DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 Nella storia del partito di classe, l’attività teorica è fondamentale: essa dà sostanza, vita e corpo all’“organizzazione” e solo sulla sua base il partito-organizzazione può costituirsi, formarsi e avere un futuro. Si ricordino, come esempi in negativo, le misure di “scioglimento” temporaneo delle “organizzazioni comuniste”, nelle situazioni successive alle sconfitte nelle grandi battaglie rivoluzionarie, proprio per l’impossibilità, in quelle situazioni, di ripristinare la teoria e difenderla da svariate infezioni all’interno delle stesse vecchie strutture organizzative (è il caso della I, della II e della III Internazionale): per via della sconfitta, le vecchie organizzazioni molto spesso diventano la maggiore fonte d’infezione della teoria e quindi ne rendono la difesa un compito ancora più difficile.

 

 

I fenomeni controrivoluzionari dello stalinismo e del maoismo, varianti della socialdemocrazia e del menscevismo, ci hanno poi indicato in che modo è stata infestata e stravolta la teoria marxista, accampando una fittizia continuità formale con il “marxismo”, con il “leninismo”: la cosiddetta “bolscevizzazione” imposta a tutte le sue sezioni dall’Internazionale Comunista ormai in via di degenerazione [1] è stata una vera e propria clava con cui “normalizzare” i partiti, come quello “italiano”, saldamente ancorati nella teoria rivoluzionaria.

Ma, mentre appare oggi relativamente facile individuare i metodi staliniani nelle loro manifestazioni più aperte ed eclatanti [2], più difficile è invece riconoscere e combattere altri atteggiamenti che, provenendo dal mondo borghese, penetrano di soppiatto o per inerzia all’interno dell’organizzazione comunista e diventano difficili se non impossibili da contrastare. Così, è stato abbastanza semplice riconoscere nel “ministerialismo” socialdemocratico (la strategia riformista di partecipazione ai ministeri borghesi) o nei fronti popolari e antifascisti di staliniana memoria le forme di opportunismo e tradimento dei princìpi: ma risulta estremamente complesso individuare, combattere ed etichettare come opportunismo le forme di eclettico attivismo e di metafisico attendismo che possono insinuarsi nelle file dei comunisti.

L’attivismo (o immediatismo) si presenta a prima vista come mezzo per rafforzare il partito, per “vivificarlo”, e non certo per indebolirlo. Ma in cosa consiste il danno? Non tanto nell’attività quantitativamente accresciuta grazie anche al riemergere spontaneo della lotta di classe che richiama all’azione le forze del partito, quanto nel fatto che, con l’esaltazione della pratica, esso si adagia sul movimento spontaneo, non vi insemina la critica comunista e quindi (se non si corre tempestivamente ai ripari) indebolisce e tradisce la teoria e la natura del partito. Esso non produce necessariamente un generale abbandono della “forma partito”; tuttavia, per il danno compiuto, l’organizzazione subisce poi crisi e spaccature, e tutto dovrà riprendere da capo – quasi che i rivoluzionari non fossero figli di Prometeo ma di... Sisifo.

Le manifestazioni degenerative staliniste, soprattutto dopo il 1926, non sono nate dal nulla o di colpo:  sono state il prodotto di atteggiamenti tattici e politici, che all’inizio erano stati difesi dallo stesso Lenin (per esempio, il parlamentarismo rivoluzionario o i fronti unici politici da praticare anche nell’occidente capitalistico e ultrademocratico). Ma, mentre all’inizio si trattava di divergenze puramente tattiche, la controrivoluzione (frutto di basi materiali, e non della cattiveria di singoli) [3] è riuscita poi a percorrere la sua strada devastatrice, inserendosi all’inizio nelle crepe, nei punti deboli dell’azione politica e poi nelle compagini organizzative (anche apparentemente solide), per sfondare infine la teoria.

Anche le analisi e valutazioni teoriche che vedono la situazione più favorevole di quanto non sia in realtà e che per tale motivo concentrano o deviano i successivi sforzi dell’organizzazione verso l’intervento esterno o verso un’accentuazione ultra-organizzativistica della struttura di partito allentandone al contempo il rigore teorico, se non hanno poi riscontro nei fatti reali, si risolvono in divergenze, delusioni e spaccature.

