raggiante e annuncia all’America e al mondo: “siamo a una svolta, la ripresa è cominciata davvero”. Ma il “messia” cade per la terza volta,  commettendo l'errore più grosso in cui sono caduti gli economisti dei grandi broker […]: credere che l'economia stesse crescendo per meriti propri e non per gli incentivi fiscali dei governi, per i finanziamenti delle banche centrali a tassi quasi a zero, per gli acquisti di titoli di stato e di bond cartolarizzati da parte della Fed. Oltre che per la semplice ricostituzione delle scorte, come avviene nella prima fase di una ripresa (Walter Riolfi, “Bilancio dei primi sei mesi di Borsa, in balìa del debito ora si teme per la ripresa”, Il Sole 24 ore, 2/7/2010). Dimenticando inoltre che sulla drogata ripresina, che è fragile e a macchia di leopardo, continuano a pesare la grande massa dei debiti privati e pubblici e gli “effetti collaterali” che stanno iniziando a presentare il conto. Appena tre mesi dopo, l'incognita sull'andamento economico diventa sempre più grande: esclusa ormai una forte e rapida ripresa, “anche non volendo prendere in considerazione le previsioni più cupe, quelle di una doppia recessione o di una prolungata fase di depressione, come ha recentemente prospettato Paul Krugman, è probabile che l'economia cresca a ritmi dimezzati rispetto alle riprese che si sono susseguite negli ultimi trent'anni. E di nuovo s'imporrebbe la terapia degli incentivi fiscali e monetari, sempre più difficile da somministrare con i debiti ormai alle stelle” (idem). Il resto è cronaca recente.

 

 

 

[2] “Operation Twist”. Il nome deriva da "twisting of funds" (spostamento di fondi) e designa la manovra espansiva con la quale la Federal Reserve, invece di stampare moneta acquistando Treasury come avviene nel quantitative easing, ottiene un risultato analogo rimodulando il suo portafoglio di T-bond (del valore totale di circa 1.600 miliardi di dollari). L'obiettivo è ridurre il debito con scadenza a breve e aumentare quello a lunga scadenza. La Fed usa in tal modo la sua potenza di fuoco per spingere ulteriormente in basso i tassi di interesse a lungo termine. La Banca d'Inghilterra (Boe) molto probabilmente darà il via a una nuova tornata di quantitative easing da 50 miliardi di sterline (56,8 miliardi di euro) (Il sole 24 ore , 22/9/2011, pag.3): poi ci ripensa e da 50 passa a 75, per un totale di 275 miliardi dall’inizio della crisi. La BCE intanto ripropone il credito illimitato alle banche per i prossimi 12-13 mesi e l’acquisto di titoli di covered bond per almeno altri 40 miliardi. Spostare i debiti dal privato al pubblico, spostare il debito da breve a lungo termine: si prende tempo e che il “fato” ce la mandi buona, tutto qui. Ma i debiti van comunque pagati, prima o poi, e chi li pagherà? Non c’è bisogno di tirare in ballo la storia recente e passata e di far previsioni: non solo i periferici Pigs e Piigs, Grecia in testa, giugulati dai maggiori briganti imperialismi, ma anche questi ultimi, ne danno la più ampia dimostrazione.

 

[3] L’andamento dell’economia mondiale negli ultimi anni, compreso il periodo da aprile 2006 a maggio 2007 considerato nella presente Relazione annuale, è stato straordinario (Bank for International Settlements, 77° Relazione annuale, 24/6/2007,  pag. 3). Ancora: Secondo le previsioni prevalenti per l’economia mondiale, ricavate dalle valutazioni espresse da un ampio novero di analisti, la crescita proseguirà ai ritmi elevati osservati di recente, l’inflazione mondiale resterà piuttosto contenuta e gli squilibri internazionali di parte corrente si attenueranno gradualmente. Per quanto riguarda i mercati finanziari, la previsione prevalente per il 2007 è che i tassi a lungo termine rimarranno intorno ai livelli attuali. Evidentemente, e giustamente, queste previsioni si basano sull’assunto implicito che non si verificheranno importanti sconvolgimenti geopolitici né turbative finanziarie tali da ripercuotersi sull’economia reale. Nel breve periodo, una previsione secondo cui il futuro assomiglierà molto al passato è sicuramente sensata. Anzi, considerando poi da vicino gli errori previsionali degli ultimi anni, si potrebbe concludere che vi è motivo di essere ancor più ottimisti (idem, pag.156).

 

[4] K. Marx, “Pauperismo e libero scambio”, in Opere complete, Vol. XI, pag. 375. Più oltre riportiamo qualche esempio di tali moralistici sfoghi del presente alla ricerca dei colpevoli. Detto di passaggio, forse sarà da questa frase che Carmer M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff, hanno preso spunto per intitolare il loro saggio This Time It Is Different (Questa volta è diverso, Il Saggiatore 2010): per rimproverare questi borghesi del loro incauto ottimismo? Quando al contenuto di questo saggio, se qualcuno vi cercherà una qualche spiegazione delle cause di questa crisi o di una delle innumeri crisi citate, resterà con un bel palmo di naso.

 

[5] In verità, qualche voce dissonante di preoccupazione era echeggiata qua e là, ma disperdendosi nel frastuono delle quotazioni di borsa altalenanti eppure in crescita, in particolare nei paesi cosiddetti emergenti, o smentita da chi sventolava la solidità della cosiddetta economia reale dell’Occidente e soprattutto delle aree più performanti e trainanti, Bric in testa. Tuttavia, anche queste voci “fuori dal coro” non hanno colto nel segno, non solo e non tanto per la non prevista potenza ed estensione della crisi, quanto perché – per interessi di classe (è su questo che è costruita e si arena la scienza borghese) – non potevano né possono andare oltre l’orizzonte capitalistico in cui sono immerse, limitandosi a una mera critica-monito degli eccessi odierni del  “liberismo selvaggio”, e in generale delle sue acute contraddizioni per attenuarne la portata dirompente. L’epoca imperialista, la fase del dominio del capitale finanziario, è l’epoca in cui il totalitarismo economico determina il totalitarismo politico, meglio se mascherato dal velo democratico fin quando le condizioni lo permettono, sia per inquadrare, forgiare e sottomettere negli ingranaggi dello Stato borghese le organizzazioni della classe operaia, non tollerando alcuna sua autonomia politica e sindacale, sia per sempre più intervenire nell’economia (alla faccia dei neoliberisti!) per smussare gli eccessi della sua anarchia, al fine della sua conservazione: ossia, dell’interesse generale della classe dominante. Tale interesse di classe non è la sommatoria di interessi individuali o di singoli gruppi, bensì la loro sintesi dialettica in funzione della conservazione dei rapporti di produzione o di proprietà esistenti: dunque, dei rapporti sociali e dei privilegi di classe in quanto tali, a cui sono sottomessi e anche sacrificati gli interessi particolari dei singoli agenti o frazioni, e in particolare delle mezze classi. E’ il movimento del capitale, la sua concentrazione e centralizzazione, che lo determina e l’impone: esso non solo si nutre della spoliazione dei singoli produttori – la sua tendenza di sviluppo è la spogliazione degli stessi capitalisti, piccoli, medi e grandi che siano. E di ciò la crisi è un potente acceleratore.

