DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

La sezione italiana dell’Internazionale Comunista – il Partito Comunista d’Italia – nasce nel gennaio del 1921 sulla scorta del lavoro che, organizzatosi soprattutto intorno al giornale “Il Soviet”, gli elementi più conseguentemente rivoluzionari avevano svolto all’interno del PSI, prima e durante il conflitto imperialista e alla prova del nove della Rivoluzione d’Ottobre e della dittatura “democratica” del proletariato in Russia – lavoro che aveva portato alla definitiva rottura con un PSI ormai del tutto incompatibile (come di tutti i partiti facenti capo alla “Seconda Internazionale”) con qualunque prospettiva rivoluzionaria.

Fin dagli inizi, anche organizzativamente, il PCd’I si definisce come organo rivoluzionario di classe: non ha un segretario, ma è retto da un Comitato Esecutivo espressione di un Comitato Centrale, e la sua organizzazione è basata su sezioni territoriali raggruppate in federazioni. I suoi compiti si riassumono in quelli definiti dal Manifesto del partito comunista (1848): rappresentare in ogni lotta del movimento proletario al tempo stesso l’interesse immediato – per la sopravvivenza – e l’interesse storico – politico e rivoluzionario – della nostra classe, e organizzarla perché diventi classe dominante. In poche parole, essere l’organo che prepara la classe alla rivoluzione, la guida nell’insurrezione contro le istituzioni dello Stato borghese e la dirige nell’esercizio del potere del suo nuovo Stato.

Ma che cos’è quest’interesse storico, che cos’è questa nuova società per la quale dal 1848 ostinatamente e con determinata certezza ci battiamo?

Il comunismo non è un ideale, non è una sublime utopia a cui l’umanità aspiri spinta dal lato “buono” delle sue caratteristiche innate (in eterna lotta con quelle “cattive”). Non è il paradiso terrestre o la Nuova Gerusalemme che gli dei ci hanno ordinato di costruire. Il comunismo è il movimento reale che abbatte lo stato di cose esistente.

Molto concretamente, è l’ordinamento sociale che strapperà al modo di produzione capitalistico quelle forze produttive da questo stesso sviluppate, per liberarle dalle forme borghesi e renderle strumento di emancipazione per tutta l’umanità. Dunque, anche nel 1921 si rendeva necessaria, tra le altre forme di lotta, la precisazione programmatica a proposito della transizione dal capitalismo al socialismo: cioè, spiegare i compiti della dittatura del proletariato, la sua dimensione internazionale e la sua azione immediata – quando e come possibile – e quella che si estende e si accompagna con il suo sviluppo nella trasformazione socialista.

Tra i vari testi che sintetizzano e rendono vitale il comunismo, in questo numero de “Il programma comunista” presentiamo alcuni brani tratti dalla conferenza che uno dei componenti del C.E. del PCd’I – Amadeo Bordiga – tenne a Milano il 2 luglio 1921, dal titolo “Dall’economia capitalistica al comunismo” (la conferenza fu pubblicata lo stesso anno nella “Biblioteca del PCd’I” e ripubblicata nei numeri 9 e 10 del 1979 di questo stesso giornale).

Dopo una brevissima introduzione, il testo si articola in dieci argomentazioni di cui omettiamo le prime quattro (Il capitalismo e la sua natura – L’evoluzione del regime capitalistico – La crisi finale della società borghese – Concetti errati della rivoluzione economica), sia per alleggerire l’esposizione sia perché gli eventi contemporanei – che ritrovate commentati in altre pagine ed in altri numeri di questo nostro giornale di partito – non fanno che riprenderle, confermarle e ribadirle, ripresentando ancor oggi la necessità scientifica del comunismo, nonostante le montagne di ideologia che i “pugilatori a pagamento” del regime borghese sono costretti a pensare e rendere operative contro la nostra classe; sia infine perché le false risposte dei falsi amici della nostra classe rimangono le medesime, anche se oggi i riformisti socialdemocratici e gli impazienti anarcosindacalisti, dopo la fecondazione di stalinisti e post-stalinisti, hanno cambiato nome, generando nuove genie di controrivoluzionari “di sinistra”, la cui critica fa anch’essa parte della nostra azione di partito.