La lezione da trarre, non solo come insegnamento storico generale, ma come fatto che deriva dalla nostra stessa particolare esperienza, è quella, innanzitutto, del rafforzamento del rigore teorico, tale da metterci poi nella condizione migliore per riconoscere la situazione obbiettiva in cui ci troviamo, evitando di prendere cantonate e batoste; e, in secondo luogo, quella della comprensione che, comunque, tale rigore teorico, anche quando l’organizzazione tende, in forza delle sue analisi, a sviluppare una certa influenza, deve ancor più rafforzarsi, perché proprio il suo rigore è l’unica garanzia per il radicarsi effettivo di quella stessa influenza. Tale rigore teorico permette di valutare il polso generale della situazione esterna e di sapersi inserire in essa, assumendo così nei suoi confronti un atteggiamento non più primitivo o dilettantesco, ma sempre più maturo, da partito di “professionisti della rivoluzione”.

Questa capacità non si acquista di colpo o con semplici e sporadici atti di volontà (che darebbero origine soltanto a un’“unione di volenterosi”), ma attraverso un continuo e assiduo lavoro che realmente superi i soliti vecchi errori teorici (che hanno, essi pure, una loro storia, una loro invarianza nel ripresentarsi) e prepari ad affrontare le successive situazioni con una maggiore e migliore “attrezzatura”. Lo scopo è quello di arrivare preparati all’appuntamento della situazione rivoluzionaria con un’organizzazione comunista capace di affrontarla e indirizzarla secondo le proprie finalità – che eviti cioè sia di autoliquidarsi prima di tale appuntamento sia di arrivarci con una struttura organizzativa inconsistente e incapace di crescere e rafforzarsi, nell’evolversi delle situazioni.

Nessuno certamente, nel campo marxista e in particolare nel nostro, ha mai messo in dubbio l’importanza della teoria in generale; e d’altra parte non c’è molto da scegliere: la controrivoluzione ostacola le possibilità reali di un’azione politica rivoluzionaria e lo sviluppo, numericamente consistente, del partito, e dunque la teoria resta il solo campo su cui incardinare un’attività esterna e mettere insieme un minimo di struttura organizzata, in una condizione così sfavorevole alla lotta di classe come quella che ha caratterizzato gli ultimi ottant’anni, tra fascismo, stalinismo e democrazia. Il modo in cui è stato svolto quel lavoro teorico, la sua profondità e la sua qualità, saranno messi alla prova, quando cominceranno ad aprirsi consistenti brecce nel muro compatto della controrivoluzione: si misureranno allora la sua validità, la sua forza e capacità di determinare il giusto atteggiamento da assumere, la sua possibilità di dispiegarsi organizzativamente. Se il lavoro teorico è stato svolto nella maniera migliore, ogni cambiamento nella situazione oggettiva non potrà determinare, all’interno del nucleo di partito organizzato, uno “smarrimento” della bussola, poiché tali cambiamenti rientravano nel quadro di quelli previsti dalla stessa organizzazione.

Si tratta dunque della qualità del lavoro teorico. Quando parliamo di teoria e di azione nel campo marxista, parliamo in effetti di concetti solo apparentemente diversi. Nella sostanza, fra teoria e azione politica non esiste (o almeno non dovrebbe esistere) alcuna differenza o contraddizione. Anche quando parliamo di teoria in astratto, senza alcun diretto riferimento immediato alla realtà esterna, si tratta pur sempre di azione teorica, di arma e di strumento, il cui campo di azione è la conoscenza e l’intervento sul mondo esterno. D’altra parte, poiché il marxismo è un metodo storico oltre che dialettico di spiegazione del mondo, anche nelle lunghe fasi sfavorevoli a ogni azione e politica di classe, esso svolge la propria azione, non in astratto (come pretende l’attendismo: l’attesa messianica, il fatalismo che affida tutto agli eventi oggettivi in sé), ma sempre in riferimento ai modi con i quali nel passato sono stati affrontati i vari problemi e le varie questioni pratiche, e in funzione dell’azione rivoluzionaria nel presente e nel futuro.

I marxisti, dunque, anche quando non hanno possibilità di agire, affrontano le questioni (economica, sindacale, nazionale, organizzativa, ecc) non in modo astrattamente teorico, per così dire ideologico, ma in modo praticamente teorico, con riferimento sia ai fatti storici sia a quelli attuali: il “concreto” non come fenomeno contingente, ma come sintesi di molte determinazioni materiali, al cui centro è la lotta di classe – lotta politica, lotta per il potere. La teoria marxista è insomma la teoria della spiegazione o interpretazione dei fatti storici e attuali e del modo in cui, in rapporto a tale spiegazione, una classe, il proletariato, e il suo partito, la sua organizzazione politica, devono disporsi praticamente per conseguire i loro storici obbiettivi.

