DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Con l’approfondirsi della crisi economica, vengono sempre più in superficie contraddizioni che parevano lontane o sepolte nel profondo: il conflitto fra capitale e lavoro, la polarizzazione di ricchezza e miseria, l’abbrutimento del vivere quotidiano e la precarietà del sopravvivere, i contrasti inter-imperialistici, lo scempio dell’ambiente e l’incapacità assoluta, da parte del capitale, di porvi rimedio dopo averlo causato… Il sistema si fa sempre più instabile, diviene sempre più distruttivo e autodistruttivo. Gli avvenimenti recenti e ancora in corso lungo la sponda sud del Mediterraneo e nella penisola araba sono la dimostrazione più diretta di questa instabilità causata dalla crisi profonda del modo di produzione capitalistico, come lo sono le crescenti tensioni e spinte centrifughe cui assistiamo da tempo all’interno di quella che doveva essere la “fortezza Europa”, preteso terzo incomodo fra Stati Uniti ed Estremo Oriente. La tragedia nucleare in Giappone è poi qualcosa di più di un incidente di percorso, rivelando in pieno – a vent’anni da quella analoga di Chernobyl – il carattere devastatore di un modo di produzione che fin dalle origini butta all’aria ogni cosa, e in modo particolare il rapporto fra specie umana e crosta terrestre: carattere reso ancor più acuto dalla fase imperialista, che ha portato all’ennesima potenza la distruttività del capitalismo.

La classe dominante borghese non è cieca, di fronte a tutto questo: sa bene ciò che sta succedendo, anche se non ha la possibilità di controllarlo e gestirlo ed è destinata a perire insieme all’edificio pericolante che ha costruito. Lo sa per esperienza storica e per memoria di classe, e dunque sa anche come reagire: lo fa attraverso i suoi partiti, le sue organizzazioni militari di combattimento (polizie, eserciti, strutture legali e illegali), i suoi mezzi di comunicazione di massa, i suoi obbedienti servitori in campo politico e sindacale (le cosiddette “opposizioni”, i cosiddetti “difensori dei lavoratori”), la sua retorica rovesciata dai mille e mille altoparlanti di ogni tipo (i diritti, la democrazia, la Costituzione, la non-violenza, la pace sociale, ecc.).

L’ingrediente principale di tutto ciò è l’appello alla Nazione, che negli ultimi tempi si è fatto sempre più insistente, sempre più diffuso. In tutti i paesi, proprio l’affiorare di quelle contraddizioni spinge il capitale, il suo Stato, la sua classe dominante a premere ogni giorno di più sul pedale del nazionalismo. Lo si è visto qualche anno fa in Francia, lo si vede di continuo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, lo si vede in Germania e Russia, lo si vede nell’Italietta che celebra i 150 anni dell’unità nazionale all’insegna di un patriottico abbracciarsi collettivo, con relativo sventolio generale di tricolori. Il nazionalismo – destinato a crescere in beceraggine e volgarità a ogni piè sospinto – è la carta da giocare, per la classe dominante, di fronte ai molti pericoli che si agitano all’orizzonte. E si traduce in mille lingue diverse, è capace d’indossare centinaia di maschere: l’ottuso orgoglio del passato, la rimozione di tutte le profonde fratture di classe e le sanguinarie realtà che esso ha voluto dire, la costruzione di un’immaginetta laica o religiosa in cui fortissimamente credere e davanti alla quale inginocchiarsi… Ma è anche uno sguardo proiettato al futuro: rendere il “nostro “ paese più forte e competitivo, fare uscire la “nostra” economia dalle sabbie mobili della crisi, difendere le “nostre” spiagge e i “nostri” confini dall’invasione di barbari, tutelare la “nostra” lingua e cultura, il “nostro” spazio vitale… Tutte cose già sentite, già praticate, negli anni che portarono alla preparazione dei conflitti mondiali.

Perché è proprio questo che il nazionalismo prepara: quel compattamento necessario, quando le condizioni oggettive siano presenti e lo richiedano a gran voce in nome della “salvezza della patria minacciata”, per passare al momento opportuno allo sforzo bellico: senza resistenze interne, senza intralci alla macchina di guerra, a tutti i livelli – nel campo della produzione, in quello della disciplina di fabbrica, della mobilitazione sociale e militare, dell’ordine e della “cultura”, e via discorrendo. Al momento opportuno, di un esercito avrà bisogno il capitale nazionale per difendere se stesso dagli altri capitali nazionali, impegnati nel medesimo sforzo, e per aggredirli a sua volta – ed “esercito” vuol dire compattezza, affidabilità, disciplina, efficienza a tutti i livelli, al fronte come nelle retrovie, nella guerra delle armi come nella guerra delle parole, degli atti, delle idee, delle passioni.

Al tempo stesso, questa progressiva intensificazione della retorica nazionale, patriottica e sciovinista, si accompagna a una strategia (anch’essa frutto di esperienza storica) di incessante segmentazione, di ossessiva creazione di barriere, confini, territori separati, in cui rinchiudere gli individui, i gruppi, gli strati sociali, le classi. E’ la creazione di un gigantesco Lager nazionale, composto di baraccamenti separati, divisi dalla reciproca diffidenza e intolleranza, costruiti sull’odio e sulla competizione. La Nazione, incensata ed esaltata come un tutto unitario, è poi un contenitore di “centri di identificazione ed espulsione”, reali e metaforici: esattamente come il “migliore dei mondi possibili”, il mondo della libertà e del progresso si rivela ogni giorno di più un universo di isole in rotta di collisione che si guardano in cagnesco e si fanno la forca non appena possibile, allo stesso modo, all’interno di ogni nazione, si moltiplicano le segmentazioni che isolano, frantumano, allontanano, separano. Solo così, infatti, si potrà poi portare il calderone al punto di fusione necessario per lo sforzo bellico. Si divide oggi, per poter meglio fondere domani. Le due strategie non sono opposte: sono dialetticamente convergenti – verso la sacra unione nazionale, attraverso la preventiva frantumazione di ogni sua componente.

I proletari, incalzati e martoriati dalla crisi, non dovranno cadere nell’inganno. Dovranno rifiutare sia il richiamo delle bandiere nazionali con tutto lo schifo razzista e sciovinista che esso comporta, sia il ripiegamento su se stessi, nella difesa di un illusorio “piccolo mondo separato”. Dovranno compattarsi, sì, ma lungo linee di classe: difendendo i propri interessi, che l’approfondirsi della crisi mostrerà inevitabilmente contrari a quelli del padronato, dell’economia nazionale, dello Stato che la sostiene e la difende. Dovranno reagire alla frantumazione delle proprie vite e delle proprie reazioni: superando le barriere che li dividono, collegandosi al di sopra delle categorie artificiali create dal capitale a tutti i livelli (sul posto di lavoro come nella vita quotidiana), frantumando tutti gli ostacoli che si oppongono alla creazione di un vero fronte unico di classe.

Ciò sarà veramente possibile solo se riconosceranno, lungo un cammino che sarà inevitabilmente accidentato e faticoso, la propria guida necessaria, quello stato maggiore che non se ne è stato in disparte a osservare, ma che, nelle lotte della classe sfruttata e nello scontro con la classe dominante, s’è guadagnato la fiducia dei proletari, al di sopra dei confini nazionali e locali. Se riconosceranno e sosterranno, insomma, il partito comunista internazionale.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2011)

 

 

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