DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

Solidarietà di classe e internazionalismo

La difesa delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato immigrato fa tutt’uno con la difesa economica e sociale di tutto il proletariato. La solidarietà attiva e militante dei proletari in generale e dei comunisti in particolare nei confronti del proletariato immigrato non è un dovere morale, non è una rivendicazione di ideali democratici ed umanitari. E’ una necessità vitale per tutta la classe proletaria: senza la solidarietà di classe non è possibile superare le divisioni paralizzanti fomentate dalla borghesia, ricostruire l’unità immediata e futura della classe, difendersi efficacemente dal capitale, e dunque non sarà possibile affrontare le questioni poste dalla necessità della preparazione rivoluzionaria. Le masse immigrate sono il tratto d’unione fra il proletariato delle metropoli e le masse proletarie delle regioni e dei paesi periferici, sono una delle chiavi di volta della possibilità futura della rivoluzione comunista. Non è concepibile una lotta di classe che non metta al centro questa unità, sia per superare la divisione operata nelle fabbriche, nelle attività rurali, nei servizi, sia per ricucire la ben più pericolosa e profonda divisione tra proletariato “straniero” immigrato e proletariato autoctono, “indigeno” [1].

La rivoluzione proletaria non può che partire da questa fusione di reparti eterogenei del proletariato orientati verso gli stessi obiettivi di classe. L’internazionalismo ha come base di principio il comunismo, che è l’arma della lotta rivoluzionaria della totalità del proletariato mondiale, non certo di un suo settore (nazionale, regionale, professionale, ecc). I compagni che ci hanno preceduto nella storia hanno dato un’importanza strategica al legame di classe, hanno sempre combattuto la piaga della concorrenza sia economica sia nazionale che i proletari sono costretti a farsi a tutto vantaggio del capitale. Al fenomeno migratorio, il partito del proletariato dà un grande rilievo strategico, per la prossima ripresa della lotta di classe rivoluzionaria.

 

Caratteri del fenomeno migratorio e dell’attacco borghese

Il fenomeno dell’emigrazione non è marginale, estemporaneo, limitato a un arco temporale. Al contrario, esso è il prodotto dalla proletarizzazione crescente, processo intrinseco all’accumulazione allargata del capitale. La creazione di senza-riserve a livello mondiale, di forza-lavoro disponibile, è l’essenza stessa del capitale. Dal 1840 al 1914, ad esempio, 47 milioni di europei abbandonarono il Vecchio Continente per trasferirsi nelle Americhe; è anche a questo flusso di manodopera che si deve lo sviluppo straordinario degli Usa, e di conseguenza il loro sorpasso dell’Inghilterra, la loro partecipazione al primo conflitto mondiale, la loro vittoria nel secondo.

Attualmente, nei paesi europei avanzati, si trovano decine di milioni di proletari provenienti dalle più varie regioni dell’Africa, dell’Est europeo, del Medioriente e dall’Asia. Decine di milioni si vanno spostando ogni giorno dalle più varie regioni meridionali e centrali del continente americano verso gli Usa, e altre in Estremo Oriente. La dinamica dei flussi migratori dipende dallo sviluppo ineguale del capitalismo, dalla polarizzazione crescente fra ricchezza e proletarizzazione – dinamica non lineare, non stazionaria, che presenta accelerazioni e decelerazioni in rapporto alle impennate dello sviluppo o alle crisi economiche. Questi flussi seguono la via dell’urbanizzazione crescente di ogni nazione capitalistica (flussi interni), seguendo le stesse leggi della polarizzazione crescente, e presto o tardi si convertono in flussi di emigrazione esterna. Nei periodi di crisi economica, la pressione dell’immigrazione si accentua in ingresso e nello stesso tempo si fanno forti le pressioni per una regolazione interna rigida, accompagnata da repressioni ed espulsioni forzate. Il carattere della lotta di classe si fa contraddittorio perché, mentre aumentano le azioni di resistenza operaia alla crisi, aumentano anche i fenomeni di intolleranza verso i lavoratori stranieri, alimentati e manipolati dalla borghesia e dall’opportunismo. D’altra parte, la repressione e l’espulsione sono dettate dalla necessità tutta borghese che non si costituisca un fronte di classe, in grado, sotto la spinta della stessa crisi, di cementare insieme le lotte (per i medesimi obiettivi) del proletariato interno e del proletariato immigrato.

