DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Atene, 10 febbraio 2010

“E’ una guerra contro i lavoratori e noi risponderemo con la guerra”:è stato questo uno degli slogan lanciati nel corso delle manifestazioni indette all’annuncio del diktat contro il proletariato ellenico lanciato dalla borghesia centroeuropea, riunita (e, in questa situazione, solidamente coesa) a Bruxelles. Uno slogan che lasciava intendere che la lotta continuerà a oltranza fino a quando non saranno revocate le misure di austerità annunciate dal governo contro i lavoratori. Uno slogan purtroppo sommerso (e non potrebbe essere altrimenti) dall’illusione che l’attuale crisi economica mondiale sia solo un evento transitorio, da cui si uscirà “in un modo o nell’altro”: un normale turbine di vento che viene dall’estero e che la buona volontà e il ritorno provvidenziale dei socialisti al governo, mantenendo le promesse preelettorali, ricacceranno nel suo contenitore.

Le condizioni draconiane (9,8 miliardi di euro) imposte ai proletari greci non son da poco: “Taglio e congelamento dei salari del settore pubblico, blocco delle assunzioni, riforma fiscale e lotta all’evasione, riforme di struttura per migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione, revisione del sistema delle pensioni e sanitario, miglioramento del funzionamento del mercato del lavoro e dei meccanismi di contrattazione collettiva” (da Il Sole, 24 ore del 4 febbraio).

 

 

 

Nel bel mezzo della bufera e come alla fine di un conflitto in cui si è stati sconfitti, la borghesia greca, tramite il suo comitato di affari politico ed economico, delega dunque tutta la propria autonomia di classe (il potere di sfruttare il proletariato) alla forza riunita di un’entità di banchieri, alla cui direzione vi è l’intesa, destinata a sfaldarsi, tra Germania e Francia, i due paesi maggiormente coinvolti per l'esposizione delle proprie banche ad Atene, che hanno mantenuto la leadership assoluta durante i cosiddetti “negoziati”.

La transizione verso l’integrazione politica dell’“Europa democratica” (quella “dei popoli”, tanto sognata dalla sinistra) comincia quindi a delinearsi in modo sempre più netto: si chiama per adesso, non Reich tedesco, ma “Stato di... stretta sorveglianza”. Tutte le cancellerie degli stati della cosiddetta Unione avvertono i sismi profondi (la crisi delle Borse europee del 5 febbraio è stato un ennesimo segnale della gravità della situazione) prodotti dalla crisi generale, che non è affatto rientrata e di cui la speculazione è solo un sintomo, e si preparano ad affrontarli con le ultime pezze a disposizione. Il fallimento del diktat sulla Grecia potrebbe significare una conflagrazione a catena suscettibile di coinvolgere non solo attori secondari come Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna (i cosiddetti Piigs: i maiali da macellare...) e tutta la sequela di stati-cuscinetto dell’est europeo e dei Balcani, ma il cuore stesso del continente europeo.

“No, non siamo che all’inizio”, sembrano dire con quello slogan i lavoratori, e la consapevolezza appena abbozzata delle embrionali avanguardie di lotta (che cioè sia in corso una guerra di classe contro i lavoratori) anticipa correttamente gli eventi. I lavoratori, in massima parte del pubblico impiego, il settore più duramente attaccato dai provvedimenti (blocco dei salari, congelamento delle assunzioni, innalzamento dell'età media di pensionamento), hanno aderito a uno sciopero di protesta nazionale di 24 ore (scuole, ospedali, ministeri e uffici pubblici chiusi, blocco anche del traffico aereo), nel corso del quale la polizia antisommossa ha sparato gas lacrimogeni ad Atene, dopo che alcuni camion hanno cercato di rompere un cordone di polizia.

La disoccupazione alle stelle (formalmente al 10,6%: ma è un dato truccato come tutti gli altri) alimenta e alimenterà come benzina sul fuoco i prossimi scioperi. Erano in 7000 le persone che sfilavano per le strade di Atene per manifestare la propria indignazione per le manovre di austerity promosse dal governo socialista al potere (che – vecchia storia – afferma di averle prese “suo malgrado”: per colpa del vecchio governo che ha mascherato la realtà economica...). Con il trascorrere dei mesi, la situazione economica, passata dalle mani della destra a quella del Pasok nell'ottobre 2009, è andata peggiorando con il picco del debito pubblico per l’attacco condotto, a dire del governo, dalla “speculazione”, che starebbe facendo franare anche “l’impalcatura unitaria” europea, indebolendo notevolmente lo stesso collante monetario, l'euro.

