DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Economia capitalista e popolazioni

Per il marxismo, le leggi della vita economica non sono sempre le stesse né indifferentemente si applicano al passato e al presente: ogni periodo storico, ogni modo di produzione, ha le proprie leggi. Non appena la vita economica ha superato un periodo determinato dello sviluppo e passa da uno stadio all’altro, comincia a essere retta da altre leggi. Così, il modo di produzione capitalistico ha le proprie leggi riguardanti l’aumento o la diminuzione della popolazione. La massa, che una determinata base di produzione nella forma capitalistica può generare, è variabile: la sovrappopolazione è uno dei suoi caratteri peculiari.

Il marxismo rivoluzionario esamina le leggi della popolazione dal punto di vista dell’accumulazione capitalistica. La popolazione mondiale non sarebbe oggi pensabile senza le macchine (automazione) e la produttività del lavoro umano. Da qui la domanda: “è possibile per il capitalismo regolare la ‘produzione’ di uomini?”. La risposta è negativa: l’anarchia regnante nell’odierna produzione e distribuzione delle merci non permette questa “regolazione”. E’ la legge dell’accumulazione capitalista che sta alla base della pretesa “legge naturale” della popolazione. La popolazione si deve adeguare al capitale (che è un processo), e non viceversa. Storicamente, accade che: a) se diminuisce il tasso d’incremento dell’accumulazione, diminuisce anche il tasso d’incremento della popolazione; b) per quanto la popolazione possa crescere rapidamente, essa non tiene il passo con il progresso dell’industria e della produttività: il ritmo dell’accumulazione capitalista è più grande del ritmo di crescita della popolazione.

La forza lavoro, cioè la forza umana impiegata nella produzione di merci, non è proporzionale alla popolazione. Il segreto di tutta l’accumulazione capitalistica è quello di spremere maggior forza lavoro dalla medesima forza lavoro impiegata, per cui in periodi determinati si crea una sovrapproduzione di merci e di capitali contemporaneamente a una sovrappopolazione, da cui consegue una crisi di sovrapproduzione. Come esistono ritmi diversi nella produzione e accumulazione capitalistica, così esistono ritmi diversi per la popolazione e la sovrappopolazione. La società borghese ha bisogno del proletariato e crea una sovrapproduzione di forza lavoro attiva e nello stesso tempo una popolazione di riserva: ha bisogno insomma di far nascere molti proletari, ma anche di ucciderne molti, di far progredire la popolazione e la produzione fino a quando non subentrano intervalli di distruzione compensatrice.

Economia capitalista e guerra

Per la crescita del capitale, le spese militari sono assolutamente necessarie. Con esse, lo Stato finanzia, insieme alla sicurezza di cui i suoi capitalisti hanno bisogno per garantirsi le fonti di ricchezza estere, l’assoggettamento dei lavoratori sia all’interno sia all’estero, l’uso diretto e immediato delle risorse naturali, la gestione delle fabbriche e il potere del capitalismo nazionale. Per garantire i profitti, lo Stato mette “sotto sequestro” la natura e il lavoro non solo nazionale, ma anche mondiale. Per questo, le spese militari e la potenza distruttiva di un esercito sono davvero lavera forza produttiva del capitalismo, la vera garanzia della continuità del processo produttivo.

Nagasaki, Hiroshima, Dresda, Berlino, Varsavia, sonoluoghi esemplari della potenza distruttiva del capitale: nient’altro! I musei dell’orrore che sono stati costruiti nelle città bombardate, come i musei dell’Olocausto e i monumenti al Milite ignoto, servono da deterrenticontro la rivoluzione proletariae certo non contro la guerra borghese, di cui anzi si esaltano le virtù patriottiche.

