DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Il disastro del modo di produzione capitalistico assume contorni sempre più evidenti: va maturando la catastrofe. Indifferenti ai sorrisetti di scherno che ci vengono rivolti al solo accenno di questa parola, noi comunisti siamo da sempre “catastrofisti”: sappiamo cioè che la catastrofe è lo sbocco inevitabile di un modo di produzione come quello capitalistico, che esalta incessantemente le forze produttive, subordinandole al contempo alla legge del profitto e costringendole nella camicia di forza delle forme sociali borghesi. Catastrofe significa dunque che, scossa con violenza da una crisi sistemica di sovrapproduzione di merci e di capitali, l’intera impalcatura su cui si regge la società borghese sta cedendo da ogni parte. Alla catastrofe che si prepara, nessun governo di qualsiasi parte del mondo può por rimedio, se non intensificando ogni giorno di più lo sfruttamento del proletariato attraverso il taglio di salari, pensioni, welfare e l’aumento della “produttività” – cioè aggravando ancor più le sue condizioni  di vita e di lavoro. Intanto, la competizione si farà acutissima, le crisi diventeranno sempre più profonde e ravvicinate, la corsa alle materie prime si farà spietata, i posizionamenti geo-strategici diventeranno vitali per la sopravvivenza di questo o quel capitale nazionale, il nazionalismo esploderà in tutte le sue forme: questa la prospettiva. L’unica via d’uscita che infine, quando le condizioni oggettive lo imporranno, sarà imboccata dai capitali nazionali e internazionali sarà quella della preparazione di una nuova guerra mondiale.

Intanto, la crisi economica erode posizioni di privilegio, convinzioni, sinecure e garanzie. Colpisce duro non solo i proletari, sottoposti a un fuoco incrociato di precarietà, licenziamenti, cassa integrazione senza speranze, impossibilità di trovar lavoro o di far quadrare misere pensioni. Colpisce duro anche quell’enorme massa informe di piccola borghesia (ceto impiegatizio, aristocrazia operaia, fedeli servitori dello Stato, terziario di ogni genere, origine, orientamento e natura) gonfiatasi come un enorme bubbone nei decenni successivi alla fine del secondo massacro mondiale, negli anni gloriosi (!?) del boom economico.

Sono costoro che, negli ultimi mesi, in tutto il mondo, hanno cominciato a vedere davanti a sé, non più un radioso futuro come si erano sempre illusi, ma lo spettro orribile di una condizione economica e sociale sempre più precaria, sempre più instabile – lo spettro della perdita dei privilegi e di uno scivolamento giù giù nell’abisso sociale, lo spettro della proletarizzazione! Riciclando parole d’ordine scalcinate, “inventandosi” scenari più vecchi del capitalismo, piagnucolando ai piedi dello Stato nell’ottusa convinzione che di lì possa arrivare la salvezza, per non dover riconoscere che il nemico è il capitale come modo di produzione e che dunque la guerra dev’essere ben diversa dalle pagliacciate “indignate”: dev’essere una guerra di classe, che opponga classe a classe. Questi piccolo-borghesi hanno riempito di sé le pagine di giornali, media e blog, hanno invocato (nel capitalismo!) pacifismo, democrazia, beni comuni, diritti, e poi tanto Stato, tanta legalità, tanta moralità, tanta autonomia, tanta nazione, e via con tutto il resto: il commercio equo e solidale, la sostenibilità, le banche etiche, il chilometro zero, il controllo sulla finanza, la redistribuzione della ricchezza, il reddito di cittadinanza, gli spazi autogestiti, ecc. ecc. – tutta la fuffa possibile e immaginabile di un “pensiero” tanto debole da essere esausto, catatonico e cadaverico, l’eterna illusione che sia possibile avviarsi lungo la via di un graduale miglioramento o che la “colpa di tutto” sia di questo o quel governo, di questo o quel politico. Da Plaza del Sol a Madrid a Zuccotti Park a New York passando attraverso piazza S. Giovanni a Roma, gli “indignati” – un’Armata Brancaleone di “soggetti”, il variopinto rigurgito di mezze classi sbrindellate, impossibilitate per DNA a partorire un’ideologia che non sia una brutta copia di quella pre- o proto-borghese, un clone mal riuscito della “filosofia della miseria” di Proudhon – si sono illusi di avere qualcosa da dire e di poterlo dire facendosi sentire e vedere.