La preoccupazione della borghesia è di evitare esplosioni estremamente pericolose nelle grandi metropoli o almeno di contenerle e limitarle alle zone periferiche (delle città e del mondo).

La violenza, che si esprime in persecuzioni quotidiane, intimidazioni, controlli polizieschi su ogni fatto o avvenimento legato alla popolazione immigrata, pur andando contro le stesse leggi economiche capitalistiche (che richiedono manodopera flessibile e a basso costo), è funzionale al controllo politico e militare esercitato contro tutta la nostra classe: una parte del proletariato cade così sotto un regime di “leggi eccezionali”, senza che il proletariato più integrato ne colga la gravità. Dialetticamente, i fenomeni di intolleranza e di xenofobia si accompagnano anche a un crescente e potenziale riconoscimento dei proletari di appartenere alla stessa classe. Nei periodi di prosperità (per esempio, nel secondo dopoguerra), la politica di molti stati europei fu diretta a incoraggiare anche l’“immigrazione clandestina” come mezzo per allentare la pressione crescente dei salari e le lotte sindacali in corso. Il polmone detto da Marx “esercito industriale di riserva” è una necessità per il capitale, sia in periodi di prosperità che di crisi. E’ lo sviluppo crescente dei paesi periferici, è il loro inserimento nel mercato mondiale, è la proletarizzazione in atto nei più sperduti paesi, e non la miseria generica e astratta o quella di epoche passate, ma la miseria prodotta dallo sviluppo capitalistico, ad accelerare il trasferimento delle braccia che non trovano lavoro salariato nei paesi d’origine.

Il capitale spoglia rapidamente masse enormi di uomini e donne (per lo più contadini poveri e medi, piccoli e medi artigiani) dei vecchi mezzi di produzione, della possibilità di vita, del loro stesso carattere nazionale, e le getta sul mercato mondiale (passando fin quanto è possibile attraverso il mercato nazionale). Non c’è relazione stretta fra proletarizzazione e utilizzo immediato e locale della forza-lavoro, poiché la causa del processo di proletarizzazione non è nazionale, ma internazionale: i flussi di manodopera possono essere eccedenti o insufficienti alle necessità del capitale. La dinamica del capitale non conosce limiti nazionali alla propria accumulazione: rimandare i proletari al loro paese è una pia illusione, che si nega da sé ed è quindi reazionaria, e non basterebbe tutta la violenza del mondo borghese per impedire che si compiano il processo di proletarizzazione e il trasferimento di braccia lavorative.

L’illusione che con la violenza si possa riportare indietro la ruota della storia è vecchia quanto l’ideologia borghese. La questione è tanto più vera in quanto tutte le forme “legali e illegali” sono ben vive e vegete alla partenza e all'arrivo: organizzatori locali, traghettatori, caporalato, agenzie di collocamento, imprenditori, esattori, estorsori... Dal punto di vista economico, il capitale considera il proletariato nella sua unità, è indifferente alla nazionalità: ma è la necessità politica di dividere il fronte di classe che impone alla borghesia di isolare l’elemento più debole “regalandogli”... un’identità nazionale.

Deportati dal paese d’origine (attraverso racket statali e privati), accolti in massa e supersfruttati nei periodi di prosperità; gettati sul lastrico o respinti con tutti i mezzi di cui lo stato borghese dispone (navi, polizia, esercito, muri, filo spinato) nei periodi di crisi economica, ma non ancora bellica, gli immigrati non possono essere eliminati, perché entrando in contatto con le forze produttive le vivificano e vi assumono ben presto un forte ruolo sociale ed economico. In dati settori, sono sottoposti a un supersfruttamento che la manodopera nazionale non è più abituata a subire. Solo la voluta ignoranza delle frange piccolo-borghesi “no global” può imputare la causa dell'immigrazione alla cosiddetta “globalizzazione neo-liberista”, dimenticando la storia dello sviluppo storico del capitale.