Lo sciopero, che segue a numerosi altri che si sono svolti da un anno a questa parte, indetto prima che si venisse a sapere dei tagli, anche se non è stato uno sciopero generale, è stato però capillare e ha coinvolto l’85% dei lavoratori: una dimostrazione forte, a prova di ciò che serpeggia tra le loro file. L’isolamento in cui si trovano i lavoratori greci, per la prassi perseguita da tutte le corporazioni sindacali oggi formalmente esistenti, oltre che per la scarsa reazione degli altri lavoratori europei travolti dalla stessa crisi, l’assenza dunque di un contesto unitario di lotta del proletariato europeo, non aprono certo l’orizzonte. Così, la risposta di “guerra” lanciata attraverso quello slogan, molto vicina alla nostra rivendicazione del “disfattismo economico” sul piano della difesa delle condizioni generali di vita e di lavoro (unica contromisura attualmente possibile rispetto al piano di austerità), non può ancora dominare la scena sociale. Purtroppo, l’uscita dal deserto, da quell’orrenda sottomissione di classe chiamata “pace sociale” che dalla fine del II conflitto mondiale è stata imposta a forza dalla borghesia (grazie anche alla corruzione di ampi strati del proletariato “nazionale” operata da partiti e sindacati opportunisti, e in assenza del Partito di classe internazionale), sarà inevitabilmente difficile, contraddittoria, spesso drammatica: ma, a differenza del passato, riaprirà scenari futuri positivi per la nostra classe.

Il diktat dei banchieri di Bruxelles con la benedizione del governo Papandreou (“serrare i ranghi e stringere la cinghia per il bene del Paese rispettando ‘alla lettera’ le indicazioni europee”) vuol dire attaccare senza tentennamenti e su tutti i fronti la classe operaia (un vero esempio di “decimazione preventiva”), prima che riprenda e si diffonda, con la difesa ad oltranza, la lotta operaia su più vasta scala.

Le organizzazioni sindacali del settore pubblico Adedy e del Pame (Fronte militante di tutti i lavoratori, legato al Kke, Partito comunista greco), che hanno indetto lo sciopero, dichiarano di volersi opporre con la “lotta dura” a questo diktat. La loro azione di controllo, invece, si propone di cavalcare la pur sommessa rabbia che tenta di venire alla luce, per poi procedere a soffocarla: il timore è che la situazione sociale possa diventare infiammabile e la risposta operaia sfuggire di mano. A sua volta, il Pasok spera di riuscire a schierare al più presto contro gli scioperi che si annunciano le classi medie interne e il consenso di cui gode tra i sindacati più filo-governativi, che nel corso degli scioperi di dicembre sono stati additati dai lavoratori combattivi come “sindacati di datori di lavoro e crumiri”: spera quindi di riuscire a tenere ancora in mano la situazione. E’ per questo d’altronde che il partito di destra si è messo volontariamente da parte: la divisione dei ruoli segue la vecchia strada che la borghesia e l’opportunismo socialdemocratico hanno sempre seguito.

Come scrivevamo in un precedente articolo, occorre invece, in questa situazione di movimento, una preparazione strategica e tattica internazionalista e non nazionale; occorrono organismi di difesa economica che abbiano preso le distanze da tutto il fronte opportunista; occorre una definitiva chiusura allo spontaneismo e al suo compagno di strada, il minoritarismo armato; occorre un’organizzazione politica militante e centralizzata. Occorre insomma dirigere la lotta contro tutto il fronte nemico, agitando la parola d’ordine del “fronte unico proletario internazionale”, sotto la guida di un’organizzazione politica di classe.

Nel frattempo, monta la protesta da parte degli agricoltori, che chiedono il pagamento delle sovvenzioni europee con le strade bloccate per quasi tre settimane dai trattori (“non c’è altra trippa per gatti”, gli si risponde). Negli stessi giorni, a Bruxelles, pare che i partner europei della Grecia siano vicini a concordare un piano di salvataggio, un accordo che i funzionari tedeschi hanno tenuto a sottolineare varrà solo “in linea di principio”. Sappiamo per esperienza storica che alla ragione economica, agli interessi immediati, la borghesia antepone sempre la realtà del suo dominio di classe: più che la minaccia dell’instabilità finanziaria della Grecia, essa teme che si levi lo spettro del contagio politico di classe.