Tra spese militari e forza produttiva nazionale esiste una relazione diretta: le spese per le forze armate e per gli armamenti sono tanto maggiori quanto più capitale si è accumulato in una nazione, e di conseguenza quanto più esteso è il raggio d’interessi degli affari e, a maggior ragione, quanto più capitale è già impiegato all’estero. Le spese militari sonoproduttive per il capitalismo, in quanto fonti di immensi profitti, al pari delle spese per le infrastrutture civili e per l’edilizia. Il profitto è realizzato usando la forza-lavoro nei sofisticati armamenti come in ogni altra merce capitalistica. Il fatto che le armi abbiano un valore d’uso distruttivo non cambia assolutamente niente: al contrario, mostra soltanto la natura sociale della ricchezza capitalistica, il suo valore di scambio, che è al centro di tutta l’attività economica nella società. Ad aumentare questa ricchezza servono tanto i carri armati e i bombardieri quanto le macchine per la costruzione di strade, ponti, grattacieli, i proiettili come i giocattoli, le mine antiuomo come i lecca-lecca. In un certo senso, gli armamenti valgono forse anche di più dell’offerta di merci “civili” da vendersi a ognuno: lo Stato, con la sua quasi inesauribile forza d’acquisto, con le sue enormi necessità, la sua pianificazione a lungo termine, la sua disponibilità, può associare generali e ingegneri, imprenditori e fisici, per inventare le future necessità di guerra.

Le spese militari sono anche un solido contributo alla crescita in genere. La creazione di plusvalore tramite lo sfruttamento della classe operaia permette al capitalismo di accrescere la ricchezza della società attraverso la produzione di pura potenza distruttiva, sicchéun bilancio militare fiorente è, per il capitale e il suo Stato, non un danno ma una vera benedizione: le potenti nazioni capitaliste ritengono che sia certamente giustificato contrarre più credito per i loro progetti nel campo dei loro armamenti. Con la stretta cooperazione fra l’industria e le forze armate, i governi promuovono il progresso della tecnologia industriale in ogni settore, dalla scienza dei materiali all’industria farmaceutica e a quella elettronica, e assicurano le migliori risorse tecniche alle imprese nazionali a tutto profitto della capacità concorrenziale. Inoltre, i mezzi di guerra sono sottoposti a una forte “usura morale” (come la chiama Marx), molto più che nell’industria: ovvero, gli armamenti sono rapidamente sorpassati da nuove tecnologie e tuttavia non escono di mercato, perché una folla di acquirenti di tutte le specie si mostra pronta a allargare i propri arsenali.

E ancora: la vocazione dell’industria moderna è la grande produzione, la produzione in massa, l’aumento del valore complessivo di produzione e la diminuzione del valore unitario tramite lo sviluppo della produttività. La produzione di guerra segue tutto l’iter che va dalla scoperta scientifica fino alle sue applicazioni tecniche più ampie e da qui alla realizzazione del plusvalore attraverso il grande circuito delle merci. Le nuove armi si pagano a qualunque prezzo, e la loro produzione è condizione indispensabile per lo sviluppo generalizzato dell’indotto “civile”. Il mercato trova facilmente i suoi acquirenti e, con questi, la riproduzione su grande scala per un profitto superiore alla media è assicurata. I mezzi finanziari in questo settore sono i veicoli più potenti per ingigantire e velocizzare la circolazione del prodotto bellico, e la vendita degli armamenti permette la valorizzazione rapida del capitale investito: ma l’industria bellica deve consumare quelle merci, e i compratori stranieri (gli Stati), avendo seminato tensioni esplosive, sanno come impiegarle. Lo dimostrano le centinaia di guerre più o meno estese che si sono combattute dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi: per numero, potenza di fuoco, qualità tecnica, complessità della gestione militare e massa di capitali, ciascuna di esse ha superato in alcuni casi quella degli eserciti e degli armamenti del primo e del secondo conflitto mondiale.

C’è poi dell’altro. Le armi sono oggi moneta di scambio: sono concepite e prodotte appositamente per scambiarle con prodotti energetici (petrolio, gas, materie prime ferrose e radioattive). I complicati contratti di compensazione nelle trattative in materia di armamenti dimostrano come l’arma sia indissolubilmente compenetrata nell’economia capitalistica. Ma la merce è tale perché possiede un valore d’uso. La corsa agli armamenti è una cambiale che prima o poi scade: non si può prescindere dal valore d’uso della merce. Si ha un bel dire che il valore d’uso di un’arma può essere rappresentato daldeterrentecontro gli avversari e quindi non necessariamente dal suo “consumo”. La guerra capitalistica è distruzione di surplus e ricostruzione; perciò in quel processo l’arma deve essere consumata. E lo è.

