DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Premessa: Pantalone non abita a Francoforte

Lo stato confusionale in cui è caduta l'UE, e in particolare l'Ume (la zona monetaria a 17 Stati), è una conferma che la crisi del sistema capitalistico mondiale non è affatto superata, ma continua ad agire e si estende oltre il piano economico, investe quello politico, attacca violentemente le istituzioni che meno rispondono alle necessità del Capitale finanziario. Sotto questo aspetto la crisi dell'Ume è crisi politica, esprime l'inadeguatezza dell'Europa, mosaico di nazioni indipendenti, a gestire le contraddizioni di un'area segnata da divisioni e squilibri, in cui al fragile legame dei trattati comunitari corrisponde una crescente integrazione economica e finanziaria condotta dai sistemi bancari dei poli imperialisti della Francia e più ancora della Germania, senza che a ciò corrisponda, né possa corrispondere in futuro – almeno nelle modalità auspicate dall'ideologia europeista piccolo-borghese – un’ntegrazione politica dell'intero spazio UE, e nemmeno del più ristretto circolo dell'Euro.

L'esplodere delle contaddizioni cui stiamo assistendo – di fronte alle quali proviamo ancora una volta la soddisfazione di veder confermati i fondamentali del marxismo rivoluzionario – farà deflagrare anche l'Ume se quella sorta di supergoverno (asse franco-tedesco, Bce, Fmi, commissario europeo) che si è andato costituendo per rispondere all'emergenza non metterà una pezza a chiudere le due falle principali: la crisi del sistema bancario e la crisi dei debiti sovrani. Anche così, la crisi potrà essere procrastinata, ma non risolta: in primo luogo, perché la crisi di sovrapproduzione globale – che interessa ovviamente anche il vecchio continente – non si risolve con interventi delle banche centrali, garanti "di ultima istanza" che irrorano il sistema di liquidità illimitata  (lo conferma il fallimento dei due "quantitative easing" della Fed), ma al più se ne attenuano gli effetti nel breve periodo; in secondo luogo - ed è questa la specificità del caso europeo - perché all'Europa manca e continuerà a mancare proprio Pantalone, il "garante di ultima istanza", una banca centrale abilitata a dare garanzia su tutto il debito sovrano dell'area. L'assegnazione di pieni poteri alla Bce, sì da farne a tutti gli effetti la banca centrale comunitaria, garante dei debiti sovrani, sarebbe l'unica soluzione in grado di sottrarre l'area alla speculazione finanziaria internazionale, ma significherebbe – questo sì – un passaggio reale verso una superiore integrazione, prefigurante un'integrazione politica. Di fronte a questa prospettiva, la Germania oppone un nein senz’appello. L'Europa è destinata a rimanere un'entità plurinazionale entro la quale sono le nazioni più forti, i poli imperialisti continentali, a dettare regole e condizioni.

Crisi bancaria e crisi del debito sovrano: Banche ingrate, Stati fessi

In linea generale, la crisi che sta colpendo i debiti sovrani dei Paesi dell'Unione Monetaria Europea, e che si è estesa dai periferici a Stati di grande peso come Spagna e Italia, toccando infine la stessa Francia, è un portato della grande crisi finanziaria del 2007 e della recessione da cui il sistema capitalistico non è mai uscito. Il lungo periodo di "denaro facile" e di politiche espansive che facevano capo alla FED, in un contesto globale di totale deregolamentazione dei mercati, aveva incoraggiato la proliferazione di prodotti finanziari e generato un'enorme massa di titoli privi di qualunque legame con l'economia reale, di capitale puramente fittizio che al riapparire delle prime difficoltà del meccanismo di accumulazione ha cominciato a perdere la sua apparenza di valore. Alla base della crisi dei debiti sovrani europei c'è dunque l'assunzione da parte degli Stati di una quota consistente dell'esposizione delle banche in attivi finanziari senza mercato, con conseguente aumento della necessità di finanziamento dei debiti sovrani e dei rendimenti dei titoli dei Paesi meno "solidi" dal punto di vista del bilancio e della struttura economica.

Paesi come la Grecia o il Portogallo che oggi sono accusati di essere responsabili di un eccessivo indebitamento, in realtà pagano le conseguenze della penetrazione finanziaria di cui sono stati oggetto per anni ad opera dei sistemi bancari dei Paesi che si pretendono virtuosi, ovvero dei poli imperialisti del continente. Negli anni precedenti la crisi, le banche tedesche e francesi avevano fatto la parte del leone nel sostenere la crescita dei cosiddetti PIGS, fornendo credito alla speculazione immobiliare e finanziaria in quelle economie che oggi sono accusate di essere troppo indebitate. Ma se oggi quei crediti rischiano di essere in buona parte vanificati dalla difficoltà di quei paesi di ripagare i propri debiti (che hanno assunto nel frattempo la forma di titoli di Stato), è proprio grazie alle "cicale" periferiche che le virtuosissime banche hanno potuto per anni conteggiare abbondanti utili nei loro bilanci.

La risposta dei governi alla crisi è stata di salvare il sistema finanziario gravato di titoli illiquidi. Il salvataggio ha comportato una crescita del debito degli Stati, che si sono accollati volumi enormi di titoli senza mercato delle banche, accettati come "collaterale" in cambio di liquidità. La FED ha continuato la sua politica espansiva con due successivi "quantitative easing", con l'obiettivo di mettere le banche americane nelle condizioni di finanziare la ripresa dell'economia cosiddetta "reale". L'azione della Bce, pur senza avere il carattere "non convenzionale" della Fed, è stata altrettanto massiccia nel sostenere l'interbancario europeo, finanziando direttamente le banche che tra di loro non si prestavano più un soldo, in cambio di titoli di dubbio valore. I rigoristi di scuola Bundesbank, che oggi bacchettano i periferici e criticano il sostegno della Bce ai debiti sovrani, in quei frangenti se ne stettero opportunamento in silenzio, considerato che proprio le banche tedesche erano – e lo sono tuttora – le più cariche di titoli spazzatura e più bisognose di liquidità. L'effetto dei salvataggi di qua e di là dell'Atlantico, in un contesto di sovrapproduzione cronica, di eccesso di capacità produttiva globale, è stato di alimentare una nuova stagione di speculazione come se le bolle finanziaria e immobiliare non fossero mai scoppiate. Le banche, tanto le americane quanto le europee, hanno intensificato anziché ridotto la caccia ad alti rendimenti in maneggi finanziari ad alto rischio, continuando contemporaneamente a caricare i propri bilanci di titoli di Stato, considerati più "sicuri" della gran parte dei titoli privati in circolazione.