E, per sottolineare ancora una volta la natura rivoluzionaria della riproposizione dei nostri testi ed il nostro scarso (anzi, nullo) amore per l’erudizione e la filologia (i due balsami il cui uso caratterizza ogni necrofilo estimatore di un partito mummificato, da onorare salmodiandone i sacri testi), riproduciamo per prima l’ultima argomentazione dal titolo significativo.

 

L’ASPRA VIA DELLA VITTORIA PROLETARIA

Quindi, o compagni, questo è il cammino della trasformazione economica che ci condurrà sulle vie del comunismo, le quali si presentano necessariamente come sviluppo di secoli, di millenni, di periodi indefiniti, in quanto che il nostro sguardo non può quasi vedere i limiti che si raggiungeranno. Dopo il caos dell’economia capitalista, il ritmo dell’economia comunista, che ci dà non soltanto pane e vestiario, non soltanto questo, ma tutto: le scuole, l’istruzione, l’educazione, l’arte, i sublimi godimenti della fratellanza umana nel lavoro, la gioia della ricerca di nuove vie su cui sublimare lo sforzo dei nuovi fratelli di lotta: tutto un mondo nel quale noi appena eleviamo i nostri sguardi per riposarci delle necessità della dura battaglia in cui viviamo. Ma la tesi fondamentale a cui sono arrivati i teorici nel tracciare questa via luminosa di redenzione del proletariato è [...] come l’apparato politico borghese deve cadere, e si devono costruire sulle sue rovine gli ingranaggi della nuova macchina statale poiché il suo dominio non può pacificamente modificarsi senza urti, senza scosse, così anche avverrà dell’economia. Perché questa convulsione immane che passa per le fasi che abbiamo tracciate deve poter contare su un grande sviluppo capitalistico che abbia potenziate le energie produttive, come al tempo stesso deve poter contare sulle terribili conseguenze della sua crisi; ma deve prevedere altresì, e questo le masse anche devono da noi sapere, perché noi non siamo demagoghi o illusionisti che vogliamo trasportarle nel regno di Bengodi, quest’altra terribile caratteristica della tragedia rivoluzionaria: che si dovrà spezzare evidentemente, come l’apparato statale, anche il meccanismo dell’economia borghese, anche se prima di aver ricostituito quello proletario vi sarà un periodo di crisi economica, di depressione, di miseria, di sacrifici; perché questa è l’unica via che conduce il proletariato sul cammino della sua redenzione. Così come il meccanismo statale borghese non può essere utilizzato com’è, ma deve essere demolito, deve essere demolito anche il meccanismo economico; ne resterà a parte il materiale tecnico, le macchine, gli impianti in una gran parte, perché non tutto sarà distrutto nella convulsione della guerra civile e resteranno altresì l’esperienza tecnica, le nozioni scientifiche; ma tutta la gerarchia della produzione, tutto il meccanismo amministrativo bisognerà spezzarlo senza pietà, anche se per giorni, mesi, anni si dovranno fermare le officine e vedere semideserti i campi. Poiché questa è la parola che l’Internazionale comunista lancia al proletariato: non vi è altra alternativa che questa lotta per la demolizione d’un mondo avversario per trarne in salvo le energie che devono costruire un mondo nuovo, oppure la morte lenta, la morte per soffocazione.

O questa lenta morte dei lavoratori, dei loro fratelli, dei loro figli, che sarebbe la morte dell’umanità o la vita rinnovellata a cui si arriverà attraverso la lotta, attraverso il supremo combattimento!

 

***

 

IL COMPITO ECONOMICO DELLO STATO PROLETARIO

E allora come si presenta il compito che lo stato proletario deve assolvere?