Questo minestrone contiene però anche altri ingredienti, oltre ai piccolo-borghesi impauriti dalla prospettiva di proletarizzarsi. In esso, nuotano di necessità anche giovani (e meno giovani) ormai davvero proletarizzati e privi di speranze, per qualche tempo illusi, grazie a tutte le bastarde teorizzazioni sulle “nuove professioni”, patetico riciclaggio della “teoria dei bisogni” anni ’70, di poter costituire un ceto a parte, dotato di un’identità separata all’insegna di una precarietà vista come alternativa alle rigide gerarchie borghesi (il “lavoro in proprio”, il “lavoro a distanza”, la precarietà e la marginalità come “libertà dal lavoro” – insomma, la mistica del May Day). La crisi sta spazzando via questi fantasmi che per qualche tempo hanno nascosto alla vista lo scheletro reale: e così i neo-proletarizzati portano in piazza la propria rabbia, scompaginando i belanti progetti pacifisti e buonisti degli “indignati”, buttando all’aria i tavolini intorno ai quali gli “indignati” implorano che si siedano lo Stato (sbirri compresi), i politici consapevoli, gli “uomini di buona volontà” (preti compresi), per elaborare tutti insieme appassionatamente un progetto per… andare avanti: cioè, tenere in piedi lo zombie e infondergli nuova vita. A questi recenti proletarizzati, si aggiungono fasce di proletari veri, da tempo abbandonati a se stessi da sindacati e sindacatini corporativi, che vivono sulla propria pelle non la “minaccia” della crisi, ma i suoi colpi devastanti: lavoratori di fabbriche e fabbrichette, licenziati e disoccupati, cassintegrati e somministrati, a contratto o meno, l’ampio esercito di proletari immigrati nelle galere della logistica e nel “lavoro forzato” dei campi e dei cantieri.

Sono costoro quelli che si sono ribellati a Rosarno e a Nardò. E che, nelle “piazzate” degli “indignati”, finiscono per scontrarsi con le forze dell’ordine. E’ successo a Roma, il 15 ottobre, ed è successo a Oakland, negli Stati Uniti, dove dall’informe magma di “Occupy” hanno cominciato a enuclearsi componenti non riducibili alla semplice indignazione piccolo-borghese. E non parliamo qui di certo dei black blocs o affini, invenzione dei media e delle veline dell’ufficio politico delle questure di mezzo mondo, o manifestazione di un ribellismo individualistico fine a se stesso, privo di ogni prospettiva politica, coincidente in ultima analisi con gli “obiettivi” (?) degli agnellini indignati contro le banche, gli speculatori e la finanza internazionale – chissà, fors’anche un po’ “demo-pluto-giudaica”: e qui, il terreno d’incontro con la cosiddetta “destra sociale” è tutt’altro che lontano (e dovremo tornarci su). Parliamo di strati proletari, certo eterogenei, certo attraversati da tensioni diverse e contraddittorie, ma che cominciano a reagire, in maniera confusa, caotica ed episodica, al massacro cui sono stati condotti. E che si fanno sentire, e sempre più si faranno sentire.

E’ a costoro che noi comunisti ci rivolgiamo. Lasciamo gli “indignati” al loro nevrotico e disperato sgomitare. La piccola-borghesia è pre-destinata: si può illudere per decenni di aver raggiunto il paradiso in terra, ma il suo destino è quello della rovina. A quel punto, toccherà a lei decidere: o con il proletariato o con la borghesia. Lasciamoli dunque al loro destino e non curiamoci più di tanto d’essi, dei loro guru, delle loro mode sfiancate. La nostra classe non ha nulla a che spartire con loro. La nostra classe ha un’altra natura e un altro ruolo da giocare. Ha un’altra prospettiva: quella del rivoluzionamento di questo modo di produzione, dell’abbattimento dello Stato che ne è la difesa armata, dell’instaurazione della propria dittatura di classe, come ponte transitorio verso la società senza classi, verso il socialismo. Ha un'altra pratica, che deve risorgere dal confuso ribellismo, inevitabile nei primi momenti di confusione: la guerra di classe, in piena autonomia da partiti e sindacati borghesi e piccolo-borghesi. E, per questa, ha – deve tornare ad avere – un altro punto di riferimento politico e organizzato: il Partito rivoluzionario.

Indignarsi non basta: è anzi una prospettiva di sconfitta. Tornare a lottare, restituire colpo su colpo, organizzarsi per difendere le condizioni di vita e di lavoro e – sotto la guida di noi comunisti – prepararsi infine per l’attacco decisivo: questo è urgente e irrinunciabile.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°06 - 2011)

 

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