Dal 2008, si è verificato il trasferimento di buona parte del debito privato a carico del debito pubblico. Il debito privato nei Paesi industrializzati è sceso di 1000 miliardi di dollari, ma quello pubblico è cresciuto di 8000 miliardi (dati di Crédit Suisse). La crescita dell'indebitamento degli Stati – che nelle economie avanzate in media è già sopra il 100% del Pil – è quindi un fenomeno in continuità con la crisi finanziaria, ispirato alla classica logica della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite. Nella UE, da settembre 2008 a dicembre 2010, gli stanziamenti statali post-crisi al settore finanziario ammontano a 4285 miliardi di Euro, di cui 1240 già utilizzati.

 

Sistemi finanziari nazionali che più hanno utilizzato i finanziamenti statali alle banche UE (miliardi di Euro),

RU      295              D       282              F        141

IRL     117              SP      98               GR      58

A        40              

 

Dalla tabella risulta che metà degli utilizzi riguarda le banche britanniche e tedesche. Alle 10 più grandi banche sono andati 620 miliardi, la metà del totale. La cifra stanziata è enorme, pari al 36% del Pil UE e al 10% del totale degli attivi bancari; si è trattato di un colossale esborso di denaro pubblico per chiudere buchi potenziali di bilancio di un sistema che nell'ultimo decennio si era finanziato per 1/3 con l'economia reale e per 2/3 con la finanza stessa – il che significa che almeno 2/3 degli attivi bancari è costituito da capitale fittizio (1). 

Dopo essere state salvate dagli interventi governativi che ne hanno acquistato i titoli e monetizzato il debito, le banche si sono ulteriormente rifinanziate con prestiti pubblici di denaro a breve a tassi prossimi allo zero, e con quel denaro hanno acquistato titoli del debito pubblico a lunga scadenza emessi  in gran parte proprio per finanziare le banche stesse. Queste continuano a lucrare giocando sui differenziali di rendimento tra prestiti pubblici a breve e titoli a lunga scadenza, i più colpiti oggi da attacchi speculativi, e in tal modo utilizzano i rendimenti del debito pubblico per recuperare le perdite subite in conseguenza della crisi, non potendo affidarsi ai finanziamenti ad un'economia reale che – con l'eccezione finora della Germania e dei suoi satelliti – è entrata in una fase di cronico ristagno.

La "speculazione" non si presenta qui nella veste parodistica di “avidi affaristi senza scrupoli”, ma come necessità del sistema finanziario di conseguire utili con le opportunità offerte dalla situazione, che al presente si limitano per lo più al movimento di titoli senza valore all'interno del sistema stesso. Il dominio incontrastato del capitale finanziario internazionale che, attraverso i cosiddetti "mercati", esprime giudizi inappellabili su governi ed economie nazionali, è piuttosto (dialetticamente) una manifestazione dell'estrema fragilità del sistema nel momento in cui la sua dinamica si autonomizza da quella vitale, ma ormai debole, della produzione di plusvalore. Oggi più che mai il Capitale ha bisogno dello Stato per sopravvivere alla sua crisi storica. Il sistema finanziario altro non può che affidarsi allo Stato per garantirsi dal fallimento e al debito pubblico per garantire remuneratività ai propri impieghi. A loro volta, gli Stati sono chiamati a intervenire per ridurre il deficit di bilancio e così finanziare il costo di quel debito che aumenta anche per il soccorso ai traballanti bilanci bancari. Il fatto che la riduzione del deficit di bilancio vada a carico quasi esclusivo dei redditi da lavoro dipendente, delle pensioni e della spesa per i servizi cosiddetti "sociali", è l'ennesima dimostrazione che il sistema capitalistico è ormai un organismo parassitario, capace più di drenare ricchezza dalla società che di generarla.

L'investimento delle banche nei debiti sovrani non rappresenta tuttavia un porto più sicuro rispetto agli impieghi nella finanza speculativa. Gli enormi quantitativi di titoli pubblici in mano alle banche costituiscono anch'essi un valore – Marx lo dimostra – del tutto fittizio. Quest’apparenza di valore è messa a rischio proprio dal movimento dei capitali di cui sono agenti principali le stesse banche. La corsa alla vendita dei titoli a rischio e all'aquisto di quelli ritenuti "sicuri" (americani, tedeschi, svizzeri...) rappresenta il tentativo di salvaguardare il capitale fittizio dalla minaccia di deprezzamento che appartiene alla sua stessa natura. Quando i titoli di un debito sovrano sono sottoposti a massicce vendite, all'aumento percentuale dei rendimenti corrisponde la riduzione percentuale del loro valore. La possibilità, tutt'altro che teorica, di un default del debito pubblico di uno o più Stati poggia in ultima istanza sul fatto che questi titoli non hanno in sé alcun valore, rappresentano emissioni fondate su futuri prelievi fiscali, a loro volta legati all'andamento economico, alla produzione di plusvalore sociale. Tuttavia, nella contabilità bancaria il valore nominale dei titoli si presenta come valore reale e la sua riduzione è fonte di perdite. Considerato che gran parte del debito greco di 350 miliardi è in mano alle banche francesi e tedesche, la decisione comunitaria di intervenire a garanzia della solvibilità del paese è stata presa principalmente a favore di quei sistemi bancari. Le 12 più grandi banche tedesche  sono esposte per 68 miliardi di Euro verso i titoli dei PIIGS, una cifra molto più elevata degli altri paesi europei ritenuti più "deboli", e, nonostante negli ultimi tre anni abbiano aumentato la quota capitale, la cifra di esposizione rappresenta ancora oltre il doppio  del capitale di garanzia (2).

Ma la situazione critica delle banche non si limita affatto ai titoli sovrani detenuti, che rappresentano tutto sommato una piccola parte della loro esposizione. Le grandi banche del Nord, specie francesi e tedesche, sono piene di titoli spazzatura. Nei sistemi bancari europei l'ammontare di questa carta straccia, o giù di lì, raggiunge i 337 miliardi di Euro. Deutsche Bank ne ha più di 46, Bnp Paribas quasi 33. La stessa caduta del colosso franco-belga Dexia non ha nulla a che vedere coi titoli sovrani, ma con la presenza di 1/3 di asset illiquidi sul totale degli attivi. Dietro la cosiddetta "crisi del debito sovrano" e dietro la stessa crisi dell'Ume, si cela un’enorme voragine finanziaria che rischia di scatenare una crisi sistemica.

Über alles!

Nella loro posizione di principali creditori, Francia e Germania hanno assunto la gestione della crisi dei debiti sovrani dei PIGS, con l'obiettivo di creare le condizioni per il salvataggio delle proprie banche. Oggi sembra costituirsi una sorta di "supergoverno" che affianca ai rappresentanti dei due governi nazionali la Bce, il Fmi e il commissario europeo: ma di fatto il punto di vista tedesco è quello che sistematicamente prevale su ogni questione rilevante, dimostrando che uno degli aspetti più significativi di questa crisi è il riaffermarsi della Germania come prima potenza politica oltre che economica nel continente. Le premesse di questa supremazia, di fronte alla quale la Francia riveste solo formalmente un ruolo paritario, si sono costruite a partire dalla riunificazione tedesca.