 

[6] L'innovazione finanziaria ha attutito la crisi dei mutui subprime sulle società Usa. Lo scrive il Fondo Monetario: ‘Malgrado una significativa stretta creditizia il cuore delle istituzioni finanziarie Usa è lontano dall' impatto della crisi’. Questo per la maggiore stabilità del sistema ‘grazie a nuove tecniche di ingegneria finanziaria’. Però ‘a spese dell'efficacia delle regole a protezione dei consumatori’” (“Fmi: sulle aziende impatto limitato”, La Repubblica, 9/8/2007, pag.32). Come stanno reagendo i mercati in questa mini-crisi? Sostanzialmente, stanno assorbendo il colpo. Alcune maglie deboli hanno ceduto, ma la rete di sicurezza è rimasta intatta”. I mercati saranno anche in fibrillazione, ma nell’economia reale? “Lo scenario che si presenta è di un po' di rallentamento nell'immediato ma anche qualche progresso per i trimestri futuri (Fabrizio Galimberti e Luca Paolazzi, “Mercati in tempesta, crescita solida”, Il sole 24 ore, 11/8/2007).  Cfr. anche Guido Tabellini, “Una  crisi  finanziaria? No, solo di liquidità”, Il Sole 24 ore, 25/8/2007; Riccardo Barlaam, “Bernanke; il peggio della crisi è passato”, Il sole 24 ore, 10/6/2008; Giuseppe Chiellino, “Alesina: perché questa crisi è diversa da quella del '29”, Il Sole 24 ore, 15/9/2008. In controtendenza il “Dr. Doom”, alias Nouriel Roubini, che nel maggio 2008 afferma che la crisi durerà almeno 18 mesi (per gli USA).

 

[7] Dalla prima crisi generale del capitalismo mondiale del secondo dopoguerra, ossia dal 1974-5. Per un approfondimento, cfr. “Il corso del capitalismo mondiale dal II dopoguerra verso il III conflitto imperialistico o la rivoluzione proletaria”, Il programma comunista, n.1/2005 e n.4/2005; sulle prime battute di avvio della crisi in corso, cfr. “Il crollo dei mercati finanziari è la palese conferma del grado estremo e irreversibile cui è giunta la crisi del sistema capitalistico”, Il programma comunista, n.4/2007, e “Altre brevi considerazioni sulla crisi finanziaria”, Il programma comunista, n.5/2007.

 

[8] Per i cosiddetti neoliberisti, la cosiddetta “deregulation” equivale al ritiro dello Stato dall’economia, come se non necessitasse di nuova regolamentazione e di ingerenza nell’economia. Il neoliberismo è soltanto una parodia del passato, come la tanto invocata libera concorrenza. Ma anche nel passato, quando i liberisti inglesi invocavano la legge sul grano, non chiedevano forse allo Stato di intervenire nell’economia?

 

[9] Non ci scomodiamo qui a dare la quantificazione delle migliaia di miliardollari.

 

[10] Altra invariante manifestazione di quel “comunismo borghese”, ovviamente unilaterale, ben noto a Marx-Engels, come del resto lo sono, oltre alla scarsa efficacia risolutiva delle misure anti-crisi, tutte le altre panzane sulle cause della crisi, che via via in estrema sintesi verranno citate.

 

[11] Al di là di qualche critica  a certe misure, tutti convengono che l’intervento degli Stati e delle Banche centrali, se non ha fermato la crisi, l’ha però frenata o attenuata: insomma, la solita classica formula che consiste nel prendere per causa quello che è solo un antecedente temporale – ovvero, si pretende che, se un avvenimento segue un altro, allora il primo deve essere la causa del secondo senza  tener conto di altri fattori che possono escludere la relazione.

 

[12] K.Marx, Il capitale, Libro Terzo, Utet, pag. 617

 

[13] Così, lo spostare debiti dal privato al pubblico, dal breve al lungo periodo, è soltanto un prender tempo – tempo che la crisi, col suo perdurare, erode proprio mentre amplia il “buco” sovrano. Tassi bassi e lo stampar denaro non producono l’effetto sperato (anzi!), quando non c’è ripresa nell’industria, o economia reale che dir si voglia. E’ come dar cibo a chi è satollo: da un lato, le aziende non investono e accumulano liquidità e le banche fanno lo stesso non concedendo ulteriore credito; dall’altro, lo stampare liquidità si aggiunge a quella esistente, e insieme dove vanno se non in quell’economia “irreale” a cui si vorrebbe mettere il guinzaglio? La crisi e, contro voglia, gli stessi addetti ai lavori sono lì a darne conferma quotidiana – citiamo a mo’ d’esempio soltanto alcune esternazioni: Federico Rampini, “Obama e la sindrome giapponese – armi spuntate contro la deflazione”, La Repubblica, 12/8/2010; M. Valsania, “La Fed tocca con mano i suoi limiti”, Il Sole 24 ore, 5/8/2011; Vittorio Carlini, “Una mossa scontata per comprare tempo”, Il Sole 24 ore, 22/9/2011 . Vedi anche nota 17.

 

[14] Non è necessario qui far ricorso al confronto tra economia capitalista ed economia comunista, confronto da cui lo sciupio del modo di produzione capitalistico risulterebbe a cifre impressionanti. Lo sciupio risulta già grandemente in confronto a tutti i modi di produzione che l’hanno preceduto, in quanto, a differenza di questi, lo sciupio è connaturato ad esso, aumenta col suo sviluppo e giunge al massimo grado nella sua fase decadente, per la semplice ragione che tutto ciò che produce è valore di scambio, merce, produzione per la produzione, e pertanto non per la soddisfazione dei bisogni primari e sociali, bensì per il bisogno “illimitato” di plusvalore, di adeguato profitto, linfa vitale per la quale si mette in movimento e senza la quale perisce. La crisi, che è sempre riconducibile alla sovrapproduzione di mezzi di produzione e dunque di capitale – un vero controsenso nelle epoche precedenti – , con la distruzione di ricchezza e forze produttive sovraprodotte e non solo, la guerra imperialista locale e, al massimo grado, la super-crisi (la guerra totale, massima espressione della civiltà e del progresso borghese), mostrano con evidenza questo spreco che appare celato nel periodo che le precede (che comprende l’euforica e “pacifica” prosperità) e in cui le innate contraddizioni del sistema formano le condizioni dell’esplosione. Insomma, si distrugge per produrre e si produce per distruggere. Ma lo sciupio non è solo in questo. Senza tirare in ballo quegli aspetti riconducibili alla corruzione, agli abusi, alla speculazione, alle catastrofi, annunciate e non, cosiddette “naturali”, che pur fanno parte integrante del sistema, né affrontare la questione della continua svalorizzazione del capitale ad opera del capitale stesso e in particolar modo il rapporto tra industria e agricoltura, sempre più a sfavore di quest’ultima, il punto fondamentale è che il capitalismo, mentre impiega improduttivamente immense risorse (animate e non) negli armamenti, nello stato di polizia e nei beni di lusso, in tutta quella paccottiglia inorganica, minerale, superflua e financo nociva atta a soddisfare i bisogni artificiali che è continuamente costretto a creare, per poi distruggere prima del tempo e ricreare (basta guardare al globo e allo spazio che lo circonda, sempre più inquinati e ricoperti di rifiuti), sempre meno riesce a soddisfare i bisogni elementari, primari e sociali della maggioranza dell’umanità. Non è certo una critica morale: soddisfi questi ultimi e diverremo i suoi più sfegatati adulatori!

