DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

 

Nel n.5/2007 di questo giornale, scrivevamo: “Facciamo innanzitutto notare come ‘lasciare i soldi in fabbrica’ sia un falso: infatti, tutte le aziende con più di 50 lavoratori verseranno il TFR maturando a un fondo per le infrastrutture statali creato presso l’INPS, in cui lo Stato potrà pescare a piene mani ogni volta che lo riterrà necessario”. Quest’affermazione era frutto del ragionamento economico da noi svolto per spiegare i motivi alla base dello scippo del TFR, sancito proprio quell’anno con l’istituzione e la liberazione dei fondi pensione. Oggi (9/12/2009), a due anni da quelle parole, i sindacati tutti si sgolano per denunciare il presunto “furto” dei fondi pensione da parte del governo. Ora, appunto questa citazione dimostra che tutto questo sgolarsi da parte delle variegate sigle sindacali non è altro che il solito pianto del coccodrillo: l’uso del fondo TFR che si accinge ad utilizzare il governo è “legittimo” fin dal 2007.

Quindi, i sindacati confederali cercano oggi di mascherare, con un isterico vociare, il loro consueto aperto tradimento, giustificato dalla bramosia di mettere mano su una montagna di soldi (ricordiamo che i sindacati concorrono a gestire il sistema dei fondi pensione). Per gli altri, i sindacati di base, si dimostra dopo pochissimi anni come fosse velleitaria e inadeguata la “lotta” al grido di “lasciamo il TFR in fabbrica e sventiamo il suo furto”. Et voilà, il furto è avvenuto!

Toltoci così il sassolino dalla scarpa (e tiratoglielo in fronte), passiamo ad affrontare l’odissea della gestazione del “sindacatone di base”, tentativo che sembra proprio incontrare un po’ di ostacoli. Ma prima, tanto per esser franchi, chiariamo subito: mentre tutte le sigle del sindacalismo di base coinvolte dichiarano la loro autonomia dai partiti, riesumando (alla faccia della loro sbandierata novità e nella migliore delle ipotesi) vecchie posizioni del sindacalismo rivoluzionario italiano di primi ‘900, ibrido casereccio fra sorelismo francese e anarchismo slavo-romagnolo, nella realtà la invocata autonomia non esiste. Attualmente, la maggiore delle  sigle, RdB-CUB, è rappresentata ai suoi massimi livelli dirigenziali da esponenti di una corrente politica (di fatto, un partito) che va sotto il nome di “Politica e Classe”: e che questo corrisponda alla realtà è provato dall’intervento durante l’assise di Rimini (la declassata “assemblea costituente”) di un esponente di tale “movimento” – naturalmente unico intervento di stampo “politico”. Lasciam perdere poi l’SdL, che è emanazione diretta della fu Rifondazione Comunista. Ora, non ci interessa polemizzare qui con i primi (Politica e Classe): ci basta ricordare che questi definiscono “socialismo” (anzi, pomposamente: “socialismo del XXI secolo”!) il regime venezuelano, per svelare l’abisso che ci divide da costoro. Né ci interessa polemizzare con i secondi (Rifondazione), che sono una diretta espressione della borghesia riformista e quindi traditori patentati della nostra classe. Vogliamo invece ricordare con chiarezza a tutti i lavoratori che non solo gli attuali sindacati sono comunque espressione di forze politiche, ma che da sempre i destini del sindacato sono strettamente intrecciati con quelli di forze politiche, ben al di là di quel che si (ci) raccontano: bilancio lucido di 180 anni di storia delle forme di difesa economica della nostra classe. Quando si proclama e si va cercando l’autonomia dai partiti, in realtà si sta esaltando l’autonomia dal partito comunista rivoluzionario, e cercando l’appoggio politico del campo riformista, nella peggior tradizione della controrivoluzione staliniana.

Come sa chi ci legge, la crisi economica in cui ci troviamo è una crisi strutturale, e dura ormai da 35 anni. Il capitale ha potuto rispondere a essa, grazie a un intensificato sfruttamento dei proletari, grazie ai conflitti interimperialisti che preparano un terzo macello mondiale e grazie allo “sviluppo” della Cina e dell’India, forze capitalistiche giovani in grado (per il momento) di ridar fiato all’asfittica economia mondiale. Ciò vuol dire che le attuali e future ricadute economiche e sociali sul proletariato sono e saranno inevitabili, chiunque sia l’attore, Berlusconi o Bersani, piuttosto che... Cicciopasticcio. Ciò vuol dire che non esistono più margini “conflittuali”: al contrario, la posta in gioco sarà quella massima. Come si direbbe in uno spaghetti western, “o la vita o la morte”.

Ma atteniamoci alla cronaca.