In seguito alla crisi finanziaria del 2008, la Germania ha improvvisamente abbandonato il ruolo trainante che aveva assunto nell'accelerazione del processo d’integrazione culminato con il trattato di Maastricht. Allora, come sta facendo oggi, il governo tedesco respinse la proposta di una garanzia congiunta a livello europeo per il salvataggio dei sistemi finanziari, e ottenne che ogni singolo Stato si facesse garante delle proprie banche. Era la dimostrazione che l'"europeismo" tedesco, che aveva portato a Maastricht, rispondeva all'interesse strettamente nazionale di far accettare ai partners europei (Francia in primis) e agli USA il boccone indigesto della riunificazione tedesca, la cui portata si caricava di ben altre implicazioni e prospettive rispetto a quelle di un trattato sottoscritto da Stati sovrani (3).

Per un ventennio, la portata storica della riunificazione tedesca è stata offuscata dalla ripresa del percorso di integrazione europea e dall'adozione dell'Euro, a cui si è voluto assegnare una valenza assai superiore a quella che gli spetta. La Germania ha dovuto dimostrare una vocazione "europeista" che si poneva in continuità con il quadro politico post-bellico, in cui l' Europa Unita non costituiva che un tassello dell'alleanza atlantica, privo di una prospettiva strategica autonoma perché geneticamente incapace di una sintesi politica unitaria tra diversi interessi nazionali.

Mentre il gigante economico comunitario scontava l'eterna condanna al nanismo politico, la Germania s’impegnava con successo nell'integrazione dell'Est, i cui costi notevoli davano però buoni frutti in termini di produttività del lavoro a Est e di convergenza tra le due economie. (4)

Parallelamente al processo di riunificazione, la Germania è stata interessata da una forte ristrutturazione del sistema produttivo, già caratterizzato dall'alta concentrazione in grandi gruppi industrial-finanziari, che si è tradotto in un aumento della composizione organica media e della produttività del lavoro. Molte imprese tedesche hanno ridotto i costi attuando una progressiva delocalizzazione di segmenti del processo produttivo in Est Europa; importanti riforme del mercato del lavoro hanno ridotto i sussidi di disoccupazione, esteso la percentuale dei contratti a termine, ridotto il peso dei contratti nazionali rispetto a quelli aziendali, più flessibili. Al prezzo pagato dal proletariato tedesco con un aumento della disoccupazione e con il contenimento salariale, ha corrisposto un rafforzamento del sistema produttivo del Paese, un export ancora più concorrenziale, la riaffermazione del ruolo trainante della macchina produttiva tedesca nel contesto continentale.

Negli anni in cui i PIGS venivano nutriti dalle sue banche, la Germania registrava tassi di crescita della produzione e dell'export che la confermavano "locomotiva" d'Europa, pur in un contesto generale di ripresa incerta. Cresceva in tal modo il gap con gli altri stati europei, che si traduceva in un surplus commerciale, per 2/3 verso gli altri paesi dell'Euro (5). Dal 1995 al 2006, la crescita trainata dall'export industriale era assai più moderata di quella di Paesi come Grecia, Spagna e Portogallo, che registravano forti incrementi (tra il 2,5% e il 3,6%), ma contemporaneamente un deficit commerciale fortemente negativo (nel periodo, in media del 12, del 9 e del 5% del Pil) e un forte aumento del costo del lavoro (media annua: +4,5%, + 3%, + 2,8%) (P.Reichlin, cit.). Questa situazione è continuata anche dopo la crisi del 2008; nel 2010, anno in cui la Germania era in surplus verso l'estero del 5,1%, i PIGS  registravano forti deficit con l'estero (in rapporto al Pil: Italia 4,2%, Spagna 4,5%, Portogallo 9,8%, Grecia 11,8%). I capitali hanno cominciato ad abbandonare quei paesi accentuandone i deficit di bilancia dei pagamenti, che sono stati finanziati negli ultimi tre anni dalla Bce con emissione di moneta per un valore superiore ai 100 miliardi di Euro all'anno (6) Nell'ambito dell'UME, la moneta unica consente alla superiore produttività dell'economia tedesca di tradursi immediatamente in competitività in termini di prezzi, senza l'ostacolo delle svalutazioni competitive che possono praticare solo i Paesi con una propria moneta. L'Euro ha rappresentato un vantaggio anche per i Paesi che hanno approfittato della forza della moneta unica per finanziare a bassi tassi d’interesse una crescita economica fondata sulla speculazione edilizia e finanziaria; ma ora che si tratta di garantire il pagamento dei debiti, essi subiscono la forza del gigante tedesco senza potervi contrapporre una propria politica monetaria. Sotto questo profilo, l'Euro è stato un amplificatore della supremazia tedesca sul continente europeo, oltre che un ottimo veicolo monetario per piazzare le merci tedesche sui mercati extra-UME a prezzi più vantaggiosi rispetto al vecchio marco. Dopo l'introduzione dell'UME nel 1998, per un decennio i differenziali tra i tassi dei titoli nazionali sono rimasti bassi o nulli, ma in seguito alla crisi finanziaria e agli interventi statali salvabanche, l'andamento dei tassi del debito sovrano ha cominciato a riflettere il grado di maggiore o minore difficoltà delle economie nazionali. Fondamentalmente, si è verificata una "corsa alla qualità", cioè ai rendimenti più sicuri, da parte di tutti gli investitori, che ha amplificato la divaricazione dei rendimenti tra i titoli a maggior rischio e quelli dei paesi considerati più solidi o "virtuosi".

L'area comunitaria in piena crisi politica: Commissari e commissariati

La crisi europea ha assunto sotto diversi aspetti una forma politica. Si tratta in primo luogo del tramonto, probabilmente definitivo, dell'idea piccolo-borghese che l'integrazione politica del continente passi attraverso una pacifica e progressiva integrazione economica, culminante nella realizzazione di una comunità di nazioni unite sotto una sola bandiera federale. Ciò a cui si assiste, infatti, è la piena affermazione delle istanze nazionali in un contesto di rapporti di forza inter-comunitari dove il pesce grosso detta le sue condizioni al pesce piccolo. Il risultato di ben 14 vertici di emergenza in 20 mesi è stata la costituzione di una sorta di direttorio centrato sull'asse franco-tedesco, la direzione Bce e il commissario UE, nel quale, in tutta evidenza, le decisioni politiche sono prerogativa delle due nazioni-guida, con netta prevalenza della Germania. Già questo aspetto costituisce un superamento del vecchio assetto comunitario, anzitutto perché le decisioni non passano attraverso le istituzioni UE, e secondariamente perché il nucleo forte interno all'Ume va esautorando da scelte decisive i Paesi UE esterni all'area, in primo luogo il Regno Unito. In questo si prefigura una spaccatura tra l'area Ume e l'area europea extra-Ume, che non è tuttavia l'unica nel novero delle possibilità.