 

[15] L’immessa ricchezza bruciata (c’è chi dice prossima al PIL annuo mondiale), lo sprofondare di gran parte dell’Occidente avanzato e dei paesi poveri a livelli di reddito medio pro-capite (misura che è tutto un dire) di una decina e più di anni addietro, impallidiscono di fronte alla ricchezza mancata: si paventa che ci vorranno forse 4-5-6…10  anni per tornare al livello pre-crisi, senza contare quanto tutto questo costerà alla maggioranza dell’umanità, proletaria, proletarizzata, sempre più immiserita.

Nel frattempo, secondo l’International Labor Organization (ILO), già a fine 2009 la disoccupazione raggiunge livelli record: “il numero dei senza lavoro è salito a quasi 212 milioni, 34 milioni in più rispetto al 2007, prima dello scoppio della crisi, con un incremento di oltre 10 milioni tra i giovani. Non solo, […] nel rapporto annuale sulle tendenze dell'occupazione, sottolinea anche che nel mondo circa 1,5 miliardi di lavoratori sono in posizioni vulnerabili, pari a metà della forza lavoro, con un aumento di 110 milioni nel 2009 rispetto al 2008. Inoltre 633 milioni di lavoratori e le loro famiglie vivono con meno di 1,25 dollari al giorno e altri 215 milioni vivono ai margini o con il rischio di cadere in povertà. Sulla base delle stime economiche del Fmi, l'ILO stima che la disoccupazione probabilmente resterà elevata per tutto il 2010” (“Disoccupazione record nel mondo: 212 milioni di persone senza lavoro”, Il Sole 24 ore on-line, 26/1/2010). Non c’è bisogno di aggiungere cifre di aggiornamento: che oltre tutto sono, come sempre, al ribasso.

A fine 2009, la disoccupazione negli USA, secondo una stima più realistica di quella ufficiale, ha raggiunto il 15%, pari a circa 25 milioni di lavoratori; nella UE, il 9,5% ufficiale, con 23 milioni, che giungono a 30 milioni se si considerano gli scoraggiati che non rientrano nelle statistiche ufficiali e i cassintegrati. Nemmeno la locomotiva cinese è risparmiata: sempre a fine 2009, si calcola che il contro-esodo (il ritorno alla campagna, lasciata per miseria in cerca della “fortuna” di un lavoro salariato) sia almeno di 23 milioni di lavoratori  (cfr, Luciano Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, 2011, pag. 111e seg.).

Dato che il capitalismo non conosce altro consumo se non quello solvibile, ossia in denaro sonante, il sottoconsumo delle masse va in senso opposto all’accumulazione, sovrapproduzione, concentrazione e centralizzazione del capitale, fino al sottoconsumo estremo (ossia, alla fame), anche grazie al continuo innalzamento dei prezzi dei generi alimentari, tra l’altro sempre più adulterati, e all’opposto dei prezzi di tutta la paccottiglia minerale sfornata e sovraprodotta, di cui tronfiamente fa sfoggio e con cui si misura il “progresso capitalistico”.

Disoccupazione, miseria, fame. Certo, i borghesi non possono fare a meno di constatarle e registrarle, queste delizie, e dichiararsi “determinati ad affrancare dal bisogno tutti i popoli della Terra”, perché “la povertà è la causa principale della fame e della malnutrizione”. Era il giugno del 1943 quando questo solenne impegno fu assunto nella conferenza delle Nazioni Unite sull'alimentazione e l'agricoltura di Hot Springs (Virginia, Usa). 57 anni dopo, visti i risultati al riguardo, sebbene nel periodo la forsennata produzione e accumulazione di ricchezza sia stata definita “senza precedenti”, 189 leader animati dello stesso proposito si sono radunati all'Onu e hanno lanciato il piano (Millennium) di liberare dalla miseria estrema almeno il 50% del miliardo di affamati del 1997 entro il 2015 e di eliminare definitivamente la povertà entro il 2025. Purtroppo, passati i 3/5 della prima tappa, “la fame nel mondo continua ad aumentare [anche, ndr] a causa della crisi economica e oggi colpisce più di 1 miliardo di persone, cioè un sesto della popolazione totale: lo afferma il rapporto annuale ‘The State of Food Insecurity’ (Sofi), pubblicato dalla Fao insieme con il Programma alimentare mondiale (Wfp), secondo cui gli affamati sono cresciuti del 9% quest'anno, arrivando alla vetta di 1,02 miliardi, il livello più alto dal 1970 (Piero Fornara, “Si aggrava la fame nel mondo a causa della crisi economica”, Il Sole 24 ore, 14/10/2009). Ancora: “Nei giorni del vertice Fao sulla sicurezza alimentare [Roma, 16-18/11/2009 - ndr], notizie allarmanti arrivano non solo dai Paesi in via di sviluppo ma anche dalla nazione più ricca del mondo. Negli Stati Uniti 49 milioni di persone non hanno la certezza di avere cibo a sufficienza. Il che equivale a dire che il 14,5 per cento delle famiglie americane ‘ha difficoltà a riempire la scodella’ e l'11 per cento ‘si nutre in modo insufficiente e scorretto’. Il quadro fornito dal ministero dell'Agricoltura Usa, relativo al 2008, è il peggiore dal 1995, da quando cioè l'amministrazione federale ha iniziato a raccogliere questo genere di dati. La crisi economica ha aggravato la situazione, soprattutto quella delle famiglie numerose: nel 2007 erano 12 milioni i bambini che vivevano in nuclei familiari in cui talvolta non c'era nulla da mangiare, nel 2008 sono passati a 17 milioni; i minori in evidente stato di denutrizione, sempre in un anno, sono aumentati da 700 mila a più di un milione… E il peggio è che i dati ufficiali potrebbero essere approssimati per difetto» (“Usa. 49 milioni di affamati. E' il dato peggiore dal 1995, Repubblica.it, 17/11/2009). E ancora: “Allarme povertà nella ‘ricca’ Gran Bretagna: entro il 2013 oltre tre milioni di bambini britannici vivranno in condizioni di assoluta miseria, un aumento di 600mila rispetto a oggi, secondo un rapporto pubblicato oggi dal rispettato Institute for Fiscal Studies (Ifs). L'impennata della povertà è dovuta a una combinazione di fattori, soprattutto la crisi economica e il taglio di molti sussidi deciso dal Governo di coalizione per ridurre la spesa pubblica e riportare il deficit sotto controllo. Secondo l'Ifs, la Gran Bretagna non rispetterà quindi l'obiettivo stabilito per legge lo scorso anno dal Child Poverty Act di ridurre la povertà infantile almeno al 10% del totale entro il 2021. Le previsioni sono invece di un aumento al 24% per quella data: un bambino su quattro vivrà in una famiglia il cui reddito è inferiore al 60% del reddito medio annuo, la definizione di povertà assoluta. Anche 4,7 milioni di adulti senza figli vivranno in queste condizioni. Anche la classe media sarà duramente colpita: il reddito medio dei cittadini britannici scenderá in media del 7% nei prossimi tre anni, secondo i calcoli dell'Ifs. È il calo piú marcato dagli anni Settanta” (Nicol Degli Innocenti, “Entro due anni in Gran Bretagna tre milioni di bambini vivranno in condizioni di povertà”, Il sole 24 ore, 11/10/2011).