Nella discussione al II congresso (1920) della Terza Internazionale, alla tesi favorevole al “parlamentarismo rivoluzionario” sostenuta dallo stesso Lenin, noi della Sinistra comunista non opponemmo considerazioni astratte o morali, ma un bilancio di esperienze negative del parlamentarismo nelle situazioni storiche di vecchio capitalismo [4]. Così pure, alla fondazione del PCd’I a Livorno, nel 1921, facemmo valere il metodo storico del bilancio fallimentare, dinanzi ai grandi avvenimenti (per esempio, la guerra imperialista), di ogni riformismo, gradualismo, minimalismo [5]; e lo stesso accadde per quanto riguarda la valutazione del fascismo nei successivi congressi del PCd’I e dell’Internazionale [6]. Questo lavoro di bilancio, di riesame, di “lezioni da trarre”, non è un lavoro che si possa considerare fatto o esaurito “una volta per tutte”, o che si possa fare “in laboratorio”: è  qualcosa che si sviluppa nel costante lavoro di partito e che può trovare le sue migliori espressioni di chiarezza solo quando è la stessa situazione sociale a mettere sul tappeto, in concreto, quelle stesse questioni, riproponendo la questione centrale del conflitto di classe e del suo storico scioglimento: la presa del potere. Il concetto stesso di “epoca di restaurazione della teoria” non è inteso nel senso di un’epoca in cui a tavolino si è ricostruita la teoria devastata dalla controrivoluzione, da distinguere storicamente dall’“epoca della realizzazione” di quella teoria restaurata. Questa scissione tra teoria e azione è quella che porta all’enucleazione (organizzativa e tattica), all’interno del partito, dell’attivismo e dell’attendismo.

Gli errori di attivismo non si caratterizzano per la pura propensione all’azione esterna o pratica: tale propensione non è criticabile in sé, anzi essa, in se stessa, come istinto entusiastico alla lotta, è un elemento positivo. Il punto è che tale istinto o impulso, se lasciato a se stesso, non regolato, diretto, organizzato dalla teoria, è inevitabilmente “fagocitato” dall’ideologia e dalla prassi del mondo borghese, che si avvalgono di lunga forza ed esperienza. Dunque, non si deve contrastare quella disposizione alla lotta (entusiasmo, fede, passione, generosità), ma si devono combattere quelle carenze teoriche sulle quali essa si forma e si cristallizza.

Non esiste altro modo di combattere l’attivismo, il movimentismo, ecc., se non quello di un aggancio costante, completo, integrale alla teoria marxista: cioè di inquadrarlo nella teoria stessa. Non si oppone all’attivismo un atteggiamento “attendista”, ma il mantenimento della teoria nella sua concretezza storica e attuale. La contrapposizione all’attivismo attraverso un dottrinarismo, un uso della teoria astratto, accademico, letterale, meccanico, moralistico, ecc., è un metodo altrettanto distorto, che solo formalmente si distingue dall’attivismo. Sia l’attivismo impaziente sia l’attendismo accademico, in effetti, sono due facce della stessa medaglia: quella cioè di un uso né dialettico né storico della teoria marxista, di un pessimo utilizzo delle esperienze e delle lezioni della storia della lotta di classe. Entrambi si nutrono infatti, ai propri fini, di metodi d’interpretazione meccanici, metafisici, letterari, se non addirittura moralistici o etici. Per non cadere nella propensione all’attivismo e all’attendismo, che sono solo sintomi, atteggiamenti esteriori, del malessere, si tratta di curare il male alla radice; e la radice, per i marxisti, non è altro che la teoria e la cura consiste nel saperne fare un buon uso secondo il metodo materialistico e dialettico – metodo arduo, difficile da assimilare e praticare, operando con i materiali e le esperienze della storia. Il buon uso del materialismo dialettico presuppone uno sforzo di analisi e di sintesi da effettuare con metodo scientifico, mentre gli altri metodi sono quelli più comuni, a portata di mano, facili da maneggiare, proprio perché offerti a piene mani e più a buon mercato dal mondo borghese e piccolo-borghese. L’“azione corretta” è quella che è determinata dal buon uso della teoria: è essa che, in base a una valutazione di fattori storici e immediati, può indicarci il “che fare” continuo: e questo può essere, a seconda delle situazioni, la sola interpretazione teorica dei fatti come avviene nelle fasi sfavorevoli, oppure la decisione di intraprendere azioni parziali o, in collegamento con la massima tensione sociale, il deciso avviarsi verso il conseguimento degli obbiettivi politici finali, l’insurrezione e la presa del potere.