Per le masse di lavoratori autoctoni, nella realtà dei proletari immigrati appare riflessa come in uno specchio la loro stessa condizione di vita e di lavoro, la loro stessa condizione di dipendenza e di miseria crescente, e ciò può rimettere in discussione l’identità nazionale, la fiducia nello Stato, le convinzioni instillate giorno dopo giorno, di sicurezza e di protezione. In un primo tempo, è inevitabile, questa messa in discussione di certezze produce diffidenza, fastidio, intolleranza verso i lavoratori stranieri; a lungo andare, il contatto fisico nel luoghi di lavoro, nei rapporti e nelle lotte può sgretolare la diffidenza. Per tale motivo (che è istintivamente compreso dalla borghesia), l'intolleranza viene di continuo accesa ad arte. Contro gli immigrati, la borghesia usa tutti i mezzi a sua disposizione, mette in moto le mezze classi, i media, l’aristocrazia operaia, i movimenti razzisti e antirazzisti, il sottoproletariato criminale e miserabile (sia interno che immigrato). Tutti gli apparati, le leggi, le disposizioni amministrative, i centri di isolamento e di detenzione, i controlli polizieschi, gli affidamenti nelle mani delle varie chiese, hanno come scopo la divisione fra proletari.

La politica dello Stato, che oscilla tra assimilazione e intolleranza, è rivolta verso etnie, nazionalità, religiosità, culture diverse, che spesso esprimono comportamenti criminali o di devianza. Questi ultimi si accompagnano spesso a condizioni di abbrutimento umano e di esaltazione della violenza individuale e finiscono per conquistare la scena sociale. Residui di un passato morto e sepolto, rimessi in circolazione sul piano mediatico, quelle distorte identità etniche, religiose, nazionali, nel corso delle lotte di difesa economica, possono portare facilmente alla divisione (e quindi alla sconfitta), confinando lo scontro di classe in una lotta di tipo etnico, culturale, religioso. Le classi dominanti, sostenute dalle classi medie e strumentalizzando il sottoproletariato, hanno tutto l’interesse a spostare il conflitto economico e politico in quella direzione. Le stesse idee di multiculturalità, multietnicità, multireligiosità, agitate da “sinistra”, per la loro dimensione idealistica non superano i limiti reazionari di cultura, di nazionalità, di religiosità: sono ideologie conservatrici della piccola borghesia, una versione aggiornata, “moderna”, della nazione borghese con il suo maledetto interesse generale che tende a conciliare i conflitti sociali in tempo di pace e a favorire l’unione patriottica in tempo di guerra.

Dal punto di vista economico, invece, la presenza temporanea, l’integrazione, l’assimilazione, la naturalizzazione degli immigrati, rispondono alla necessità del capitale di usare forza-lavoro disponibile, a basso prezzo, precaria, flessibile. Pur rispondendo alle esigenze di continuità lavorativa e stabilità, a cui il proletariato immigrato aspira, l’integrazione e l’assimilazione sono normalmente praticabili solo nelle condizioni di sviluppo dell’economia capitalistica: nella situazione di crisi, invece, l’assimilazione diviene controproducente e pericolosa. Nel regime capitalistico, in realtà, l’unica integrazione possibile è quella funzionale alla macchina produttiva: fuori da quella forma tecnica, esistono precarietà, disintegrazione, ghettizzazione, discriminazione. D’altra parte, la naturalizzazione assume un carattere di “premio di fedeltà”, di “ossequio alla classe dominante”, mentre quella acquisita dalle generazioni successive (comunque sempre sottoposta al controllo, all’esame perenne di raggiunta integrazione-civilizzazione), spinge spesso queste ultime verso posizioni arretrate, di “ritorno alle origini”, di rispetto delle tradizioni originarie oppure di ribellismo inconcludente.