“Naturalmente”, per la classe operaia, al flagello della disoccupazione e povertà si aggiungono le altre delizie che le riserva magnanimamente il migliore dei mondi possibili e che la sua crisi acuisce: al peggioramento delle condizioni di vita (e ciò che non fa il padrone lo fa il suo stato) si aggiunge il peggioramento delle condizioni di lavoro (salute, sicurezza, aumento dei ritmi e degli orari, riduzione delle pause), con aumento dei lavori precari, sottopagati e privi delle cosiddette “tutele” o “diritti”, cosi come del lavoro cosiddetto “irregolare”, che diventa sempre più indispensabile per il sistema, non solo economicamente, ma anche socialmente. Il fatidico progresso capitalistico si misura anche in altro modo: la produttività del lavoro, limitandoci agli ultimi 90 anni, è aumentata in percentuale esorbitante – ossia, quel si produceva in una giornata di 8 ore nel 1920 (quando fu conquistata con la lotta, anche se non fu immediatamente ottenuta), oggi si produce al massimo in 1-2 ore. Ma in che cosa si è tradotto questo progresso? La durata della giornata lavorativa non sono solo non è diminuita, bensì da tempo ha ripreso ad aumentare. Progresso a esclusivo beneficio del capitale! Quanto ai famosi “diritti”, di cui si riempiono la bocca i padroni e i loro tirapiedi sindacali e politici, non sono mai stati concessi spontaneamente, bensì conquistati con la lotta vera e non da burla e semmai smussati, ridimensionati e anche eliminati anche grazie al fattivo contributo di quei tirapiedi, falsi rappresentanti sindacali e politici della classe operaia.

 

[16] Qualcuno l’ha definita “crisi sistemica”. Sembra una parola grossa, ma  non ci si deve far ingannare dal temine: il senso è solo spaziale, e vuol dire che va oltre i confini locali, nazionali, investendo una serie di paesi, e che una volta debellata il sistema torna sano (grazie a fatidici aggiustamenti) e pimpante come prima. Contro la definizione di Grande recessione, viene proposta la definizione, come analisi più puntuale, di “seconda grande contrazione” (cfr. Carmer M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff, Questa volta è diverso, op.cit) Rimandando, come per altre questioni di capitale importanza, a ribattiture ben più esaustive, per il marxismo la crisi è innata nel modo di produzione capitalistico: più è costretto ad aumentare la produttività del lavoro più questa si trasforma in una maledizione, ossia nella crisi di sovrapproduzione, nella distruzione di capitale e forze produttive per poter ripartire. Questa necessità e questa maledizione fanno sì che ogni ripartenza (la cosiddetta “ripresa”) “prepara crisi più generali e terribili, e riduce [alla faccia di riformatori e rottamatori!] i mezzi per prevenirle” (Manifesto del Partito Comunista, anno 1848!). Così la crisi, crisi di sovrapproduzione, tipica del modo di produzione capitalistico, nell’arco della sua parabola storica muta, col mutare del suo sviluppo, in potenza ed estensione. Nell’epoca imperialista, del dominio del capitale finanziario, dei monopoli, etc. (che i beoti vorrebbero portare a più miti consigli), fase suprema e ultima di tale parabola, non è più crisi di giovinezza da cui ripartire con rinnovato vigore, bensì crisi di vetustà, di putrefazione irreversibile del suo sistema di funzionamento, sempre più globale e devastante, da cui fa sempre più fatica a riprendersi. Crisi storica, inframmezzata da crisi locali e financo generali, la cui soluzione può solo essere violenta: o guerra imperialista o rivoluzione proletaria. Non c’è molto da spiegare circa il fatto che la guerra imperialista (la soluzione borghese) non è una soluzione e che, se non interviene la rivoluzione a distruggere il mostro, l’intera umanità (e la natura, ovvero quel resta di entrambe) sarà gettata in un altro ciclo ancor più infernale del precedente e con la stessa alternativa (il XIX e soprattutto il XX secolo sono lì a confermarlo). Ma la non-soluzione borghese non può riproporsi all’infinito, non foss’altro per il fatto che la super-crisi, la guerra, è la madre della rivoluzione.

 

[17] Citazioni a volontà: Il panico globale e la massiccia distruzione di ricchezza sono amplificati dallo spettacolo di impotenza di tutte le autorità mondiali, governi e banche centrali. Questa crisi assume dimensioni che nessuno riesce più a padroneggiare. Ci sono troppi incendi da spegnere contemporaneamente e in troppi luoghi diversi. Gli strumenti tradizionali della politica economica e monetaria sono sopraffatti e superati” (Federico Rampini, “La spirale delle tre crisi”, La Repubblica, 7/10/2008). “Il 2009 sarà un anno ancora più difficile del 2008. Il che è tutto dire. Come tante volte abbiamo detto – guardando oltre tutte le congetture – siamo e sappiamo di essere in terra incognita”(Ministero dell’economia e delle finanze [italiano], “Imprese, lavoro, banche”, 5/3/2009). I mercati sono preoccupati. La politica, che avrebbe dovuto salvare il mondo dalla crisi, non mostra abbastanza leadership, e si muove in modo maldestro; mentre le prospettive per la crescita non sono rassicuranti. I timori di un double-dip, una seconda recessione, sono eccessivi, ma le incertezze crescono. Non sorprende allora che si sia affacciata una terza questione…: il dubbio sull'efficacia delle politiche economiche. I deficit fiscali, a volte colossali, e i tassi allo zero stanno davvero dando una mano? Il 'fondamentale' da guardare è uno solo: il lavoro: e in diversi Paesi avanzati la disoccupazione resta alta (Riccardo Sorrentino,  “Gli investitori guardano alle mosse del Fed”, Il sole 24 ore, 9/8/2011)

 

[18] Già nel 2008-2009 si erano posti il quesito che continua a ripetersi: “Da più parti, ad esempio sul Financial Times del 18 luglio a firma di Philip Stephens, si comincia a mettere in dubbio la solidità del modello delle democrazie liberali rispetto a quello dell'autoritarismo cinese (Mario Platero, “La politica in panne di Washington e le vie (in salita) del rilancio”, Il Sole 24 ore, 4/08/2011). Per l’incalzare degli eventi economici, il tempo del totalitarismo camuffato sta per scadere (e scadrà definitivamente laddove sarà rotta la pace sociale), mentre si accentuano i richiami all’unità nazionale. Sono i prodromi di preparazione ideologica al prossimo futuro: scontro di classe o macello mondiale. Ma questo totalitarismo sempre meno camuffato dà più fastidio alle mezze classi che alle masse proletarie: di qui, i lamenti di “lesa democrazia”, le denunce dei disastri del “liberismo selvaggio”, del suo “pensiero unico”, dell’“asservimento del potere politico al potere economico”, il pio desiderio di “abbellire” e “rabbonire”, il capitalismo.