Il dato più evidente di tutti i vertici che hanno preceduto quello di fine ottobre 2011 è stato la riluttanza della Germania ad assecondare i salvataggi dei paesi in crisi debitoria. In effetti, poiché l'ammontare dei contributi dei singoli Stati ai salvataggi è in proporzione al peso economico di ciascuno, spetta proprio alla Germania il maggior carico, con un forte trasferimento di risorse verso i Paesi del Sud Europa. Alla Germania, come alla Francia, interessa salvare le proprie banche e assicurare stabilità monetaria, non coinvolgersi oltre un certo limite nei problemi altrui. L'apparente indecisione del governo tedesco nella gestione della crisi dei debiti sovrani è stata in realtà frutto di una precisa strategia che mira a tenere sulla corda gli stati in crisi di debito per costringerli a politiche di risanamento, atteggiamento che ha rischiato di far precipitare la crisi, ma anche indice del fatto che il capitalismo tedesco mette in conto anche la possibilità di rinunciare all'Ume (7), nonostante i costi enormi che ne deriverebbero per l'export e il sistema bancario.

In realtà, l'esito del vertice di fine ottobre non cambia sostanzialmente le prospettive delineate dai vertici precedenti. Alla dichiarata volontà di salvare la moneta unica sono seguite soluzioni che non rappresentano un salto di qualità rispetto ai rattoppi già decisi in precedenza. Alla Grecia vengono assegnati altri 100 miliardi di aiuti, le banche dovranno accettare la perdita del 50% del valore nominale dei titoli greci detenuti e per rafforzarsi dovranno procedere ad una ricapitalizzazione; il fondo "salvastati" aumenta la sua dotazione da 450 a circa 1000-1400 miliardi in virtù di un "effetto leva" (leggi: "indebitamento"); si costituisce uno strumento finanziario (Special Purpose Vehicle) che dovrebbe attrarre fondi sovrani esteri a sostegno dei debiti pubblici europei. In realtà, le banche per ricapitalizzarsi potranno ricorrere in seconda battuta agli aiuti statali e in ultima istanza allo stesso fondo "salvastati", la cui dotazione in realtà rimane quella di prima (440 miliardi, di cui 140 già impegnati per Portogallo, Grecia e Irlanda), e solo con un artificio finanziario si eleva ad una cifra superiore. Le prospettive di interventi stranieri a supporto del fondo, infine, non rientrano tra i poteri decisionali degli europei (8).

In conclusione, la tanto celebrata risoluzione del vertice di fine ottobre ha partorito un nuovo topolino. Non è stato affrontato il vero limite dell'assetto economico dell'Ume che sta nella natura della Bce: nella zona Euro la Bce ha la prerogativa di erogare liquidità, ma non è autorizzata a "monetizzare" il debito sovrano, oltre a essere vincolata dal suo statuto, modellato sulla Bundesbank, al criterio fondamentale della salvaguardia del valore della moneta per contrastare i rischi di inflazione. Sotto quest’aspetto, la Bce è già andata oltre il suo mandato istituzionale erogando diverse decine di miliardi per salvare Grecia, Portogallo e Irlanda, ma non è in grado di dissanguarsi ancora a lungo per mettere un freno ai movimenti al ribasso acquistando titoli di Stato italiani e spagnoli (o addirittura francesi), dove l'ordine di grandezza sale a diverse centinaia di miliardi di euro, e dove è impensabile assorbire le stesse percentuali del debito greco e irlandese.

Più in generale, la contraddizione della Bce sta nel suo essere la banca centrale di una aggregazione di Stati indipendenti, con condizioni e interessi divergenti, specie nelle fasi di crisi; la sua stessa pretesa "indipendenza" dalle pressioni dei singoli governi le impedisce di attuare massicci interventi alla stregua di quelli della Fed (quantitative easing), e nello stesso tempo ne fa uno strumento dei capitalismi più forti. Gli interventi della Bce nella crisi riflettono pienamente l'indirizzo politico della Germania: salvare l'Euro, ma respingere soluzioni stabili, in modo da tenere gli Stati in difficoltà sotto la pressione dei mercati finanziari, forzandoli a politiche restrittive. Di fronte ai mercati internazionali, la Bce incarna la debolezza politica europea: è una banca centrale che non può garantire liquidità illimitata nelle situazioni di crisi sovrana.

Di fatto, la Bce non viene coinvolta nei salvataggi, nemmeno indirettamente – come proposto dai francesi, con l'idea di fare del fondo "salvastati" una banca che come tale avrebbe potuto essere finanziata dalla Bce. I tedeschi si oppongono a soluzioni che implichino un'assunzione a pieno titolo dei debiti sovrani europei da parte della banca centrale di area, come si sono sempre opposti all'emissione di titoli di debito sovrano comunitari (Eurobonds), il cui premio al rischio sarebbe risultato una media dei rendimenti dei titoli sovrani nazionali, aggravando il costo del finanziamento del debito tedesco. A ciascuno i propri titoli di Stato, a ciascuno le proprie banche! Le vere "soluzioni" non sono mai state prese in considerazione dalla Germania, né lo saranno in futuro, e ciò è garanzia del permanere dell'instabilità economica dell'area Euro come del rischio della sua deflagrazione.

Nel vertice, si è parlato di una riscrittura dei trattati: ma ciò non va inteso come una svolta verso una maggiore integrazione, bensì come un consolidamento degli attuali rapporti favorevoli al predominio franco-tedesco. I nuovi trattati dovranno servire a "imporre le linee di politica economica agli Stati membri dell'UE" (9) cioè a rendere operative regole sanzionatorie per i Paesi periferici che non rispettino il "patto di stabilità": una pura e semplice ratifica degli attuali rapporti politici ed economici intra-Ume, che assegnano all'asse franco tedesco il ruolo decisionale e agli altri impongono limitazioni di sovranità. Non siamo dunque in presenza di un processo che, sulla spinta dell'emergenza, imponga alla Germania e alla Francia di avanzare nel cammino dell'integrazione politica dell'area Ume, ma piuttosto di un rafforzamento politico dei due poli imperialisti di area (Germania e in subordine Francia) nei rapporti con i paesi periferici – Italia compresa – che costituisce una ratifica dell'integrazione economica condotta nel decennio precedente attraverso la penetrazione finanziaria dei rispettivi sistemi bancari nell'area Euro. In base alle decisioni dell'ultimo vertice europeo, il programma di acquisto di fondi sovrani da parte del fondo "salvastati" è subordinato a un piano di riforme predisposte a Bruxelles che deve essere approvato da alcuni parlamenti, il primo dei quali è il Bundestag. Saranno i parlamentari tedeschi riuniti in seduta plenaria a decidere sulle pensioni di italiani, spagnoli, greci, ecc...