 

Atene, 24 febbraio 2010

Nonostante gli insistenti appelli del Pasok alla pacificazione sociale e all’unità del Paese davanti alla grave crisi, lo sciopero di milioni di lavoratori (fermi treni, autobus, banche, scuole, uffici pubblici, ospedali) ha paralizzato soprattutto Atene e Salonicco. A proclamare lo sciopero generale nazionale contro le misure di austerità del governo e il muro opposto da parte degli imprenditori al rinnovo contrattuale stavolta è stato il sindacato del settore privato, la Gsee (Confederazione generale dei lavoratori), che, dopo aver abbandonato una commissione governativa sulla riforma delle pensioni (che prevede l’innalzamento dell'età pensionistica, bene accolta dagli imprenditori), ha dichiarato, mentendo spudoratamente: “I lavoratori del settore privato lotteranno e otterranno aumenti a dispetto dei mercati”. Sebbene motivato da una situazione esplosiva, il sindacato più che filogovernativo e moderato ha potuto inoculare a tonnellate le sue dosi di camomilla ai corpi spaventati di masse operaie confuse, sicché lo sciopero, a parte la manifestazione del Pame, si è svolto secondo il rituale stanco e liturgico del passato: c’è da scommettere, con rituale sventolio di bandierine e gagliardetti.

Non è mancata “l’accorata denuncia” del capo del sindacato Gsee: “Il popolo greco è ben consapevole che la situazione fiscale del Paese è terribile, occorre un’equa distribuzione degli oneri in modo che i lavoratori dipendenti e i pensionati non paghino il prezzo per una crisi che non hanno creato loro” – una vera e propria commedia, frutto dell’abbraccio corporativo fra Stato e sindacato, al quale ci si sottomette per condividere il reperimento delle risorse fiscali e la distribuzione del prezzo da pagare... ovviamente da parte dei lavoratori. “Tassare gli speculatori”, recitava il cartello innalzato da uno dei manifestanti ad Atene; “Le persone e i loro bisogni vengono prima dei mercati e dei profitti”, si leggeva su un altro della Gsee... tutte insegne di una lamentosa rivalsa nei confronti di una bufera concepita non come socialmente determinata, ma puramente “naturale”.  Intanto, il Fronte di lotta sindacale, il Pame, sigla che fa riferimento al Partito “comunista” greco, manifestava separatamente, richiamando altre migliaia di persone.

A parte le finali scaramucce degli anarchici e gli scontri ripetuti con cui un piccolo numero di lavoratori ha sostenuto e difeso le proprie rivendicazioni, attaccati perciò duramente con lacrimogeni e manganelli dalla polizia in assetto di guerra, la manifestazione non ha lasciato che un desolante vuoto. L’appello del premier all’unità, che continua a godere in questo momento del favore popolare, dopo appena 4 mesi dal voto, è stato comunque condiviso dalla stragrande maggioranza dei cittadini (il che è ovvio), contrari a proteste di massa nel pieno della crisi, ma anche dai lavoratori. L’annuncio di dure misure contro la corruzione e l’evasione fiscale e la costituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta per accertare le responsabilità politiche della crisi hanno ottenuto un supplemento di adesioni. Il Partito “comunista” (Kke) ha fatto il verso chiamando il popolo a “una grande rivolta contro le ‘barbare misure’”, che il governo ha preso e potrebbe prendere (dove “barbare” significa “condizioni imposte dall’estero” al popolo sovrano, con tutto il significato nazionalista che ciò comporta).

E proprio dall’Europa e da Washington sono giunti gli esperti della Commissione, della Banca centrale europea (Bce) e del Fondo monetario internazionale (Fmi) per vedere se le misure adottate dal governo, e che sono all’origine del malcontento e dello sciopero, siano state poste in atto, e soprattutto se siano sufficienti.

 

Atene 11 marzo, 2010

Il terzo sciopero giunge dopo la terza tranche di provvedimenti per risanare il debito: 4,8 miliardi aggiuntivi per le casse dello Stato, 2% del Pil – aumento dell’Iva, delle imposte sui carburanti e sui beni di lusso, ma soprattutto nuovi tagli, del 12% alle indennità e del 7% ai sussidi salariali, estensione per tutto il 2010 del congelamento dei salari e delle pensioni, eliminazione “una tantum” del 30% della tredicesima e del 60% della quattordicesima (cfr. Il Sole – 24 ore del 4/3).