 

[19] Dai tumulti del 2007 per il “caro-pane” alla Grecia e al “fuoco di Londra”, passando per la ”primavera araba” e i variopinti indignados di Spagna, Cile, Israele e  Wall Street, e tutte le meno note lotte operaie in Occidente e in particolare nelle cosiddette aree emergenti o emerse, Cina in testa: senza voler fare di tutta l’erba un fascio, operai e indignados hanno in comune il malessere per la crescente difficoltà del vivere quotidiano e l’incertezza sempre più nera del futuro.

 

[20] Reinhard Marx, Il capitale, Rizzoli (vedi anche l’ironico articolo ”Contrordine, compagni capitalisti, Karl Marx è di nuovo tra noi” su http://www.ilfoglio.it/soloqui/1801)

 

[21] Le citazioni sono tratte dal libro di Paul Krugman, Il ritorno dell’economia della depressione e la crisi del 2008 (Garzanti 2009, ripubblicato con aggiornamento relativo alla crisi in corso). Krugman, Nobel 2008 per l’economia, vorrebbe spiegare le cause della crisi partendo da tali premesse (il sottotitolo dell’editore dice tutto: “Il premio Nobel per l’economia ci spiega il ‘grande Crac’ e come uscirne”)! Di quest’incapacità, le ammissioni non mancano: si vedano ad esempio quella di Pietro Modiano (“Ammettiamolo: abbiamo capito ancora poco”, Il Sole 24 ore, 9/5/2009) e, ancor più esplicita e autorevole, quella della BIS, “77° relazione annuale”, 24 giugno 2007: L’economia non è una scienza esatta, quantomeno non nel senso che ripetuti esperimenti producono sempre gli stessi risultati. Le previsioni economiche si rivelano pertanto sovente errate, specie ai punti di svolta del ciclo, spesso per l’effetto congiunto di dati inadeguati, modelli carenti e shock aleatori. Ancora più arduo è il compito di assegnare una probabilità ai rischi concernenti le previsioni. Anzi, esso è talmente arduo che non sarebbe esagerato affermare che viviamo in un mondo fondamentalmente incerto, in cui è impossibile calcolare le probabilità, e non semplicemente in un mondo rischioso. […] In verità, alla luce dei massicci cambiamenti strutturali tuttora in atto, non è irragionevole sostenere che la nostra comprensione dei processi economici possa addirittura essere minore che in passato” (BIS, “77° relazione annuale”, 24 giugno 2007, pag. 155-156)

 

[22] Il superamento di una crisi è solo la fase di transizione verso altre fasi di crisi, senza che per questo si determinino necessariamente fenomeni catastrofici, come troppe volte paventato (Enzo Cipolletta, “Le crisi normali di un mondo nuovo”, Il sole 24 ore, 10/9/2008). Il signor Cipolletta, assai poco propenso ad aumenti del salario (leggi: condizioni di vita dell’operaio), è assai benevolo riguardo agli effetti della crisi su qualche miliardo di proletari; quanto al mondo “nuovo” che egli vede, beh!, lasciamolo alle sue farneticazioni.

A registrare le reazioni attonite della maggioranza, sembra che ogni crac finanziario colpisca all'improvviso. I sinonimi per descriverlo attingono al vocabolario delle calamità naturali. Terremoto, tempesta perfetta, tsunami. L'affinità è reale: per la dimensione tragica ma anche per la normalità di questi eventi. Proprio come le catastrofi naturali, i crac finanziari sono ricorrenti, quindi terribilmente scontati. Fanno parte del funzionamento fisiologico del capitalismo… Le lezioni che ci insegna la storia dei crac sono straordinariamente semplici. Tre costanti si ripetono da secoli. Ogni disastro finanziario è preceduto immancabilmente da una ‘bolla’, un periodo di eccessi speculativi. Ogni bolla è alimentata da condizioni di lassismo monetario, credito facile, e la convinzione di masse di investitori che una certa categoria di investimenti è destinata al rialzo infinito. Che si tratti di immobili, di azioni o di petrolio, ci sarà sempre una ‘teoria’ per dimostrare l'assoluta razionalità di quotazioni assurde ed eternamente crescenti. La seconda costante storica: ad ogni crac che si rispetti segue un periodo di riforme, elaborazione di nuove regole, maggiori divieti e controlli. La terza costante: appena varate le nuove leggi si scatena la gara per aggirarle e preparare l'avvento della bolla successiva” (Federico Rampini, “Quando il panico travolge le borse del mondo”, La Repubblica, 23/9/2008).

 

[23] Qualcuno mette in guardia: la crisi in corso non è come quella del ’29, è peggiore. Vedi Barry Eichengreen - Kevin H. O'Rourke, “A Tale of Two Depressions”, 6/4/2009 e successivi aggiornamenti (http://economicforumonline.org/_source/downloads/ataleoftwodepressions.pdf, per la versione del 21/4/2009)

 

[24] Così Giuliano Amato, in “Il capitalismo ha (ancora) i secoli contati”, Il sole 24 ore, 5/10/2008 (facendo rivoltare nella tomba, non solo Bernstein e Turati, ma persino Nenni). “Parlare di crisi del capitalismo, di fine della globalizzazione, di crisi di un sistema e di un modo di pensare, sarebbe una solenne stupidaggine”, aggiunge Guido Tabellini (“Il mondo dopo la prima crisi globale”, Il sole 24 ore, 7/5/2009). Lo… conferma Mario Platero: “Bhagwati: il capitalismo vivrà, che ignoranti certi economisti” (Il sole 24 ore, 2/6/2009).

 

 

[25] Così l’epigona adulatrice della “distruzione creatrice “, la storica americana Joyce Appleby (The Relentless Devolution), giusto epilogo della teoria schumpeteriana.      