Oltre l'Euro: Eurasia

L'altra spaccatura che si prefigura, oltre a quella tra Stati interni ed esterni all'Ume, è quella segnata dalla linea di demarcazione Nord/Sud. Per la Germania, l'euro va bene finché costituisce un vantaggio, ma dal momento in cui la sua sopravvivenza implicasse una limitazione della propria sovranità nazionale, ne farà a meno. Nel corso della crisi, nei Paesi rientranti nell'area di diretta influenza economica e politica della Germania è aumentata l'insofferenza verso gli Stati dell'Europa mediterranea. La Finlandia è riuscita a strappare alla Grecia un accordo bilaterale di garanzia dei propri crediti; l'Olanda ha proposto brutalmente una commissione comunitaria che abbia la facoltà di comminare sanzioni fino all'espulsione ai Paesi che non rispettano il patto di stabilità. Il fermento nazionalista nell'Europa centrale è particolarmente evidente nella deriva autoritaria dell'Ungheria, dove la nuova costituzione, che dovrebbe informarsi a principi europeisti, ha confermato il fiorino come moneta nazionale, allontanando la possibilità di una futura adesione all'UME.

L'idea che la Germania si troverebbe davanti alla scelta obbligata di salvare l'Euro e quindi di assumere l'onere di sostenere finanziariamente i periferici tiene conto di valutazioni esclusivamente economiche e non considera prospettive storiche alternative alla continuità dell'Ume. In Germania è in atto da tempo uno scontro tra una tendenza favorevole a salvare la moneta unica e una rivolta ad altre prospettive, come la nascita di un'area economica nordica, dotata di un euro forte, e di un'area mediterranea con un euro svalutato. La base materiale della divisione di vedute all'interno della borghesia tedesca risiede nel vacillare dei vecchi equilibri economici e geopolitici sotto l'incalzare della crisi.

Se la crisi portasse ad una disgregazione dell'UME, al suo posto potrebbe nascere una zona monetaria più ridotta, ma più corrispondente all'area già economicamente integrata ruotante attorno all'asse del Reno, più i Paesi della fascia centroeuropea, dalla Finlandia alla Slovenia. La costituzione di un'area monetaria economicamente forte e omogenea offrirebbe le condizioni per una ripresa del sistema finanziario tedesco dopo la crisi generale che seguirebbe al fallimento dell'Euro: potrebbe essere rilanciata la penetrazione finanziaria a Est, che negli ultimi anni ha permesso gli alti tassi di crescita delle economie degli Stati baltici e dell'ex Patto di Varsavia e che oggi è messa in discussione proprio dall'esposizione delle banche nel debito dei PIIGS (10). La continuazione della penetrazione finanziaria ad Est, verso i Paesi ex “sovietici”, è una direttrice vitale dell'imperialismo tedesco, richiamata dal vuoto di potere seguito al crollo dell'URSS e ostacolata dalle iniziative di influenza politica e militare degli USA. Una ripresa e un rafforzamento del processo d’integrazione economica dell'area compresa tra i confini russi e il Reno interesserebbe lo spazio della vecchia Mitteleuropa; uno spazio non puramente economico – a differenza di UE e UME – ma con una propria tradizione storica e una propria identità culturale, quindi in potenza anche politicamente più omogeneo. Non prospettiamo certo con questo una "rinascita" della vecchia Mitteleuropa, che è materia dei libri di storia, ma una serie di condizioni che favoriranno l'integrazione degli Stati dell'area entro la sfera d’influenza del capitale tedesco, in un rapporto di subordinazione più o meno accentuato.

Proprio nell'Esteuropa, a partire dalla Moldovia nel 2009, è iniziata la penetrazione finanziaria e commerciale cinese con commesse per infrastrutture e acquisti di titoli del debito pubblico degli Stati (11). La forza gravitazionale della Cina sta spostando verso Est il baricentro della (geo)politica europea e mondiale ed esercita inevitabilmente la sua attrazione. Ma la Cina si propone oggi come diretto concorrente in un'area di tradizionale influenza tedesca. L'"orientamento ad Est" appartiene alla storia della Germania, alla tradizione prussiana e al "nazionalbolscevismo" di interguerra, e la spinge per necessità alla prospettiva di una integrazione fra le immense risorse naturali della Russia e l'avanzatissima industria tedesca che di quelle risorse ha ancora oggi vitale bisogno (12). I rapporti tra Germania e Russia non si sono interrotti neppure al tempo della guerra fredda (Ostpolitik) soprattutto in materia di gasdotti. Si sono poi consolidati nell'ultimo decennio con la proposta di un'alleanza energetica dal significato non solo economico, ma di rafforzamento dei legami tra la Russia e l'occidente europeo. Questa politica, culminata nel 2003 con la comune opposizione di Germania e Russia, assieme alla Francia, alla guerra in Iraq, ha incontrato la forte avversione dei paesi dell'ex Patto di Varsavia e degli Usa. Il risultato più significativo di questo indirizzo è stata la creazione del gasdotto Nord Stream, che dal 2011 scavalca attraverso il Baltico i paesi dell'Europa orientale giungendo direttamente in Germania.

Questi e altri aspetti (tra cui il dato che dal 2007 l'investimento tedesco in Russia è superiore a quello cinese, a riprova di una competizione in corso tra le due potenze nell'area) confermano il rafforzamento del tradizionale legame, tanto che "Berlino potrebbe persino diventare un partner strategico della Russia a livello globale, per le questioni cioè non strettamente attinenti allo spazio europeo" (13). La stessa Polonia, che nel 1920 si è messa di traverso tanto al movimento della rivoluzione proletaria verso occidente quanto alla prospettiva popolar-borghese dei “nazionalbolscevichi”, che ha sempre visto nell'Ostpolitik e nella potenza russa altrettante minacce ai propri interessi e alla stessa integrità nazionale, oggi è sempre più coinvolta nello spazio economico tedesco e si propone quasi come un “ponte” verso la Russia, con la quale è in corso un processo di riavvicinamento (14).

L'Euro e l'Ume costituiscono oggi un freno economico all'orientamento a Est dell'imperialismo tedesco, che altrimenti sarebbe naturalmente rivolto in quella direzione. L'uscita dalla gabbia comunitaria e dalla moneta unica comporterebbe però dei costi altissimi in termini di competitività per l'export tedesco e per le sue banche, ma soprattutto dei rischi di instabilità globale. La minaccia di una crisi sistemica planetaria generata da un crollo dell'Euro è alla base delle fortissime pressioni americane e cinesi sul governo tedesco perché si decida finalmente a dare stabilità alla situazione con provvedimenti adeguati. Ma la Germania offre poco più che dichiarazioni di fedeltà all'Euro. La situazione di stallo in cui si trova l'Europa è originata dalle forze contrastanti cui è sottoposta la Germania: da un lato l'incalzare della crisi finanziaria richiede un problematico salvataggio dell'Euro che imporrebbe una maggiore integrazione politica cui nessun soggetto nazionale dell'UE tende spontaneamente, dall'altro l'Est Europa offre un possibile rilancio dell'Ostpolitik in chiave geopolitica con direzione Russia e Cina.