Alla kermesse di Rimini, i rappresentanti convenuti hanno deciso di creare alcune commissioni, che si sarebbero dovute occupare di analizzare le diverse aree organizzativo-politiche, per definire la struttura e gli obbiettivi del nuovo sindacato. Già da quella decisione, il processo si è inceppato e ben poco è stato fatto. Anzi, con il tempo, si è persa la fugace influenza sui lavoratori (nell’ottobre del 2008, i lavoratori che hanno partecipato allo sciopero indetto dal sindacalismo di base erano 500.000; un anno esatto dopo, gli stessi si erano ridotti a  50.000 – un decimo), mentre il processo di creazione del “nuovo soggetto sindacale” ha cominciato ad avvitarsi su beghe e personalismi che (a quanto pare!) dovranno sfociare in... aule di tribunale. Per cui, ad esempio, un fondamentale obbiettivo di questi ultimi anni come il “Patto di Base” oggi viene dato per morto, e non solo nei corridoi, dai “pasdaran” dei COBAS.

Detto questo, sappiamo che l’unica commissione che ha trovato il modo di riunirsi è quella sul “Modello-Assetto organizzativo ed economico”. Tale commissione ha prodotto un documento, da cui emergono chiari tre obiettivi: 1) autonomia delle categorie nella negoziazione; 2) autonomia economica delle varie sedi territoriali e /o categoriali; 3) necessità di continuare a preservare il carattere  “nazionale”  del nuovo organismo sindacale, in modo da non perdere nessuna pezza legale che tale carattere assicura. E tanto basta. Tanto basta, per noi, per evidenziare il carattere riformistico, “nazionale”, che tale nuovo organismo sindacale esprime. E’ veramente paradossale constatare che, a fronte di un prospettato processo di unità, ogni elemento di tale unità si sbracci per mantenere le proprie “autonomie”: facile prevedere che con questi presupposti, una volta grattata la vernice del nuovo organismo sindacale, troveremo le stesse beghe e gli stessi campanili che attualmente “agitano” il loro dibattito. Non parliamo poi dell’“autonomia economica”, vero sintomo di disunità! Tutte queste “autonomie” renderanno un possibile nuovo sindacato fragile fin dalla nascita, prigioniero del passato di ogni suo organizzato e in special modo di chi ne occupa i livelli dirigenziali, e incapace di incidere realmente sui processi economici in corso. Solo una potente e centralizzata macchina sindacale può pensare di piegare alle proprie richieste la borghesia e lo stato italiano.

Se poi analizziamo l’ultimo punto, capiamo quanta poca novità, rispetto alla storia del riformismo degli ultimi 150 anni, lor signori hanno saputo produrre: al di là dell’abuso dell’aggettivo “nuovo”. La preoccupazione è quella di unirsi: ma quest’unità non viene percepita come una forza materiale da contrapporre a un’altra, perché ciò viene poi smentito nei fatti dalle richieste di varie autonomie. L’unità si fa solo per essere più “numerosi”, a scapito di ogni altra omogeneità di intenti e di azione: tant’è vero che si tiene a chiarire subito che non se ne parla nemmeno di perdere uno che sia uno dei privilegi che le leggi borghesissime dello stato italiano prevedono in materia di rapporti con i sindacati! Tale miopia (confermata anche, se vogliamo, dall’uso del termine “conflitto” invece di “lotta”: il primo presuppone un arena di confronto democratica e borghese) blocca all’origine ogni possibile slancio proletario diretto a rompere gli angusti confini del mondo capitalistico. In altre parole, una simile preoccupazione ha come diretto e unico concreto risultato, e lo affermiamo senza polemiche ma come freddo dato di fatto, la garanzia per gli anni a seguire dei redditi delle dirigenze sindacali: nient’altro.

Se di lotta si vuole parlare, se si vuol parlare di difesa degli interessi di classe, se si vuole davvero affermare che “noi la crisi non la paghiamo”, se si vuole davvero operare per la risoluzione del contrasto fra capitale ed ambiente, se si vuol parlare davvero di “lotte metropolitane”, insomma se si vuole essere veramente l’organo economico della difesa della classe operaia, allora si deve abbandonare ogni preoccupazione per la legalità: anzi, bisogna da subito denunciare la “legalità” come una legalità di parte, una legalità di classe, la “legalità borghese”, fatta per i borghesi contro i proletari. E, con la denuncia, agire di conseguenza, senza preoccuparsi di alcuna compatibilità, ma preoccupandosi solo della difesa degli interessi proletari. Tale posizione è l’unica che può permettere in teoria (attraverso la sua trasmissione e diffusione) e in pratica (attraverso la liberazione delle lotte operaie dalle pastoie democratiche) di creare consenso e di dare forza a un nuovo soggetto sindacale.

Ci dobbiamo fermare qui, perché altri documenti non sono stati prodotti e altre commissioni non sono state convocate. Ma richiamiamo l’attenzione di tutti (nessuno escluso) su ciò che si sta andando a creare, e su come lo si sta andando a creare.

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2010)

 

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