 

 

[26] Giacomo Vaciago, “Tornare alla normalità dopo tagli del 40%”, Il sole 24 ore, 9/9/2009

 

[27] La crisi in corso è stata causata da un abuso incontrollato della finanza più che dalla diabolica e bacata struttura del sistema capitalistico come molti pensano (“La crisi del capitalismo… senza capitali”, marconiada.blog.ilsole24ore.com, 30/9/2008). Chi dice che il capitalismo crolla mentre resuscita il socialismo non ha di nuovo capito niente, perché il capitalismo assiste all'incepparsi non di sé, ma del nuovo sistema di scambio simultaneo universale che sfrutta da un decennio lo strumento di reti che avviluppa il mondo abbattendo spazio e tempo(Ezio Mauro, “Il nuovo disordine mondiale”, La Repubblica. 2/10/2008)

 

[28] La crisi ha fatto correre fiumi d'inchiostro sul collasso incombente del capitalismo. Banchieri d'affari trattati fino al mese scorso da eroi vengono oggi bollati come truffatori. Brontosauri del socialismo messi in soffitta da vent'anni sono tornati a pontificare. La finanza torna a essere un male e tra un poco il danaro verrà definito sterco del diavolo come nell'alto Medioevo, quando si condannava l'imposizione dei tassi d'interesse. I Governi, con in testa quello di Gordon Brown, che ha permesso il boom tumultuoso della City per 11 anni, si esercitano nel tiro allo speculatore, ritenuto, bontà loro, non più la causa di tutti i mali, come nel secolo scorso, ma un indesiderato amplificatore degli effetti da fermare. Il capitalismo irresponsabile di Wall Street, che ha usato la leva finanziaria fino a creare una bolla, scoppiata con l'effetto di una bomba nucleare, viene assimilato al capitalismo tout-court. I bonus, che nelle giuste condizioni sono un ottimo incentivo, sono stati visti come un modo per rapinare la propria azienda, creando un crescente divario tra ricchi e poveri nella società civile (“E' nata la finanza socialista”, marconiada.blog.ilsole24ore.com, 24/9/2008). “‘È la fine del mercato onnipotente’, dice Nicolas Sarkozy. ‘Il mercato finanziario ha fallito’, aggiunge l'ex presidente della Fed, Paul Volcker. ‘Il capitalismo rozzo è morto’, conferma Henry Paulson. Paradossale: non ci si concede dubbi in questo vortice di incertezza. Sembra essere cominciata una nuova epoca in cui il mercato è morto e lo Stato ne prende il posto” (Carlo Bastasin, “Lo Stato salva il mercato (ma la colpa è comune”, Il Sole 24 ore, 5/10/2008). “La crisi finanziaria attuale ha rimescolato a un tratto le carte, sconvolto le nuove certezze, mostrato come già obsolete o anacronistiche le riforme tanto penosamente attuate per dar vita allo stato mercantile. Gli economisti liberisti, che erano fino a ieri legione, ora si contano in poche centinaia: la maggioranza ha girato rapidamente insieme al vento. Gli imprenditori, che già furono ancor più radicali degli stessi economisti nel loro liberismo globalizzatore, ora invocano a voce altissima e senza ritegno veloci ed efficaci interventi statali a proteggerli dagli effetti della crisi. Ci tengono a definirsi uomini (e donne) dell' industria, a distinguersi dai nuovi monatti, gli uomini (e le donne) della finanza” (Marcello De Cecco, “Dentro il caos dell’economia mondiale”, La Repubblica, 7/10/2008). “La crisi non è stata causata dall'innovazione finanziaria, ma dal cattivo uso che se ne è fatto, spesso dissociando i nuovi prodotti dalle originarie esigenze economiche che ne avevano determinato il concepimento o creandoli ai soli fini di elusione delle regole. L'innovazione finanziaria non deve essere frenata se consente al sistema di funzionare meglio… I problemi sono sorti quando operatori con scarse conoscenze specifiche li hanno utilizzati – o sono stati convinti ad utilizzarli – con finalità diverse, a volte speculative. La responsabilità di questo cattivo uso è da individuarsi in alcuni soggetti, spesso mossi da un cattivo sistema di incentivi che a volte li hanno collocati approfittando della scarsa competenza dei propri interlocutori (Dario Scannapieco, “Contro la crisi, ombrelli su misura”, Il sole 24ore, 14/6/2009). Vedi anche: Il Sole 24 ore, 7/5/2009, e Il mondo dopo la prima crisi globale - La grande crisi, Istant book de Il Sole 24ore, ott.2008

 

[29] Vittorio Da Rold, “La scienza triste: gli economisti e la crisi non annunciata”, Il Sole 24 ore, 1/1/2009; Pietro Reichlin, “Greenspan e Bernanke bocciati in teoria”, Il Sole 24 ore, 23/5/2009; Niall Ferguson, “Non è il '29. Lo storico Ferguson boccia il Nobel Krugman”, Il Sole 24ore, 31/5/2009; Paolo Madron, “Minuetto di scuse tra economisti”, Il Sole 24 ore, 21/8/2009. “L'intera scienza economica ha fatto flop, un flop per altro fin troppo imbarazzante”(Niall Ferguson, “Cari economisti, imparate da Darwin”, Il Sole 24 ore, 3/12/2009); Donato Masciandro, “Mr. Bernake, e adesso?”, Il Sole 24 ore, 18/12/2009; Federico Rampini, “La stampa Usa attacca Bernanke - Fed sorpresa dal disastro subprime”, La Repubblica, 22/12/2009; Nicol Degli Innocenti, “Nella Londra elettorale scoppia la battaglia degli economisti”,  Il Sole 24 ore, 19/2/2010… Non vale la pena di continuare!

Quanto alle commissioni d’inchiesta, ci viene svelato (ma non è il senno di poi che ci stupisce e interessa) che “La crisi finanziaria poteva essere evitata. E i responsabili del disastro sono tanti: il lassismo di autorità e regole, dalla Casa Bianca alla Federal Reserve. Una gestione fallimentare al vertice della Corporate America. E, naturalmente, spericolatezza e avidità delle banche a Wall Street. È questo il giudizio sferzante della Commissione speciale sulle cause della bufera del 2008, ribattezzata la nuova Commissione Pecora in memoria dell'inchiesta parlamentare sulla Grande Depressione degli anni Trenta. Un giudizio lungo 576 pagine, frutto di 19 audizioni e 700 testimonianze, che sarà pubblicato oggi e di cui è filtrato un riassunto. Qualcuno potrà ritenerlo scontato. Ma farà bene a leggere il monito finale: ‘La peggior tragedia sarebbe accettare la tesi che nessuno avrebbe potuto prevedere la crisi e quindi fare qualcosa. Se accettiamo questo, accadrà ancora’” (M. Valsania, “Accuse negli Usa: la crisi era prevedibile”, Il sole 24 ore, 27/1/2011).

E’ arcinoto l’assioma che il capitalismo odierno viaggi, come ieri, su binari totalmente diversi da quelli del XIX secolo. Baggianata per dimostrare, anche in tal modo, che la teoria marxista, se mai è stato un ferro, è un ferro vecchio ottocentesco; e baggianata che ha tra i più indefessi e accaniti sostenitori i falsi rappresentati politici e sindacali della classe operaia e l’intellighenzia piccolo-borghese. Eppure, testardamente, i fatti continuano mostrare il contrario. E leggendo Marx ed Engels, anche solo qua e là tra le pagine della vibrante, monolitica teoria, non troviamo solo la piena attualità di descrizioni di eventi e citazioni, mai fini a se stesse, ma anche le puerilità e baggianate dei borghesi di allora, del tutto corrispondenti a quelle degli odierni, o viceversa (idem per l’Imperialismo di Lenin).