E' un orizzonte abbastanza promettente perché la Germania possa accettare di sostenere la drammatica separazione di destini tra il Nordeuropa ricco e il Sud straccione, e i suoi costi economici e politici. Sarebbe uno svolto di quelli davvero storici che aprono a ogni soluzione, non esclusa quella militare, qualora il nuovo indirizzo tedesco creasse un cortocircuito con i tradizionali avversari atlantici (con o senza la Francia) o le tensioni sociali trovassero sfogo in rigurgiti nazionalisti e separatisti in un teatro continentale che insiste sulle identità nazionali, in barba a mezzo secolo di retorica comunitaria.

 

Prospettive: Se non salta, salterà

La crisi del debito sovrano in Europa conferma la subordinazione dei governi agli interessi del capitale finanziario internazionale che a sua volta si articola su base nazionale attorno ai poli imperialisti dominanti. Questi, in ambito europeo, s’identificano in primo luogo nell'imperialismo tedesco e francese, che attraverso le istituzioni comunitarie affermano i propri interessi in tutta l'area. Il salvataggio della Grecia è in realtà il salvataggio delle banche tedesche e francesi, che i meccanismi di mercato avrebbero condannato a perdite molto più alte. In questo frangente, il sistema comunitario, così come la moneta unica, si è confermato funzionale agli interessi degli imperialismi dominanti nell'area. Quest’aspetto gioca a favore della sua conservazione e fa sì che i legami comunitari in questa fase rappresentino una forma avanzata di dominio del Capitale su scala continentale, che entro certi limiti è in grado di intervenire sulla contraddizione tra carattere internazionale del Capitale e sua dimensione nazionale, di essere addirittura più funzionale alle esigenze capitalistiche della diretta dominazione statale a scala nazionale – una specie di abbozzo di un modello di "governo mondiale" (15).

Ma questo modello funziona finché la crisi non supera una certa soglia, oltre la quale il nazionalismo torna ad essere fattore identitario che si contrappone alle pretese di organismi sovranazionali, identificati come strumenti delle nazioni più forti, o finché il proletariato non alza la testa e riprende con l'azione il suo cammino autonomo.

La crisi acuisce i nazionalismi, ma crea anche le premesse per una ripresa della lotta di classe tanto nei Paesi oggetto di salvataggio quanto nei Paesi "salvatori". La convivenza comunitaria ha infatti dei costi proporzionali al peso economico degli Stati, che ricadono in gran parte proprio sulle spalle dei più forti in forma di maggior carico fiscale e di sacrifici. I costi per la Germania di un salvataggio dei PIGS pare supererebbe i 400 miliardi di Euro, che salirebbero a oltre 500 se ci mettiamo anche l'Italia. Per dare un'idea delle dimensioni, la manovra finanziaria italiana "lacrime e sangue" del 2011 vale 50 miliardi. E' comprensibile che in Germania le resistenze ai salvataggi dei paesi in crisi siano fortissime, tanto nelle mezze classi in crescente difficoltà quanto nella classe operaia già abbondantemente spremuta. I costi dei salvataggi ricadono poi direttamente sul proletariato degli Stati "salvati", in termini di tagli salariali e dei servizi, disoccupazione, ecc. Secondo alcuni calcoli, i costi per la Germania di una spaccatura dell'Ume sarebbero ben superiori (fino a 1200 miliardi) (16): tuttavia, la valutazione dei pro e dei contro dei salvataggi non può limitarsi a un conto economico ma investe le prospettive politiche di un polo imperialista che, nel contesto di crisi globale destinata ad aggravarsi e di un mutamento degli equilibri internazionali tra aree imperialistiche, è obbligato a perseguire una coesione interna ed esterna che non può appartenere ad un consesso di nazioni più o meno vincolate da regole comuni, ma sostanzialmente divise. La crisi stessa approfondisce le divisioni e rinfocola le spinte nazionalistiche e antieuropeiste; ma nello stesso tempo aggrega attorno ai poli imperialisti le aree che per ragioni economiche, geografiche e storiche ne condividono i destini.

Se la dinamica della crisi ha il suo motore nelle contraddizioni esplosive dell'economia capitalistica, queste provocano a loro volta movimenti profondi nei vecchi assetti e i vecchi equilibri. Gli eventi ripropongono la “questione tedesca” come baricentro delle vicende europee, e creano le premesse per una ridefinizione del suo ruolo nel continente, e di riflesso del ruolo di tutti gli altri attori nazionali. La Germania è il centro gravitazionale di un'area integrata che comprende Padania, Paesi Bassi, Belgio, Danimarca, e a Est i paesi della Mitteleuropa. In questo contesto, attraverso i vari passaggi della crisi, la Germania sarà spinta a riprendere il ruolo di potenza continentale, con una propria strategia supportata da un'adeguata forza armata e un orizzonte di alleanze politico militari che la liberino dalla posizione subalterna all'interno dell'Alleanza Atlantica e dai limiti imposti dalla Unione Europea. Per il momento, le iniziative e le dichiarazioni dei suoi politici sono ben lontane dal prefigurare questo approdo: ma esso si intravede già nel forte connotato nazionale che ha assunto l'azione del governo nella gestione della crisi.

Per salvare stabilmente l'Euro, la Germania dovrebbe accettare di legare strutturalmente i propri destini a quelli dei paesi periferici in crisi, e così facendo legherebbe le proprie sorti a quelle della UE, che rappresenta un modello di integrazione subalterno agli USA per vizio di origine. Sotto quest’aspetto, la salvezza dell'Ume entra in contraddizione con le necessità strategiche di un Paese spinto dalla crisi a riproporsi come potenza imperialista a tutti gli effetti – cosa difficile, ma comunque possibile solo oltre il contesto comunitario. Se il governo tedesco, tra le tante opzioni che vengono sollevate e poi decadono, considera anche la riscrittura dei trattati comunitari – prospettiva di lungo periodo che lascia insolute le questioni fondamentali – non lo fa per rafforzare il livello di integrazione comunitaria, ma per rendere più stringenti le condizioni che impongono a ciascuno Stato una politica fiscale restrittiva, cioè per aumentare il potere di condizionamento tedesco sulle politiche nazionali in ambito comunitario. Se questo si realizzasse, l'Europa mediterranea sarebbe sottoposta più ancora di oggi ai diktat economici del duo franco-tedesco, con ripercussioni destabilizzanti sul piano politico e sociale.