L‘epoca del capitalismo progressista e democratico è sepolta sotto le macerie di due guerre mondiali: il riformismo e l’opportunismo, dando priorità e centralità alla legalità, alla tutela istituzionalizzata, ai diritti, si propongono unicamente il controllo e lo spegnimento di potenziali lotte. Dopo aver contribuito a “civilizzare” castrandolo lo spirito di lotta del proletariato autoctono, adesso è il turno dei “selvaggi venuti da fuori”, che “non conoscono le regole”. Le lacrime ipocrite sulle “persecuzioni poliziesche” si accompagnano sempre alla richiesta di un controllo “dentro la legge”; inoltre, la richiesta di adattare i flussi migratori ai bisogni reali nazionali non segue altro che la linea politica di sfruttamento, di discriminazione e divisione del proletariato dalla partenza all’arrivo. Le posizioni di destra e di “sinistra” tendono ormai a rassomigliarsi come gocce d’acqua: l’ideologia della borghesia si dispiega in tutta la sua gamma di varianti al servizio delle necessità dittatoriali del capitale.

La ridefinizione del concetto moderno di nazione (e di cittadinanza borghese) e la ripresa negli anni ‘90 del concetto di identità nazionale sono segnali della crisi irreversibile cui va incontro la società borghese. La richiesta di identità (nazionale, etnica, religiosa) o di appartenenza (“comunitario”, “extracomunitario”) ha lo scopo di “destabilizzare” la presenza degli immigrati, che in forma massiccia sono spinti a varcare i tanti confini nazionali, costringendoli alla precarietà, al lavoro nero, all’illegalità, e da qui all'esclusione sociale e infine all’espulsione. La clandestinità e la criminalità cui viene indotto il proletariato immigrato in tali condizioni sono un alibi della borghesia per il controllo sociale del territorio, per alimentare discriminazioni sociali, per attuare una sistematica e selettiva espulsione dalle fabbriche (per “motivi sindacali”!) di delegati e operai combattivi. L’intolleranza e il razzismo nei confronti degli immigrati non sono specifici atteggiamenti della destra borghese, ma di un vasto fronte che va da destra a “sinistra”: il fronte unico della borghesia. Non sono il prodotto di provincialismo, di corte vedute, ma di un’ampia schiera di posizioni politiche internazionali e modernissime. Sono le reazioni borghesi alle prime avvisaglie di un allargarsi del fronte di classe proletariato, anche nella sua forma spontanea, purtroppo ancora priva del suo partito. Il richiamo all’identità nazionale è il richiamo al nazionalismo, che borghesia e capitale impongono; il richiamo all’ordine solo superficialmente sembra rivolto agli immigrati, ma in realtà esso è rivolto al proletariato tutto: è materia del Ministero degli Interni e, nello stesso tempo, è dichiarazione di guerra al proletariato nazionale e potenzialmente internazionalista.

 