Per esempio, la commissione della Camera dei Comuni inglese incaricata di svelare le cause della crisi del 1857-58 concluse, svelando il già noto, che si trattava principalmente di “eccesso di speculazioni e abuso del credito”. Le commissioni Pecora e affini (quella made in USA sulla Grande Depressione e quella sulla “grande crisi” attuale) hanno forse svelato diversi “sferzanti giudizi”? Lungi dal negare l’esistenza e gli effetti di questi eccessi ed abusi, risolve forse la questione, allora come oggi, una tale constatazione? Non sarebbe più intelligente chiedersi “come mai, presso tutte le moderne nazioni industriali, la gente sia presa, per così dire, da smanie periodiche di dar via quel che possiede cedendo ai più trasparenti inganni e a dispetto di solenni ammonimenti ripetuti ad intervalli decennali?” (K. Marx, “Commercio e finanza in Gran Bretagna”, Opere complete, vol. XVI, pag. 34). Quali sono le circostanze sociali che riproducono, quasi regolarmente, queste stagioni di generale illusione, di speculazione selvaggia e credito fittizio? Qui sta il problema da capire e spiegare, cari signori, e se anche lo capirete non lo spiegherete mai, stando dalla parte in cui state. “Se si riuscisse ad individuarle una volta per tutte [prosegue Marx], si avrebbe un’alternativa molto semplice: o sono circostanze controllabili dalla società, oppure sono intrinseche all’attuale sistema produttivo. Nel primo caso la società potrebbe scongiurare le crisi; nel secondo, finché permane il sistema, bisogna sopportarle, come in natura i cambiamenti di stagione”. Orbene, come fa a quadrare il cerchio la Commissione Pecora 2? Se la crisi poteva essere evitata, la società aveva gli strumenti per farlo: ma in tal caso come mai si è verificata? Se invece non aveva gli strumenti, non poteva essere evitata: e quindi come mai dichiara il contrario? E’ la stessa autorevole commissione a risolvere il rebus, producendo non uno ma ben tre rapporti: e quanto si afferma in uno, quello ufficiale destinato alla maggioranza democratica, viene contraddetto negli altri destinati alla minoranza repubblicana, fallendo il suo scopo e deludendo gli illusi di presunta scientificità (cfr. Luigi Zingales, “Troppo rumore per nulla”, Il Sole 24 ore, 4/2/2011) – come se in partenza ne avesse avuto la ben che minima possibilità!

 

A questo punto, se la crisi è intrinseca all’attuale sistema produttivo – come ora vengono a dire per salvare capra e cavoli – , come di nuovo risolvere il problema, affermare che questo è comunque il migliore dei mondi possibile e far si che simili disgrazie non avvengano più in futuro? 

 

A meno che si creda davvero che il problema, in fin dei conti, risiede… nella umana natura! Ecco la risposta, e non c’è bisogno di scomodarsi a pensare tanto per arrivare a tale conclusione! Niente di più semplice per avallare la “naturalità” ed eternità del capitalismo: massima e insuperabile realizzazione da un lato della parte buona della natura umana e, dall’altro, superando le crisi ricorrenti e devastanti, della sua “perfettibilità”, col sottoporre a controllo la parte cattiva (avida, truffaldina, losca, ecc.) della natura umana.

 

[30] La Grande Crisi, Il sole 24 ore Istant Book, ottobre 2008

 

[31] Anche di tipo esistenziale:Ciò che il mondo sta attraversando oggi sembra qualcosa di inedito, perché una serie di fattori molto diversi tra loro si incrocia creando l'effetto di una paura globale. I cambiamenti climatici, il nuovo terrorismo globale, il timore dell'atomica iraniana o pakistana, la crisi finanziaria che da oltre due anni non sembra arrestarsi, la disoccupazione su scala mondiale, la crescita di nuovi soggetti storici in Asia e in America Latina: tutto ciò ci coglie impreparati e dà la sensazione di vivere in un mondo finito, un mondo senza orizzonti e, secondo alcuni, senza speranza. È strano e irrazionale alzarsi ogni mattina aspettandosi che in un qualche punto del globo avvenga una qualche catastrofe: il tempo delle catastrofi si è sostituito al tempo delle rivoluzioni, una parola che ormai sembra ricoperta dalla polvere della storia. Quello odierno è un mondo senza utopia, che soffre di non poter più sognare, di non poter immaginare un domani, tanto sono complesse le situazioni (Khaled Fouad Allam, “Il futuro è una terra straniera”, Il Sole 24 ore, 13/6/2010). Ogni epoca giunta al suo storico tramonto, esprimendo il peggio di sé nell’opporsi al nuovo che pulsa nel suo seno, travolge nello sgomento le pie anime belle che si crogiolano nell’illusione di un evolversi al meglio dello stato di cose esistente o perlomeno nell’immutabilità della loro tranquilla soddisfacente condizione sociale. Ora quell’illusione si è capovolta nella dura realtà che non lascia spazio nemmeno al sogno, all’utopia (la rivoluzione, sic!). Dopo il capitalismo non c’è più nulla, è la fine della storia!

 

[32] K.Marx, Introduzione a per la critica dell'economia politica.

 

[33] K. Marx, Lettere a Kugelmann (11/7/1868), Edizioni Rinascita, 1952, pag. (corsivi nostri).

 

[34] Tutta la scienza borghese, non solo quella economica, è al servizio del capitale, è corrotta in senso lato e in senso specifico dai e per i suoi fini e ne subisce le contraddizioni e i limiti. Di qui, anche i ridicoli impantanamenti, per stare all’attualità, nei ghiacci himalayani, nella pandemia suina, nello tsunami nucleare giapponese, etc.

 

[35] Sebbene non ce ne sia necessità, il corredo di note al presente testo direttamente e indirettamente lo conferma. E c’è chi si spinge oltre, affermando che tra cento anni la razza umana sarà estinta o che nel 2014 scoppierà una crisi globale senza precedenti, una sorta di giudizio universale (“Esseri umani estinti entro cento anni”, Il Corriere della sera, 22/6/2010)

 

[36] “La prossima ondata può mettere in difficoltà le aziende”, ha detto a Palermo il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, commentando la situazione economica internazionale e le sue ricadute in Italia. “Al di là del dissesto finanziario, che pure c'è, bisogna prepararsi a questo clima di paura che scatenerà molti istinti fortissimi che ricadranno sulle aziende. Credo - ha detto Bonanni a margine del Consiglio generale Cisl Sicilia - che dovremmo prepararci [leggi bene, ndr] per situazioni pesanti e apriremo una discussione forte nel Paese, molto importante per unificare gli sforzi ma anche per realizzare una condizione di sintonia e coesione tra tutte le persone importanti”. Bonanni ha quindi aggiunto: “Vedo che i governi si preoccupano dei depositi e dei conti correnti ma credo che dovrebbero valutare molto, molto, molto la stabilità delle aziende” (Il Sole 24 ore, 8/10/2008) – ossia, del mantenimento della pace sociale. Cfr. anche “Tremonti: La coesione sociale è il presupposto per la tenuta economica” (Il Sole 24 ore,  21/7/2009); “Confindustria e sindacati ‘parte integrante’ di un progetto Paese: L'obiettivo è il dialogo ed evitare che conflitti sindacali possano aggravare la situazione economica» (“Marcegaglia: insieme ai sindacati per un ‘progetto paese’”, Il sole 24 ore, 6/9/2009 ); Epifani: «Affrontare la crisi più uniti» (idem). Vedi anche M. Deaglio, A lezione dalla crisi, Guerrini e associati, 2009, e l’omonimo di Marx, nel suo Capitale, citato sopra.