Naturalmente lo stato proletario può immediatamente addivenire alla socializzazione di quelle intraprese che assommano quei caratteri che abbiamo descritti: grande intrapresa in cui vi è specializzazione e divisione del lavoro, concorso di diversi uomini nella manipolazione finale che ci dà il prodotto necessario al consumo.

Quindi è possibile per il regime proletario affrontare subito il problema della socializzazione dell’industria, che non è quello della gestione di ogni industria da parte di quegli operai che vi lavorano, della gestione della industria da parte di tutto il proletariato, di tutta la organizzazine proletaria: e questa rimane organizzazione statale fino a quando avrà compiti militari che rendono necessario il carattere autoritario delle sue funzioni.

Essa stabilirà la socializzazione di determinate branche di industria e realizzerà la gestione di queste branche. Ciò vuol dire che deve avere la possibilità di registrare e controllare e somministrare tutte le materie prime che occorrono a quelle determinate industrie.

Deve avere del pari la possibilità di raccogliere queste materie prime e trasportarle alle diverse aziende e deve a sua volta ritirare i prodotti delle aziende per distribuirli dove essi occorrono ad altre intraprese oppure al diretto consumo. E allora comprendete che, perché sia possibile questa gestione veramente socialista dell’industria, questa reale socializzazione dell’industria, non basta cacciarne con la forza i padroni, non basta inalberare sugli stabilimenti la bandiera rossa: bisogna aver costruito almeno alcuni pezzi del nuovo ingranaggio che deve far affluire a queste industrie la materia prima e far defluire il prodotto.

Solamente da quando questa rete esiste, solamente quando tutta questa rete sia già stata costruita, si potrà dire che quelle determinate industrie sono pronte per essere socializzate. Quindi anche la socializzazione economica dell’industria non può avvenire il giorno dopo l’instaurazione del potere proletario: è un risultato successivo e noi dobbiamo prospettarci anche lo stadio intermedio, che è quello del così detto “controllo operaio”.

 

***

 

IL CONTROLLO OPERAIO

Nell’intervallo rivoluzionario, nella lotta rivoluzionaria che certamente non può essere regolata, avverranno inevitabilmente mille conflitti locali tra gruppi di operai e capitalisti, una quantità di episodi che certamente si possono dichiarare non corrispondenti perfettamente al finale processo rivoluzionario, ma che non si possono né escludere né condannare. E allora in un primo momento lo stato proletario affiderà alle maestranze di ciascuno stabilimento il controllo su quello che fa il loro capitalista, obbligherà il capitalista a pagare un determinato salario, sosterrà la maestranza dell’officina, la quale pur non potendo ancora fare a meno del vecchio sistema di amministrazione economica a costo di arrestare la produzione, vorrà saper controllare, oppure recare la sua contribuzione alla costruzione di quell’esperienza che deve dar luogo al nuovo meccanismo. E allora il controllo operaio sulla produzione si presenta per noi comunisti come una prima fase verso il socialismo, verso la gestione collettiva dell’azienda da parte dello stato proletario. Esso è il primo postulato, per realizzare il quale però è indispensabile che il potere politico sia già passato nelle mani del proletariato. Ed ecco perché i comunisti ogni qual volta vedono che praticamente nell’officina questo problema fin da ora si prospetta come un bisogno per gli operai, specialmente quando sentono dire che l’officina si deve chiudere e si devono fare i licenziamenti perché non vi è più possibilità di collocare i prodotti, quando gli operai sentono questo bisogno istintivo di andare a vedere perché questa macchina della produzione che dà loro la vita non può più funzionare, allora i comunisti devono intervenire col dire che essi potranno guardare la macchina, potranno cominciare a gestirla, prepararsi alla gestione nel supremo interesse collettivo, solamente a costo che sia guadagnata la grande battaglia generale unica politica contro il potere della borghesia, che sia stata realizzata l’organizzazione di dominio del proletariato, la quale faccia sì che la forza armata dello Stato non intervenga più a proteggere gli interessi dei capitalisti, ma ci sia un’organizzazione opposta di forze che faccia rispettare gli interessi delle maestranze.