La manifestazione è stata indetta dalle due confederazioni sindacali, del settore privato (Gsee) e del settore pubblico (Adedy). Il blocco è totale ad Atene. “La marcia dei 100 mila”, come titola il Manifesto del 12 marzo, “è la più grossa manifestazione che Atene abbia mai visto sotto condizioni così difficili, condizioni che solo nei prossimi mesi e anni faranno sentire i loro effetti distruttivi”. Dietro lo striscione “Non pagheremo noi la crisi”, sfilano gli impiegati a cui sarà sottratto lo stipendio accessorio (che costituisce la gran parte, ma che non viene calcolato nel computo di pensione e liquidazione), i minatori macedoni, i lavoratori dei trasporti pubblici, delle scuole, degli ospedali, degli aeroporti e dei cantieri navali di Skaramanga. Contro un tale blocco di forza, “controllato” dalle due organizzazioni sindacali, nei due chilometri del tragitto era schierato il fronte massiccio della polizia antisommossa, con gas lacrimogeni, scudi e manganelli. Le facoltà universitarie si sono mobilitate e gli anarchici hanno improvvisato scontri con molotov e sassaiole nelle zone del Politecnico e nel quartiere Exarchia – come da copione. I lavoratori, svuotati in anni e anni della capacità di lotta e di un minimo di senso di antagonismo di classe, hanno continuato la loro marcia senza obiettivi, dietro formazioni sindacali parastatali.

“Mai misure economiche così pesanti si sono abbattute sui lavoratori dai tempi della dittatura militare”, dichiara uno dei sindacalisti del Gsee; ma questo non lo dissuade dal sostenere che “il problema è risolvibile con un aumento delle tasse delle grandi società e con il controllo pesante dell’evasione fiscale”. Il portavoce del Syriza, la coalizione della sinistra alternativa (13 deputati in Parlamento), può lanciare così la sua barzelletta: “La rivendicazione della cancellazione del debito pubblico o di parte di esso deve essere la bandiera della sinistra europea”. Da parte sua, il corteo separato del Partito “comunista” greco (21 seggi alla camera) lanciava parole dure nei confronti dei due sindacati, chiamandoli “tirapiedi di Papandreou”. Non ci meraviglieremo certo se, prossimamente, queste “comparse” della Camera, accompagnate da qualche pattuglia dissenziente del Pasok (che già si fa sentire), si offriranno per “salvare il Paese”, quando la situazione di crisi monterà d’intensità.

Migliaia sono stati poi i partecipanti allo sciopero a Salonicco, tradizionale baricentro industriale del Nord della Grecia, dove il 15% di tasso di disoccupazione è salito al 25% (con quello giovanile al 40%), contro il 10,6% nazionale. La situazione è “allarmante ed esplosiva”: i licenziamenti nel tessile, nella manifattura, nel commercio e nelle costruzioni sono massicci. Ancora peggiore la condizione dei migranti turchi e balcanici nel settore delle costruzioni, con una disoccupazione al 70%. Per non parlare della situazione della Macedonia greca e della Tracia, le aree più povere del paese, giunte ormai al collasso...

Anche questo terzo sciopero dunque ha lasciato il campo alla più generale incertezza. La massa in marcia dietro false bandiere, dietro falsi slogan e falsi obiettivi, non ha potuto esprimere la propria rabbia: la delusione prenderà il posto dello spirito di lotta, una cupa rassegnazione dilagherà perché nessun obiettivo è stato raggiunto né tentato. La massa non è l’organizzazione, l’organizzazione non è la consapevolezza: senza consapevolezza delle finalità (anche solo di difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro) non c’è organizzazione, non serve il numero. La dinamica della crisi tuttavia chiederà presto o tardi di soddisfare alcuni bisogni elementari, di aprire la cornucopia delle promesse, delle illusioni. Il Pasok ha già consumato le promesse fatte in campagna elettorale, l’allarme nazionale è già stato inviato alla massa dei proletari, la resa ai banchieri d’Europa è stata consumata, la carta degli aiuti non ha trovato grandi ascolti: le organizzazioni sindacali hanno incanalato gli operai verso la rassegnazione, mentre i fantocci nazionalcomunisti della “sinistra” hanno cominciato ad aizzare i cani del nazionalismo e della “grecità”.

 

Tra kultura greca, risarcimenti di guerra e dinamite.

Le varianti politiche staliniste e radicali della borghesia, il Kke e Syriza (Coalizione della sinistra radicale), vecchie e nuove aree di sinistra affittate al nazionalismo e pronte a dare il proprio sostegno al momento opportuno per garantire, come da copione, “la salvezza del Paese, delle sue imprese, della sua indipendenza, della sua sovranità”, non potevano non intervenire.