E’ dunque inevitabile che gli errori dell’attivismo e dell’attendismo si riflettano anche sull’organizzazione. Il primo finisce per  proporre un militantismo di facciata, costituito da sbandieratori, venditori di gadget, distributori di giornali porta a porta e raccoglitori d’offerte; il secondo si costruisce un “corpo di filosofi filosofanti”, studiosi di icone, internauti e scrutatori di siti inchiodati al web...

Per noi, non si tratterà mai di rimandare alle situazioni rivoluzionarie o addirittura insurrezionali la formazione di una consistente struttura centralizzata di partito; né si tratterà mai (cosa forse ancor peggiore) di trasformare una formazione organizzata in un oggetto amorfo che lotta “per il comunismo” al servizio del “movimento”, o di proporsi come “stimolatori della lotta” o della “coscienza di classe”. Si tratta invece di evitare che una struttura organizzativa, in una situazione ancora sfavorevole, possa prendere il sopravvento sul contenuto rivoluzionario, mettendo in secondo piano il lavoro teorico, che nella fase attuale si presenta come particolarmente importante, difficile e decisivo.

La questione organizzativa, da noi più volte trattata, evidenzia la necessità di una sempre migliore definizione della teoria: anzi, è essa stessa una compiuta espressione della dottrina rivoluzionaria. In quanto marxisti rivoluzionari, noi siamo sostenitori della massima centralizzazione e compattezza organizzativa, secondo i criteri sempre perseguiti dalla Sinistra comunista: modalità non metafisiche o volontaristiche, relative allo sviluppo delle situazioni oggettive e soggettive del partito rivoluzionario, piccolo o grande che sia.

Nella vita del partito rivoluzionario, nella sua dialettica continuità fra passato e presente, fra teoria e prassi, fra principi, programma, tattica e organizzazione, non esiste dunque la fase della “ricostruzione teorica” separata da quella dell’“intervento attivo”: l’una e l’altra sono strettamente intrecciate insieme, l’una non può mai escludere l’altra. La lotta contro attivismo e attendismo è dunque una costante nel partito rivoluzionario, per impedire che gli effetti deleteri di entrambe le infezioni possano danneggiarlo, impedendogli di svolgere il suo ruolo centrale: preparare, organizzare e dirigere la presa del potere e gestire la dittatura proletaria, necessaria per proiettarsi verso la società senza classi.



[1] Con “bolscevizzazione” s’intendeva, a partire da metà degli anni ’20, il processo di riorganizzazione dei partiti comunisti su base non più territoriale, come era sempre stato nella tradizione rivoluzionaria, ma di azienda, fabbrica e officina, con il risultato di rinchiudere i proletari e i militanti di partito entro i confini ristretti del luogo di lavoro. Si trattò del punto di arrivo di un progressivo scivolamento tattico, iniziato già nei primi anni ’20 con le indicazioni relative al “fronte unico politico” e al “governo operaio” e presto riflessosi sul piano teorico e di principio. Un bilancio politico di questo processo, fieramente osteggiato dalla Sinistra comunista ormai non più alla direzione del PCd’I, si può leggere nelle nostre “Tesi di Lione” (1926), ora in In difesa della continuità del programma comunista, Edizioni Il programma comunista, 1970, 1989.

[2] Lo stalinismo stesso non è stato altro che un camuffamento in abiti vagamente marxisti di prassi e metodi da sempre appartenenti al mondo borghese, che proprio in forza di queste sembianze marxiste si proponevano con valore “rivoluzionario”. Al riguardo, rimandiamo al nostro lungo studio sullo stalinismo, comparso sui nn. 5-6/2008 e 1-2-3-4-5/2009 di questo stesso giornale.

[3] Cfr. idem. Cfr. anche il nostro lungo studio Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (1955-57), Edizioni Il programma comunista, 1976.

[4] Cfr. la nostra Storia della sinistra comunista, Vol. II: 1919-1920, Edizioni Il programma comunista, 1972, che ripropone l’ampio dibattito sul tema e riporta le tesi contrapposte.

[5] Cfr. la nostra Storia della sinistra comunista, Vol. III: 1920-1921, Edizioni Il programma comunista, 1986.

[6] Cfr. la nostra Storia della sinistra comunista, Vol. IV: Dal luglio 1921 al maggio 1922, Edizioni Il programma comunista, 1997. Cfr. anche i due “Rapporti sul fascismo” da noi tenuti al IV e al V Congresso della III Internazionale, e pubblicati rispettivamente su “La Correspondence Internationale” del 22 dicembre 1922 e nel “Protokoll V Kongress der Kommunistichen Internationale” (1924).

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2010)

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