 

***

 

LA SOCIALIZZAZIONE

E questa tendenza a guardare nell’organizzazione dell’officina noi dobbiamo volgerla nella generale coscienza della classe proletaria che deve pervenire unita a dirigire la complessa macchina politica e sociale, perché solamente quando questa forza sarà stretta nel pugno delle falangi rivoluzionarie allora si potranno cominciare a spezzare gli anelli dello sfruttamento e andare verso l’umana redenzione. Quindi il controllo operaio è per noi una tappa, dopo la conquista del potere politico, verso la gestione sociale, verso la gestione collettiva dell’industria, di queste grandi aziende produttrici, che ci permetterà di fare un gran passo verso il socialismo. Gran passo che sarà il proclamare che ormai è soppresso qualunque diritto al libero commercio dei prodotti industriali, che non si collocano più, non si acquistano per conto dei privati i prodotti dell’industria, ma è la collettività che centralmente ne amministra e ne dirige la circolazione; cosicché uno degli indici esteriori e pratici di questo stadio è il fatto che si sopprimono le tariffe pei trasporti ferroviari delle merci, in quanto che non è più concepibile che merci viaggino per conto di privati e mentre nell’antico regime capitalistico la merce viaggiava e faceva magari 10.000 Km per trovare maggiori profitti, questo oggi non si verifica più. Esiste, infatti, l’occhio centrale dell’amministrazione razionale che cerca di raggiungere il miglior risultato col minimo mezzo, che cerca di raggiungere un più utile rendimento dei trasporti e si realizza quindi uno dei più grandi benefici che derivano all’amministrazione centrale delle energie produttive.

Nello stesso tempo, i servizi pubblici, che già in regime pubblico sono esercitati dallo Stato, perdono il carattere di azienda di speculazione. L’attività generale dell’industria statale del proletariato dedica ad essi parte delle sue risorse economiche, di modo che è possibile rendere questi servizi completamente gratuiti, è possibile sopprimere le tariffe ferriviarie, tramviarie, della posta, l’abbonamento all’elettricità, alla distribuzione dell’acqua, del gas, al telefono ecc.. Tutte le risorse indispensabili alla vita moderna si accentrano a mano a mano che lo stato proletario estende le sue funzioni di disciplinatore e di amministratore di tutte le attività industriali, e ci avviamo così verso il socialismo, in quanto che nello stesso tempo lo stato proletario diventa il depositante in grandissima misura [...] di quei prodotti della terra che sono necessari all’alimentazione, ne diventa distributore prima amcora sotto forma di corresponsione di moneta a coloro che lavorano, poi sotto forma di corresponsione di buoni lavoro, poi con la diretta consegna dei generi attraverso i suoi magazzini; ed esso instaura questo fondamentale principio: il salario in natura. A mano a mano che queste aziende entrano nel meccanismo della socializzazione, lo stato collettivo che diventa colui che dispone di tutti i prodotti diventa anche colui che distribuisce, e non più col vecchio principio del salario in ragione del lavoro, della qualità e della quantità di questo, ma del salario, se non ancora in ragione dei bisogni, almeno in ragione di una equa ripartizione di ciò che è indispensabile per dare a tutti la possibilità di vivere. E quindi tiene conto di tutti coloro che non lavorano non perché non vogliano lavorare o perché appartengono alle antiche classi parassitarie, ma perché sono tutta quella parte della collettività che legittimamente non lavora: le donne che provvedono alla gestazione e all’allevamento dei propri bimbi, gli ammalati, i mentecatti, o coloro anche che per il difficile svolgimento della crisi economica fossero senza lavoro. Quindi subentra questo grande concetto socialista che altera completamente il criterio della retribuzione del lavoro, e questo è reso possibile in seguito alla socializzazione di gran parte dell’attività economica rappresentata dall’attività industriale.