 

[37]Questo fattore sociale della manipolazione dall'alto delle idee, che va dalla falsa notizia (nell'attuale organizzazione giornalistica le versioni di un fatto sono già tutte compilate prima che il fatto accada, e quando sembra che uno degli informatori abbia ragione si tratta pur sempre di un bugiardo; era il povero fatto che doveva accadere secondo uno degli schemi comodo a questo o a quello stato, a questo o a quel partito) fino alla critica e all'opinione bell'e fatta, non deve sembrare di poco peso. Esso si inquadra nella massa delle violenze virtuali, che cioè non prendono l'aspetto di una imposizione brutale con mezzi coercitivi, ma sono tuttavia risultato ed esplicazione di forze reali, che deformano e spostano situazioni effettive. Il moderno tipo di società borghese democratica, pur non scherzando nella consumazione di effettive violenze ‘cinetiche’ di polizia e di guerra, e battendo anche per questo coefficiente i diffamati vecchi regimi, porta a massimi sconosciuti (e comparabili ai suoi massimi di produzione e di concentrazione della ricchezza) anche il volume di questa applicazione di violenze virtuali, per cui gruppi di massa si presentano, per apparente libera scelta di confessioni, di opinioni e di credenze, come agenti contro i propri interessi obiettivi, e accettano le giustificazioni teoriche di legami ed atti sociali che in realtà li affamano o li distruggono addirittura “(Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe”, Prometeo, n.4/1946, ora in Partito e Classe, Edizioni Il Programma Comunista, pag.91)

 

[38] Nel gioco delle parti, ai più accomodanti sindacati fanno da contrappeso quelli apparentemente più intransigenti: a priori non ci deve essere spazio per “contestatori” fuori controllo e, se saltano fuori saranno isolati, messi alla pubblica gogna come estremisti irresponsabili, teppisti, terroristi, etc. e con altre misure. Il gioco si completa a livello politico: mentre l’economia ufficiale tende a minimizzare gli effetti della crisi per vedervi solo il lato gradevole – la sovrapproduzione e la ripresa – , le “sinistre” dipingono a tinte fosche la situazione e, senza però intaccarne la base, ossia le cause, pretendono di risolverla a suon delle fatidiche “ridistribuzioni” (colpire gli abusi, le rendite, i monopoli, etc.), compiendo il miracolo grazie a nuove elezioni, a quel “cretinismo parlamentare” che le porti al potere. La crisi non sarebbe quindi un prodotto del capitalismo, bensì opera di una cricca – la “Destra”, ruffiana, inetta, irresponsabile. Poi, in genere, alla prova dei fatti, alle “sinistre”, in quanto rappresentanti e deputate al controllo delle masse sfruttate e impoverite, compete il “lavoro sporco”: ossia quel che le destre non riescono a fare, pena il pericolo di rottura della beneamata pace sociale. Ma se l’emergenza preme e non c’è tempo per il “miracolo” delle urne, tutti si sbracano vicendevolmente nell’atto supremo dell’“unità nazionale” o di “governi tecnici”, con cui tirarsene fuori per riacquistare virgineo candore per il prossimo turno elettorale.

 

Partito Comunista Internazionale
              
                                                                  ("Il programma Comunista" 11 marzo 2012)

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  • Israele: Fraternità pelosa ( Il programma comunista, n°21, 1960)
  • Israele: Il conflitto nel Medioriente alla riunione emiliano-romagnola (Il programma comunista, n°17, 1967)
  • Israele: Nel baraccone nazional-comunista: vie nazionali, blocco con la borghesia ( Il programma comunista, n°20, 1967)
  • Israele: Detto in poche righe ( Il programma comunista, n°18, 1968)
  • Israele: Spigolature ( Il programma comunista, n°20, 1968)
  • Israele: Un grosso affare ( Il programma comunista, n°18, 1969)
  • Incrinature nel blocco delle classi in Israele(Il Programma comunista, n°17, 1971)
  • Curdi palestinesi(Il Programma comunista, n°7, 1975 )
  • Dove va la resistenza palestinese? (I)(Il Programma comunista, n°17, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (II)(Il Programma comunista, n°18, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (III)(Il Programma comunista, n°19, 1977)
  • Il lungo calvario della trasformazione dei contadini palestinesi in proletari(Il Programma comunista, n°20-21-22, 1979).
  • In rivolta le indomabili masse sfruttate palestinesi ( E' nuovamente l'ora di Gaza e della Cisgiordania)(Il Programma comunista, n°8, 1982)
  • Cannibalismo dello Stato colonialmercenario di Israele(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Le masse oppresse palestinesi e libanesi sole di fronte ai cannibali dell'ordine borghese internazionale(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • La lotta delle masse oppresse palestinesi e libanesi è anche la nostra lotta- volantino(Il Programma comunista, n°13, 1982)
  • Per lo sbocco proletario e classista della lotta delle masse oppresse palestinesi e di tutto il Medioriente(Il Programma comunista, n°14, 1982)
  • La lotta nazionale dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Sull'oppressione e la discriminazione dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°19, 1982)
  • La lotta nazionale delle masse palerstinesi nel quadro del movimento sociale in Medioriente(Il Programma comunista, n°20, 1982)
  • Il ginepraio del Libano e la sorte delle masse palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1984)
  • La questione palestinese al bivio ( Il programma comunista, n°1, 1988)
  • Il nostro messaggio ai proletari palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1989)
  • Una diversa prospettiva per le masse proletarie (Il programma comunista, n°5, 1993)
  • La questione palestinese e il movimento operaio internazionale ( Il programma comunista, n°9, 2000)
  • Gaza, o delle patrie galere (Il programma comunista, n. 2, 2008)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • A Gaza, macelleria imperialista contro il proletariato ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • Il nemico dei proletari palestinesi è a Gaza City ( Il programma comunista, n°1, 2013)
  • Per uscire dall’insanguinato vicolo cieco mediorientale (Il programma comunista, n° 5, 2014)
  • Guerre e trafficanti d’armi in Medioriente (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • Gaza: un ennesimo macello insanguina il Medioriente-Volantino (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • L’alleanza delle borghesie israeliana e palestinese contro il proletariato (Il programma comunista, n°6, 2014)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario  ( Il programma comunista, n°3, 2021)
  • A fianco dei proletari e delle proletarie palestinesi! ( Il programma comunista, n°5-6, 2023)
  • Il proletariato palestinese nella tagliola infame dei nazionalismi ( Il programma comunista, n°2, 2024)
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