La risposta comunista

La risposta di classe alla questione dell’immigrazione traccia quindi una netta barriera tra l’internazionalismo proletario e la politica collaborazionista e social-sciovinista dell’opportunismo. Tutte le forze politiche e sindacali che preconizzano una politica di controllo dell’emigrazione, che risponda alle “necessità del paese”, sono complici dell’oppressione imperialista del loro stato borghese nei confronti delle masse diseredate: e sono le stesse forze politiche che tradiscono tutti i giorni gli interessi del proletariato interno in nome della pace sociale e della solidarietà nazionale. Le grandi ondate migratorie producono spostamenti massicci di proletari, non nuovi nella storia del capitalismo e legati strettamente al suo stesso carattere, e apportano all’insieme del proletariato, oltre a fattori positivi straordinari, tremendi contrasti. I fattori positivi per il capitale sono la flessibilità, la mobilità da un luogo all’altro, i bassi salari, la sottomissione, la possibilità di espulsione, la vulnerabilità e ricattabilità, la produttività elevata, che a loro volta sono fattori negativi per la condizione generale della classe. I lavoratori dei paesi esportatori di manodopera, operai e contadini poveri senza terra, lavoratori dei servizi e dalle esperienze lavorative più varie, acculturati o meno, per il capitale mondiale sono una grande frazione dell’esercito industriale di riserva. I paesi importatori di manodopera aggiungono al profitto medio una considerevole massa di superprofitti, mentre i paesi esportatori della merce umana hanno in rientro una mole enorme di divise forti. Le politiche borghesi nascondono il supersfruttamento, il lavoro nero, le discriminazioni sociali d’ogni specie. Gli assegni familiari, nelle condizioni di assunzione legale per contratto, versati per le famiglie rimaste nei paesi d’origine, sono 3 o 4 volte inferiori, i salari sono i più bassi in assoluto; nelle condizioni di illegalità, non ci sono né assegni né contributi, ma compensi di fame, per pagarsi per anni il costo del trasporto, orari oltre tra le 10 e le 12 ore. Non solo per l’assenza di una tradizione di lotta dei nuovi arrivati, si capisce perché gli imprenditori abbiano interesse a reclutarli e a provocare la rotazione rapida di questa immigrazione inesauribile.

Ben presto gli immigrati finiscono per assumere una grande importanza per l’economia costituendo una parte massiccia dell’occupazione nell’industria, nei lavori pubblici, nelle costruzioni, nei servizi più miserabili. Non “marginali”, ma autentici proletari senza riserve, privi di quelle garanzie di cui dispone una gran parte del proletariato autoctono, i lavoratori immigrati hanno mostrato in parecchi episodi, nel corso degli anni, che la concorrenza che il capitalismo crea tra i lavoratori può essere attenuata e contrastata. Più vulnerabile certo, ma anche più disposta alla lotta, l’immigrazione porta spesso con sé lo slancio di un proletariato ancora non addomesticato, costituendo un fermento pericoloso per la pace sociale, uno slancio e una passione che saldano il debito di fiducia e di accoglienza del proletariato autoctono.

La difesa delle condizioni di vita e di lavoro degli immigrati e le loro lotte contro l’oppressione delle borghesie vanno inquadrate in un’unione sempre più stretta della classe proletaria e messe sul terreno e con i metodi propri della classe operaia, rifiutando le menzogne e le illusioni della democrazia che tendono a lasciarla legata alle altre classi. Tutte le nuove ideologie che tentano di scindere e frantumare l’unità del proletariato mondiale sono opportuniste: tanto le ideologie dei “no global” che tentano di dare al “soggetto migrante” un'identità politica e sociale distinta da quella del proletariato, quanto le posizioni che caricano questa soggettività di valori culturali, religiosi, sociali indipendenti e “superiori” a quelli di classe. La prospettiva, interclassista e democratica, è quella di tentare di organizzarle in quanto “forze progressiste”, laiche e confessionali, legalmente, a fini elettorali: il potenziale internazionalista si trasforma in multiculturalismo nazionale. La questione essenziale per l’opportunismo è solo e unicamente la “regolarizzazione”, l’“uguaglianza dei diritti”, la “legalizzazione” della presenza: il resto verrà da sé; intanto, che gli immigrati si guardino dalla “lotta sindacale”, si organizzino piuttosto in comitati fuori dal contesto della lotta economica, si facciano rappresentare da legali, istituzioni, partiti, si facciano al massimo pubblicità per le strade con le loro manifestazioni colorate...

La nostra prospettiva è rivolta invece a tutti i proletari, immigrati e non, come pratica della lotta per la sopravvivenza, come esigenza imprescindibile che corrisponde a bisogni immediati e storici. Ciò vuol dire: unione di base, ove sia possibile, dei lavoratori immigrati con quelli autoctoni, prendendo spunto dalle lotte esistenti e dai tentativi embrionali di formare organismi più ampi di solidarietà fra tutti i proletari; tessitura d’organizzazioni autonome aperte a tutti i lavoratori combattivi. Il terreno di lotta può solo essere quello storico della classe operaia: sciopero, solidarietà di classe, autodifesa indipendente della classe (con organizzazioni di mutuo sostegno). La lotta va condotta dentro e fuori i sindacati, dentro e fuori i posti di lavoro, e deve tendere alla costituzione di un vero fronte unito di classe contro il fronte unito di borghesia e opportunismo.