 

***

 

LA RIVOLUZIONE E L’ECONOMIA AGRARIA [1]

Ma, in realtà, la condizione perché possa funzionare questo meccanismo dell’amministrazione comune è l’avere se non introdotto il socialismo nel campo della produzione agricola, per lo meno esservisi grandemente approssimati, attraverso fasi successive, in questo difficile campo che non ci presenta la stessa facilità, la stessa semplicità dell’economia industriale.

Il problema dell’atteggiamento dello stato proletario dinanzi all’economia agricola è un problema fondamentale per la rivoluzione, è stato il problema centrale in Russia, in quanto che la Russia era un paese in cui l’economia non era dominata dal fattore industriale, ma dalla produzione agricola. Il problema agrario avrà un peso notevole anche presso di noi che viviamo in un paese agricolo. E questo è il campo in cui maggiormente sono diffusi gli errori.

Non possiamo addentrarci nella complessa esposizione di questo argomento, ma, procedendo per sommi capi, dobbiamo indicare anzitutto che nel ricercare quelli che sono i compiti della rivoluzione economica di fronte allo stato di fatto della produzione agricola non bisogna perdere di vista quel nostro concetto centrale, che cioè la socializzazione rappresenta la messa a disposizione della collettività di quei mezzi produttivi i quali esistevano sotto forma di grandi unità produttive integrali, organizzate, in cui vi era la specializzazione e la divisione del lavoro.

Laddove ci troviamo di fronte a un’agricoltura così evoluta che abbia grandi tenute in cui l’opera del coltivatore sia specializzata, là possiamo passare secondo gli stessi caratteri dell’esercizio privato alla gestione dello stato proletario; ma dove questo non è – e in gran parte questo è ancora molto lontano dall’essere – lì non possiamo pretendere una socializzazione immediata. Laddove abbiamo grandi latifondi a carattere ancora feudale, affidati alla coltivazione dei piccoli contadini, non possiamo parlare di socializzazione di essi, perché essi non sono vere “grandi aziende”: sono grandi proprietà nel senso giuridico, ma non nel senso tecnico ed economico. In realtà, ci sono tante piccole aziende costituite dalle singole famiglie dei contadini che hanno affittato il loro pezzetto di terra, e che sono sottoposti ad uno sfruttamento unico da parte del latifondista; ma questa unità di sfruttamento non è condizione sufficiente perché si possa parlare di produzione organica collettiva. Quindi in questo caso il primo atto è liberare il lavoratore della terra da questo sfruttamento.

Non siamo ancora al momento in cui dalla disponibilità privata noi passiamo alla disponibilità dei prodotti da parte della collettività; ma noi diciamo: si consenta al contadino di disporre in tutto della sua azienda coi suoi prodotti. Si dice quindi che gli si dà la terra, si dice che lo si rende proprietario di quel pezzo di terra su cui ha sempre lavorato: ma non si tratta di proprietà vera, giuridica, bensì di un’altra forma di proprietà, che presenta l’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, forma che non può essere accompagnata dall’altro criterio dell’accentramento delle attività produttive; perché questa è possibile quando la produzione è frazionata in dieci, in cento, in mille grandi intraorese, ma non è possibile quando ci troviamo di fronte a milioni di campicelli separati che non possono essere amministrati da un organismo centrale. Necessità, quindi, di lasciare questi campicelli a disposizione del singolo contadino, di lasciargli quanto occorre chiedendogli solo di dare una quota parte del prodotto per l’alimentazione della popolazione non agricola.

 

***

 

L’EVOLUZIONE DELLA ECONOMIA AGRARIA

Questo è il grande problema dinanzi al quale si trova oggi la Russia, e non ho nemmeno lontanamente in questa trattazione generale che ho qui adombrata avuta la pretesa di tracciare quello che è il quadro della rivoluzione russa. Ma la Russia si trova appunto dinanzi a questo problema, di inquadrare l’esercizio delle piccole aziende isolate di contadini con l’economia collettiva.

Per la Russia questo problema è gravissimo, perché si tratta di paese prevalentemente agrario, e l’unica risoluzione di questo problema che, come Lenin ha detto in un suo magnifico discorso, non è ancora socialismo, ma è presocialismo, è questa: lo stato dice al contadino: tu non puoi vendere, il commercio dei prodotti agricoli è soppresso, e tutto quello che tu produci al di là del consumo della tua famiglia lo devi dare a me, stato.