Guarda caso, il contenzioso sui danni di guerra prodotti dal nazismo, la rivendicazione delle opere d’arte trafugate dalla Germania e l’inno alla “grande Kultura greca” erano a lì a portata di mano. Così, il Manifesto del 25 febbraio non poteva non sottolineare il tema in questione: “Ma i greci [non, si badi, la borghesia greca che alimenta il nazionalismo! NdR] sono irritati contro Bruxelles e soprattutto contro Berlino. Già da parecchie settimane, politici e media di Atene [non la borghesia greca! NdR] fanno notare l’atteggiamento ostile della Merkel, considerata il’principale ostacolo per un atteggiamento di solidarietà nei confronti della Grecia”.

Con il petto in fuori, uno dei fratelli seminaristi del Syrisa si mette a sbraitare: “Non abbiamo chiesto ai tedeschi un aiuto economico, anzi per il momento stiamo pagando loro un’enorme quantità di soldi per gli armamenti acquistati, ma da parte loro non c’è né rispetto, né solidarietà per i problemi che stiamo attraversando!”. E mentre la rivista Focus, aizzando al nazionalismo, chiama i greci “Mascalzoni dell’euro-famiglia” e pubblica una copertina con la Venere di Milo che manda a ‘fanculo i greci e la loro cultura, l’intero gruppo Syrisa, insieme al partito dell’estrema destra Laos, chiede in un’interrogazione parlamentare “il risarcimento per i danni e gli eccidi che hanno subito il popolo greco da parte dei nazisti, che sterminarono interi paesi”. Aggiunge il Manifesto, tanto per rilanciare, che si tratta di “debiti legalmente riconosciuti” che la Germania non vuole pagare, nonostante la sinistra greca nel passato abbia sollevata la questione. E ancora, in un’intervista alla Bbc, il vicepremier dichiara: “Durante l’occupazione i nazisti si sono portati via il nostro oro depositato nella Banca di Grecia, hanno preso tutti i nostri soldi che non hanno mai restituito”.

Non poteva poi mancare l’eroe della resistenza greca antifascista Manolis Glezos, “comunista” del Kke, approdato al Syriza dopo aver militato nel Pasok (questi vecchi marpioni non si smentiscono mai!), che, in risposta alla copertina di Focus, risponde con una copertina quasi identica della sua rivista, dal titolo che è tutto un programma: “Indipendenza nazionale” (cfr. Il Manifesto del 12 marzo). C’è qui tutto il menù del nazionalismo (di qualunque sfumatura): la Grecia spremuta come un limone, la Grecia nelle grinfie degli speculatori. “Ci vogliono trasformare in un paese-albergo per le vacanze estive”, ”le politiche agricole dell’Europa [che] impediscono lo sviluppo dei nostri campi, favoriscono l’import di automobili, ma frenano lo sfruttamento delle nostre materie prime con cui potremmo produrre l’alluminio in quantità industriale”. E così si continua, accusando l’Europa e il Pasok di prospettare l’uscita della Grecia dall’Unione monetaria e di diffondere il panico sperando che i lavoratori accettino i sacrifici. “Occorre colpire le spese militari, il 4,5% del Pil, il doppio della media europea”. Le dichiarazioni che Glezos fa al Manifesto sono un campione della funzione controrivoluzionaria che svolgono gli stalinisti “democratici” (razza oltremodo gesuitica rispetto agli originali). Poiché i sondaggi parlano di un crollo del Pasok (dal 75% al 51%), il Syriza (un miscuglio di agenti accalappiavoti) per catturare adesioni ha deciso di “puntare sull’autonomia ideologica, politica e organizzativa dei gruppi che compongono la nostra coalizione”.

Seaggiungiamo le dichiarazioni del gruppo terrorista “Volontà del popolo” [1], che in un documento, rivendicando il recente attacco dinamitardo contro l’Ufficio politico del Ministro della protezione del cittadino (il Ministro degli Interni greco), avverte che “colpirà le elites politiche ed economiche, responsabili delle ineguaglianze e delle ingiustizie”, la misura è davvero colma.

***

Le scintille di un vasto incendio si vanno dunque diffondendo, spinte dalla pressione della crisi e dalle lotte operaie.  Le scadenze dei pagamenti si avvicinano; i dottori liberisti e i preti di sinistra si avvicendano attorno al letto del moribondo, scrivendo ricette e salmodiando il de profundis; l’incubo della bancarotta si aggira come un fantasma; “Il paese è in guerra contro una crisi senza precedenti”, afferma preoccupato Papandreou.

Sì, è vero: “E' una guerra contro i lavoratori e a essa occorre rispondere con la guerra di classe prima che sia troppo tardi!

 



[1] In Russia, Narodnaia Volia (Volontà del popolo) era la società segreta populista organizzata nel 1879 per la lotta rivoluzionaria contro l’aristocrazia zarista. Ma da quale pianeta sono cascati costoro?

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2010)

 

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