Quindi: unità di classe contro l’atomizzazione, la frammentazione, il decentramento e la polverizzazione produttiva attuale che producono scoramento, rassegnazione, chiusura e rabbia impotente tra gli immigrati; unità di tutto il proletariato contro la divisione sindacale interna all’attività lavorativa, giustificata come differenziazione di mansioni o come differenziazione contrattuale (a tempo indeterminato, determinato, atipico), in modo da rompere il muro di isolamento tra lavoratori; attacco a “piani sociali, piani per il lavoro, piani contro la disoccupazione, piani per lo sviluppo”, che introducano forme di premio o/e di scambio a favore del proletariato nazionale contro quello immigrato; lotta contro la discriminazione, la divisione, lo sciovinismo perbenista, che si annidano tra le masse degli stessi lavoratori nazionali a difesa e conservazione delle condizioni di privilegio acquisite, alimentate dall’aristocrazia operaia, dalle classi medie, dalla borghesia; lotta contro il nazionalismo e la xenofobia di cui sono portatori anche larghi strati della classe operaia nazionale, soprattutto nelle vecchie metropoli protagoniste del passato e presente saccheggio imperialista.

 

Le posizioni di lotta

Riassumiamo ora brevemente le necessarie parole d’ordine di una lotta volta a difendere le condizioni di vita e di lavoro dell’intero proletariato – una lotta che, come le braci sotto la cenere, tornerà a divampare nonostante la cappa di conformismo e repressione. Queste parole d’ordine non dividono il proletariato in due entità diverse (indigeno e immigrato), ma abbracciano nella loro complessità tutte le diverse condizioni in cui esso viene a trovarsi. Esse sono:

 

a) Aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate, e inversamente proporzionali alle condizioni di esistenza dei lavoratori, con rifiuto dei licenziamenti, salario integrale ai disoccupati e ai cassintegrati;

b) Sciopero senza limiti di tempo e spazio, categoria e settore;

c) Fronte unitario di classe: immigrati, occupati, precari, “flessibilizzati”, donne e uomini, giovani e anziani, disoccupati e licenziati.

Accanto a queste parole d’ordine, che investono obiettivi e metodi di una lotta essenzialmente economica, per i lavoratori immigrati, e soprattutto per quelli che vengono da paesi esclusi dai trattati d’integrazione europea, vi sono rivendicazioni politico-sociali più generali, che riguardano i cosiddetti “diritti civili”:

a) Regolarizzazione, rinnovo dei permessi di soggiorno, ricongiungimento familiare senza formalità burocratiche, gratuiti e senza limiti di tempo;

b) Nessuna forma di controllo repressivo, schedature, impronte digitali o genetiche, campi di internamento, espulsioni, ecc.;

c) Ferma opposizione a ogni contingentamento di immigrazione di “stock” di lavoratori per progetti di lavoro specifici, stagionali o a tempo stabilito;

d) Estensione automatica di ogni “diritto” conquistato nel tempo dal proletariato autoctono: dalla sanità alla casa, dalla scuola alla previdenza sociale.

Lo sviluppo e l’articolazione di queste parole d’ordine saranno compito di organismi di lotta aperti a tutti i proletari, e durissima deve essere la lotta contro ogni forma sindacale o associazionistica che si proponga di raggruppare i proletari in base a lingua o nazionalità.

 

 


Note:


1 Allo stesso modo, nell’epoca dell’imperialismo, il partito di classe mondiale fonda la sua base organizzativa su sezioni locali di un unico organismo e non come una sommatoria di partiti “nazionali”.

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2008)

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