Ma per dire questo lo stato proletario deve aver organizzato la produzione industriale su tali basi da poter dire al piccolo contadino: io ti darò tutto quello che ti occorre di prodotti che non escono dalla terra. Per far questo lo stato proletario deve aver riorganizzato l’industria, e per aver riorganizzato l’industria i lavoratori industriali devono poter mangiare, il raccolto deve essere favorevole; per avere il raccolto favorevole occorre che una gran parte di lavoratori non sia con le armi in pugno: nella difesa del nuovo regime dagli assalti della reazione, ecco il terribile problema, ecco la terribile tragedia dinanzi a cui il proletariato russo si trova. Gli opportunisti si avvalgono di queste circostanze per intaccare l’idea fondamentale della rivoluzione: essi dovrebbero sentire tutta la vergogna di questa loro speculazione. Essi dovrebbero arrossire di non saper intendere la grandiosità di questo sforzo che il proletariato russo regge da solo in nome del proletariato di tutto il mondo, che ancora aspetta il momento di brandire le armi per venire in suo aiuto.

Ritornando all’argomento che ci occupa, in un primo tempo dopo la vittoria rivoluzionaria si constaterà che un’economia di piccolo capitalismo agrario vive al fianco dell’industria socializzata. Questo può sembrare un accomodamento, un opportunismo. Non è vero! Questa è la legittima conseguenza d’una reale situazione, così come si inquadra agli occhi di una completa visione critica marxista, del trapasso dell’economia dal regime borghese a quello socialista. Questo trapasso, queste complicazioni che si presentano nel costruire la nuova economia socialista ci confermano la verità della tesi fondamentale, che per cominciare a fare la più piccola delle innovazioni bisogna aver preso tutto quanto il potere politico in una lotta aperta, senza quartiere, contro la borghesia. Queste complicazioni lasciano dunque nella sua integrità la tesi fondamentale dell’Internazionale comunista: la conquista del potere.

Quindi, o compagni, questa forma antecedente alla fase che si avrebbe allorquando lo Stato proletario potesse somministrare al contadino quanto gli occorre in prodotti non agricoli, si risolve in un incrocio tra piccolo capitalismo agrario e socializzazione di grandi aziende, in cui il contadino dei prodotti del suolo una parte ne consuma, un’altra parte la dà allo Stato, un’altra parte può ancora collocarla, venderla sul mercato, può ancora scambiarla o contro prodotti degli altri contadini che producono cose di altro genere o contro gli articoli della piccola produzione che non è ancora irregimentata da parte dello Stato.

Questo è lo stadio in cui si trova oggi il problema in Russia.

Ma non soffermandoci su quanto avviene in Russia, noi vedremo che un passo innanzi consisterà nel dire: la produzione industriale dello Stato proletario si è organizzata a tal punto da dare ai contadini quello di cui hanno bisogno; non vi è più ragione di lasciare a loro disposizione il proprio prodotto; lo Stato reclama per sé tutto quello che il contadino produce al di là del suo consumo. Verrà un momento in cui lo Stato prenderà per sé tutto il prodotto, così come lo Stato prende all’operaio della fabbrica di scarpe socializzata tutto il prodotto e gli fornisce poi scarpe provenienti magari da altra fabbrica per i suoi personali bisogni. Verrà un momento in cui lo Stato accentrerà l’immagazzinazione di tutti i prodotti agricoli. Questo momento verrà senza dubbio, ma non potrà venire finché non sarà stato superato il periodo della piccola azienda. Vi immaginate voi la grande ragioneria amministrativa dello Stato proletario che deve tener conto di milioni di piccole aziende che danno pochi ettolitri di prodotto? Questo è assurdo. Il meccanismo burocratico che si dovrebbe costituire sarebbe tanto ingombrante da compromettere il maggior rendimento che si potrebbe assicurare in confronto dell’economia privata.