L'alternativa è dunque tra una spaccatura dell'Ume che darebbe avvio a una crisi finanziaria globale causata dalle interconnessioni del sistema bancario, e una situazione di instabilità cronica, perché un assetto europeo a dominanza tedesca così congegnato sarebbe minato da forti tensioni nazionali. Così come un "governo mondiale" è impossibile, un "governo internazionale" a scala continentale, in un contesto di nazioni indipendenti, non sarebbe in grado di imporre la volontà della potenza dominante se non attraverso adeguati strumenti di coercizione a carattere politico-militare, che riproporrebbero il classico ruolo di una potenza imperialista nel suo ambito di influenza.

***

La crisi europea è una manifestazione su scala continentale della crisi globale maturata con lo sviluppo delle forze produttive e la finanziarizzazione dell'economia. La presenza di imprese multinazionali, la dislocazione della produzione in ragione delle migliori condizioni di estrazione del plusvalore, la segmentazione dei cicli produttivi su territori diversi, la libertà di movimento e di capitali richiederebbero ormai un governo mondiale in grado di gestire contraddizioni non più risolvibili su scala nazionale. Ma poiché questo governo mondiale è impossibile nel regime capitalistico, che non esiste senza le sue articolazioni nazionali e le sue borghesie, la contraddizione tra la dimensione ormai globale dell'economia capitalistica e il carattere nazionale della sua composizione si manifesta nelle crisi come tendenza alle aggregazioni di area attorno ai maggiori centri imperialisti. Queste aggregazioni, se si basano su legami economici e li consolidano, devono esprimere una adeguata forza politica e militare che non appartiene alla storia e alle prospettive dell'Unione Europea. La Germania è dunque chiamata a superare la sua attuale natura di potenza "geo-economica" (17) che prospera in un quadro di relazioni internazionali in cui l'Europa occidentale si è posta come soggetto fuori dagli scenari di conflitto. Quanto sta accadendo a livello di rapporti economici non potrà non riflettersi anzitutto sui rapporti intra-comunitari. L'asse franco-tedesco, che si è assunto la responsabilità della soluzione della crisi, ha la sua base materiale nell'ormai fortissima integrazione dei rispettivi sistemi industrial-finanziari, ma vede incrinarsi la sua solidità via via che si manifestano divergenze di interessi e di vedute sulle modalità di soluzione della crisi: più incline ad utilizzare le risorse comunitarie la Francia, mentre per la Germania ciascuno deve mettere i conti a posto in casa propria con le proprie risorse. La Francia non può rinunciare a un ruolo autonomo né accettare di subordinarsi alla potenza tedesca: ma poiché l'evoluzione del quadro imperialistico internazionale limita l'azione autonoma di potenze di media grandezza, è improbabile che si riproponga per la terza volta lo scenario di un'Europa che si spacca lungo l'asse del Reno (18). In ogni caso, la crisi impone tanto alla Francia quanto alla Germania la ripresa e lo sviluppo di una prospettiva geo-politica che punti a rafforzarne l'influenza su un'area strategica, in attesa che maturino le condizioni per una chiara scelta di campo negli schieramenti imperialisti.

L'Italia, terza potenza economica continentale, in questa fase non è in grado di esercitare alcuna influenza sulle decisioni che la riguardano, tanto meno di proporsi come polo imperialista con una sua politica autonoma. Il suo governo – come farebbe qualsiasi esecutivo "alternativo" a esso – si affanna ad aderire alle condizioni imposte dai franco-tedeschi, rinunciando a fette di sovranità per rimanere ancorato al Sacro Euro. A questa posizione subalterna corrisponde però un ruolo centrale nella crisi:  da qui passano le contraddizioni principali, qui si giocano le prospettive dell'Ume (e, pur se pare un'enormità dirlo, anche le prospettive mondiali). L'Italia è attraversata dalla linea di frattura che attraversa l'Europa da Nord a Sud. La situazione di instabilità che si prospetta nell'area Euro non potrà che aggravare le tensioni che a scala nazionale riproducono la frattura continentale, a meno che l'attuale governo da avanspettacolo non lasci spazio a un esecutivo di unità nazionale capace di riconsegnare alla capitalistica Italietta un ruolo almeno da comprimario nel consesso degli imperialismi, salvando con ciò anche i sacri confini.

L'"attacco all'Euro" mette a nudo tutte le fragilità, tanto quelle legate alla degenerazione delle classi dirigenti borghesi nazionali quanto quelle dell'assetto comunitario, in un contesto internazionale in cui conta la forza organizzata del Capitale attorno a solidi centri politici. Dalle ceneri dell'attuale moneta europea e delle precarie istituzioni comunitarie, potrebbe uscire una nuova aggregazione continentale assai più solida e coesa, imperniata sulla potenza tedesca: ma in ogni caso questo processo, che ha una sua realtà potenziale, incontrerebbe notevoli resistenze nella stessa Europa e soprattutto negli USA, che ricorreranno a tutti i mezzi per tenere legata al proprio carro la Germania e con essa l'intero continente. Proprio la condanna a un ruolo subordinato nell'arena degli imperialismi favorirebbe le condizioni perché passi ancora una volta per la Germania (e per l'Italia) la faglia critica da cui si scaricherà l'enorme energia potenziale che scorre nel sottosuolo della società capitalistica. L'unificazione del continente sarebbe allora affidata alla sola forza storicamente in grado di farlo: il proletariato rivoluzionario.


Note

1 - A. Cerretelli, “La UE delle banche pigliatutto”, il Sole 24ore, 22.10.2011.

2 - B. Romano, “Ora le banche si scoprono vulnerabili”, Il Sole 24ore, 26.08.2011.

3 - All'epoca della spartizione dell'Europa e della Germania tra i due blocchi, tanto gli USA quanto l'URSS temevano la riunificazione: "Il presidente americano ha detto a quello russo a Camp David che teme la unificazione tedesca. Il primo ha smentito. Ma la verità è questa: che si sono detti, in tono distensivo, di non volere nessuno dei due la Germania unita, e di temerla" (“Vae victis, Germania”, Il programma comunista, n.11/1960). Quando il blocco sovietico entrò in crisi, le preoccupazioni di Francia e Inghilterra per un’imminente riunificazione tedesca erano così forti che i due governi avrebbero preferito l'entrata dei carri armati russi nella DDR che la cadura del muro che la propaganda del "mondo libero" aveva sempre additato a “simbolo di oppressione”.  

4 - "Il costo del lavoro per unità di prodotto nelle regioni dell'Est è progressivamente calato da inizio anni '90 fino a essere inferiore a quello dell'Ovest di quasi il 50%.[...] L'unificazione tedesca è stata un processo costoso per i tedeschi dell'Ovest, ancora incompleto. Ma la convergenza è in atto. Tra il '98 e il 2008 il gap tra Est e Ovest si è ridotto di 8 punti in termini di produttività del lavoro e di 4 punti in termini di Pil pro-capite" (P. Reichlin, “Spazziamo via il ghiaccio della UE con più competitività e un mercato del lavoro più fluido”, il Sole 24 ore, 4.12.2010).

