DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Alla notizia della bomba del Congresso moscovita, Pietro Nenni ha avuto un grido di giubilo (Avanti! del 26 febbraio). Ha ragione: i «bolscevichi» hanno fatto, dal 1920, un giro di 180° e si sono collocati sulle posizioni storiche dei socialisti gradualisti, parlamentaristi, legalitari, insomma nenniani (il che vuol anche dire patriottici, interventisti, ecc.). Don Pietro ha la virtù d'essere «l'eterno precursore». Senonchè, ha giustamente osservato L'Espresso: «Il Congresso di Mosca dà ragione non soltanto a Nenni, il critico di "Storia di quattro anni", ma anche a Giuseppe Saragat». Poveri innovatori: hanno scelto la fottutissima via dell'ultrariformismo!
Ma, la patente di precursore, Togliatti non la vuole cedere tutta a Nenni: chi ha veramente anticipato la svolta cremliniana è stato lui e, nel suo discorso al Comitato centrale (tenuto sotto il ritratto di Lenin frettolosamente sostituito all'immancabile ritratto di Stalin di due mesi fa), si è compiaciuto del fatto che «al XX Congresso compagni di tutte le parti del mondo venivano a consultarci per comprendere meglio questo fatto italiano che è qualcosa di nuovo  nel movimento operaio e socialista internazionale». Nuovo? Parlamento, via italiana, gradualismo: ma se è, peggiorata, l'antidiluviana musica di Turati e D'Aragona, di Prampolini e di Buozzi! Don Pietro e Don Palmiro tornano felici al lontano 1914: erano ancor più indietro dei riformisti, allora: erano interventisti: sono ancora più indietro oggi...
Entrambi hanno una preoccupazione: che il «processo a Stalin» vada troppo oltre. «Chissà che non tocchi a noi socialisti, a noi che abbiamo sempre sostenuto l'affermazione del socialismo, intervenire a un certo punto in difesa di Stalin, cioè di un uomo che ha un posto preciso nella storia»: parole di Don Pietro, premio Stalin ed emerito lustratore di stivali al maresciallo. E' chiaro che cosa egli teme: che si rivaluti la vecchia guardia  «giustamente vinta dalla storia». Ma ci ha pensato Togliatti: costui che fu sempre il primo a mandare il debito telegramma di fedeltà e congratulazione a Stalin ogni volta che un vecchio compagno era fucilato in omaggio al metodo oggi deprecato delle «accuse infondate», delle «calunnie» e delle «misure non giuste di repressione», chiarisce molto bene quello che nei post-staliniani non piace più al loro «immortale Maestro», il fatto che questi usasse un linguaggio, per forza di cose, per necessità di bottega, ancora legato alla tradizione marxista; che ― in particolare ― continuasse a parlare di dittatura proletaria. «Per esempio, appare evidentemente non giusta, per imposizione errata e per evidente esagerazione, la tesi che in un determinato momento venne sostenuta da Stalin circa lo sviluppo della lotta di classe in un regime socialista dopo lo spodestamento dei capitalisti e l'annientamento delle classi sfruttatrici. Secondo questa tesi, in queste condizioni, si sarebbe dovuto obbligatoriamente assistere a un continuo inasprimento della lotta di classe ad un fatale aumento di nemici dello Stato socialista, sia all'esterno che all'interno di questo». Dunque, niente dittatura dopo la conquista del potere: vai pure a letto tranquillo, don Pietro; lo spettro di Lenin (quello vero, non quello di cartapesta) non verrà più a turbarti dal botteghino oscuro di don Palmiro. Non ha aggiunto, costui, che, diversamente da quanto è avvenuto in Cecoslovacchia, i «comunisti» italiani non pensano affatto di abolire il parlamento dopo la conquista parlamentare del potere? Che vuoi di più?
Emulazione pacifica. Togliatti ai cattolici: «Possibile che i cattolici si lascino sopravanzare in questo campo (della non ingerenza negli affari interni, del rispetto della sovranità nazionale, nella non aggressione, ecc.) dai buddisti, dai musulmani, dai credenti delle altre fedi asiatiche?». Fra poco saranno lanciate, sotto gli auspici di don Palmiro, le Olimpiadi delle religioni mondiali. Intanto Pio XII e Gronchi hanno già vinto in semifinale.
Logica del neoriformismo. I vecchi opportunisti giustificavano il loro gradualismo, legalitarismo e parlamentarismo con la debolezza della classe operaia, con la gracilità della sua «preparazione»,   con la necessità di «educarla». Era una fesseria, ma aveva una parvenza di giustificazione. La teoria attuale, Mosca 1956, è l'inversa: siccome siamo forti, possiamo... andare adagio. I braccianti spediti al creatore a Barletta o a Venosa, gli operai che non respirano più in fabbrica, i lavoratori a ritmo frenetico della Fiat e della Montecatini, gli innumerevoli proletari che in tutto il mondo, dal 1945 in avanti, si scannano sui fronti di battaglia, vi chiedono, o grandi farabutti: «Se siete e se siamo forti, perché non glielo diamo subito, lo scrollone?». La verità è che forti siete, è vero, ma come controrivoluzionari: forti per impedire alla classe operaia di spezzare le catene. E' questo, in poche parole, il senso della «via italiana», della «soluzione nuova ai problemi nuovi». Destino dei rinnegati: scoprono il nuovo, ed è vecchio di un secolo!
Il Programma comunista, n. 6, 17 - 30 marzo 1956
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