Quindi a ciò si addiverà solamente quando la piccola azienda si sarà trasformata in grande azienda, quando tutta l’agricoltura si sarà industrializzata; e questo esige ancora un’ulteriore intnsificazione della produzione industriale; questo esige che l’industria, la scienza, abbiano energie esuberanti di fronte a quello che era il funzionamento ordinario della produzione dei generi manufatti che servono all’umanità e queste energie esuberanti le dedichiamo a rinnovare la tecnica agricola, che non potrà mai avere la sua esplicazione nell’ambito del capitalismo e delle intraprese capitalistiche. Sarà solo lo Stato intraprenditore che porterà i grandi ritrovati dell’ingegneria e della biologia nel campo dell’agricoltura e rinnoverà fondamentalmente il sistema produttivo agricolo che ricorda oggi ancora quello delle stirpi primitive che hanno vissuto sulla superficie della terra.

Quindi, solo in questo stadio ulteriore si imporrà la superiorità della grande azienda agricola sulla piccola azienda; le piccole aziende si coalizzeranno in queste grandi tenute collettive e queste apparterranno allo Stato che disporrà di tutti i prodotti e stabilirà i medesimi rapporti che stabilisce di fronte agli operai dell’industria socializzata. Ecco quindi un altro stadio ancora.

Noi sentiamo qualche volta i riformisti nel nostro paese dire: noi siamo i fautori della grande azienda e non della piccola azienda; la Russia ha sminuzzato l’azienda, ha formato la piccola proprietà. E’ molto comodo dichiararsi fautori della grande azienda: ma per fare la grande azienda ci vogliono i fabbricati, le irrigazioni, le bonifiche, le macchine... altro che le fisime che si possono sciorinare in un qualunque discorso parlamentare!

L’opinione dei nostri riformisti, i quali aggiungono alla loro viltà la loro incommensurabile ignoranza, accompagnata a eccezionale prosopopea, non sposta di un millimetro la risoluzione del problema dell’agricoltura. Essi hanno preso un abbaglio colossale; senza che nemmeno i deputati borghesi, che sono più bestie di loro, se ne accorgessero completamente; essi hanno potuto dire in parlamento che il latifondo russo era una grande azienda al cui posto sarebbe stata messa l’incivile, barbara, piccola azienda che oggi esiste nella Russia dei Soviet e vorrebbero così fraintendere la grandezza di questa rivoluzione che travalica i limiti dello stesso capitalismo, che al fianco delle grandi masse proletarie dell’industrialismo occidentale chiamerà in una fraternità di intenti il proletariato agrario sfruttato estenuato dell’Europa orientale e dell’Asia, che tutti gli oppressi affratella in un grande sforzo di demolizione dello sfruttamento.



[1] Si noti che le ultime due argomentazioni riguardano il problema della socializzazione della produzione agricola e zootecnica in un momento storico nel quale, anche nella capitalisticamente vecchia Europa, il peso di una economia agraria gestita da una maggioranza di “coltivatori diretti” o da proprietari terrieri che suddividevano i loro fondi in microaziende familiari aumentava a dismisura il peso politico del contadiname. Riferita poi alla rivoluzione in Russia, la “questione agraria” si intrecciava con lo sviluppo stesso del potere proletario, che solo con l’esplodere e l’espandersi della rivoluzione nei paesi industrialmente progrediti si sarebbe potuto evolvere da “dittatura democratica degli operai e dei contadini” in vera e propria “dittatura del proletariato”, la sola che possa travolgere l’angustia di ogni  recinto nazionale o dei confini dell’amato “podere” piccolo-borghese. La futura rivoluzione proletaria per la quale noi comunisti lavoriamo troverà in questo settore della vita economica un terreno meno insidioso, per lo meno dal punto di vista della tecnica agrozootecnica e della concentrazione delle aziende, e dunque si potrà procedere più speditamente nella trasformazione socialista dell’organizzazione umana [NdR].


Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2010)

 

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