5 - M. De Cecco, “A che serve spezzare le reni alla Grecia”, Affari e finanza, 22.3.201.

6 - Hans Werner Sinn, “Una tragedia greca”, Lavoce.info, 11.8.2011.

7 - "La speculazione che si è scatenata sui mercati finanziari è un attacco alla moneta europea. Motivato, certo, da debolezze specifiche dei singoli paesi e per l’Italia dalla palese inettitudine del Governo, ma al fondo mossa dalla percezione, ben suffragata dai fatti, che la Germania stia mettendo in discussione la stessa sopravvivenza dell’euro. Non si tratta tanto di un contagio tra economie deboli quanto di un virus che viene dal governo dell’economia più forte, dal quale non è immune neppure il mercato dei titoli dello stato francesi nonostante l’asse che lega il suo governo alla Germania nella direzione dell’Europa.
“È un’illusione pensare di venirne fuori con l’uscita dall’Unione monetaria del Paese dal quale sono iniziati i problemi, la Grecia. Sarebbe l
inizio della fine dell’euro, una fine rapida perché, una volta registrata la prima uscita, i mercati si chiederebbero se non sarebbe opportuno che anche altri paesi, a cominciare dall’Italia, escano e si comporterebbero di conseguenza esercitando una pressione speculativa insostenibile. Rivedremmo la storia della crisi dello Sme del 1992." (G.Nardozzi, “Quel virus che arriva dalla Germania", Lavoce.info, 12.8.2011).

8 - Il fondo Esfs era stato appena aumentato a 440 miliardi dopo esser passato per l'approvazione, tutt'altro che agevole e scontata, di tutti i parlamenti dell'area Ume; la Merkel per prima non avrebbe potuto decidere un incremento del fondo senza passare nuovamente per il Bundestag).

9- A.Cerretelli, “Per salvare l'Euro si rischia di distruggere l'Unione”, Il Sole 24ore, 29.10.2011.

10 - M. Cavallitto, “Crisi europea, adesso rischia l'Europa dell'Est”, Il fatto quotidiano, 18.5.2011.

11 - R. Bongiorno, “Offensiva partita dall'Est Europa”, Il Sole 24ore, 24.9.2011.

12- E' un orizzonte che ricorda quello dei "nazionalbolscevichi" tedeschi nell'interguerra e che appartiene ancor oggi a gruppi e movimenti "rivoluzionari" presenti tanto in Russia quanto nell'Europa occidentale che auspicano il superamento del nazionalismo in nome di una unione continentale eurasiatica in funzione antimondialista e antiamericana. La loro visione, apertamente imperialista e fascista, di un blocco continentale da Vladivostok all'Atlantico, alleato con la Cina e potenze intermedie come l'Iran, appare comunque meno campata per aria dell'idea piccolo-borghese di una pacifica integrazione politica dell'Europa sotto la bandiera comunitaria. Se non altro, rispetto a questa, ha una sua grandezza reazionaria. Le mire cinesi sull'Est Europa costituiscono un ulteriore motivo per la Germania per rafforzare i propri sforzi in quella direzione, abbandonando una sterile politica di integrazione dell'area sudoccidentale europea.

13 - I. Rubanov, “La santa alleanza dell'energia”, Limes, 4/2011.

14 - B. Kerski, “Berlino-Varsavia, il secondo motore d'Europa?”, Limes, 4/2011.

15- In un articolo di Asia News del 13.10 2010 si riferiscono i contenuti di un discorso di Bernanke tenuto in quel periodo a Rhode Island e pubblicato sul sito della Fed, completamente ignorato dalla stampa internazionale. Il discorso contiene la previsione di un imminente disastro finanziario globale, della presenza di una crisi sistemica dei paesi di vecchio capitalismo dovuto all'insostenibilità dei bilanci statali. Mancano i soldi per pensioni e sanità, il debito pubblico sta per esplodere, non si possono aumentare le tasse senza penalizzare un'economia già in difficoltà, ecc.. La conclusione cui giunge è che il regime democratico è inadeguato a dare le risposte urgenti che la crisi richiede, in particolare per quanto riguarda l'imposizione fiscale e le manovre economiche necessarie. Bernanke mostra di apprezzare, in proposito, i meccanismi che entro la UE obbligano i singoli stati a rispettare determinati vincoli di bilancio: "A sostegno della sua tesi Bernanke cita molte vicende interne americane degli ultimi decenni. Di particolare interesse è però il riferimento all’Unione Europea (molto simile in questo a una Unione ‘Sovietica’). Già in base ai trattati costitutivi dell’UE vengono introdotte queste ‘regole fiscali’ ai parlamenti ‘nazionali’, ma ora, dice B. con ammirazione, i dirigenti europei stanno lavorando per rendere tali strumenti ancor più coercitivi. Il riferimento è al ‘Nuovo Patto di Stabilità’ europeo deciso (di fatto) nel giugno 2010, pochi mesi fa cioè, in seguito alla crisi greca e degli altri Paesi europei cosiddetti PIGS. Il governatore della Fed è dunque ben informato, sa che ormai in Europa i bilanci degli Stati non sono più in mano né dei parlamenti né dei governi ‘nazionali’, ma di un ‘Soviet’ – che in russo significa consiglio, organo di consiglio – centrale europeo, un organismo non eletto. Questo organo di consiglio determina di fatto le decisioni di spesa pubblica riguardanti più di trecento milioni di europei. Altrettanto dobbiamo fare in America, dice il successore di Greenspan”.  (Maurizio d'Orlando, "Bernanke: Il disastro finanziario globale è imminente”, Asia News, 13.10.2010).

16 - W. Riolfi, “Berlino salvi Atene: la Merkel risparmierà fino a 1.200 miliardi”, Il Sole 24 ore, 20.7.2011.

17 - Hans Kundnani, “La Germania come potenza geoeconomica”, Limes, 4/2011.

18 - Una chiave di lettura degli scenari possibili si può ricavare dall'opposto atteggiamento che Francia e Germania hanno assunto in occasione dell'intervento in Libia. La Francia è stata in prima linea nel promuovere e attuare l'aggressione militare, la Germania si è completamente tenuta fuori dalla vicenda. Lo si può intendere come un sintomo della tendenza tedesca ad orientarsi nella direttrice Est e un segnale della tendenza francese ad una più attiva ed aggressiva politica nella tradizionale la direttrice Sud, verso Mediterraneo, Nordafrica e Africa occidentale. E' pur vero che l'iniziativa militare francese, condotta in sintonia con il Regno Unito, può essere letta come una risposta alla richiesta americane di un maggiore impegno militare degli alleati europei nel teatro mediterraneo, e quindi come un rafforzamento del legame NATO. E' la dimostrazione che i tempi per una definitiva scelta di campo non sono ancora maturi.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°06 - 2011)

 

 

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