Flussi di popolazione in pace e in guerra

La gigantesca macchina capitalista che inghiotte una mole immensa di forza-lavoro nei periodi di prosperità richiama forza lavoro aggiuntiva, sovrappopolazione, che alimenta l’immensa fornace del capitale. Il boom degli immigrati negli Usa nei primi venti anni del secolo XX arrivò a picchi di 1 milione e duecentomila immigrati l’anno. La crescita, dopo essersi quasi annullata nel corso del primo conflitto mondiale, riprende con 700 mila immigrati l’anno tra il 1922 e il ’23. La crisi economica successiva del 1929, fino al II conflitto mondiale, azzera gli arrivi. A questa riduzione, l’incidenza della crisi del 1929 contrappone la crescita della disoccupazione, la precarietà, la miseria e lo spostamento di masse enormi da una costa all’altra del territorio americano, da zone arretrate a zone economicamente più avanzate, da zone rurali a zone industriali, minerarie o ricche di materie prime. La concentrazione urbana è la dinamica propria del modo di produzione capitalistico. Dal 1930 fino al 1940, negli Usa, la disoccupazione per tutto il tempo si mantiene sopra il 12,5% con punte nel ‘32 del 25% e del 18% nel 1939. Il calo successivo repentino, fino al ’44, si giustifica con la necessità di affrontare lo sforzo bellico: il polmone demografico, a questo punto, torna a riempirsi di occupati civili e militari. Il territorio continentale europeo sarà percorso in un verso da milioni di soldati e nel verso opposto da un via vai di morti, feriti e prigionieri.

Dal 1945 in avanti, la disoccupazione supererà invece poche volte il 6%. Il movimento delle “ricostruzioni nazionali” rimette nuovamente in moto la popolazione produttiva. Il ciclo bellico, dunque, si spegne e riappare quello della pace, dell’accumulazione con la sua montagna di sacrifici umani immolati alla macchina produttiva e alla produttività. La crisi del ‘29 aggiunge, quindi, all’orda di masse miserabili prodotte dalla Prima guerra mondiale un’altra immensa massa di disoccupati e di disperati, indirizzandoli verso la nuova macchina da guerra del secondo macello mondiale. E il proletariato pagò il suo tributo di sangue, trascinato sui due fronti in lotta.

Negli anni in cui ci si preparava ad accendere la miccia del secondo conflitto, si ebbe il trionfo degli “accordi di pace”, in verità annunciatori di morte. Si vis pacem, para bellum, era lo slogan del momento: se vuoi la pace, prepara la guerra. Nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1938, a Monaco, i capi di stato e di governo di Francia, Regno Unito, Italia e Germania, enormi macchine da guerra, firmarono un documento con cui si dava il via libera alla Germania per annettersi gran parte della Cecoslovacchia. In questo territorio, vivevano assiepati, dal 1918 al 1939, 13 milioni di abitanti – uno dei dieci paesi più industrializzati d’Europa, si diceva, il più industrializzato dopo lo scioglimento dell’Impero austro-ungarico: vi abitavano ruteni, cechi, slovacchi, ungheresi, polacchi. Era giunto il tempo di scucire quello che era stato tessuto a Versailles, e l’accordo fu salutato come un grande successo della diplomazia europea. Al loro ritorno in patria, i leader inglesi e francesi che vi avevano preso parte furono accolti da grandi festeggiamenti, perché… avevano concordato la pace o allontanato la guerra. Da lì a poco, nessuno avrebbe più riconosciuto il puzzle cecoslovacco scomparso dalla cartina geografica. Fraternamente, tra il ‘38 e il ’39, gli Stati confinanti (Germania, Ungheria, Polonia), dopo l’annessione tedesca dei Sudeti e della Boemia-Moravia, si spolparono il resto dell’intera Cecoslovacchia. Il 18 marzo1939, le truppe tedesche si accomodano… tranquillamente in Austria, senza incontrare alcun tipo di resistenza e senza dover sparare un colpo, accolte dappertutto con grande entusiasmo. Nessun imbarazzo da parte degli Stati imperialisti, che scommettevano sulle possibili prossime alleanze e si corteggiavano a vicenda, non facendo distinzione fra fascisti, nazionalsocialisti, nazionalcomunisti, conservatori inglesi e radicali francesi: nulla era ancora deciso in merito alle alleanze. Così come presidenti, monarchi, imperatori, zar negli anni precedenti al primo conflitto banchettavano allegramente, giocando con le teste dei popoli e dei proletari, anche allora, pochi decenni più tardi, i capi di Stato si elogiarono a vicenda giurando sulle intenzioni di pace.

Il capolavoro dei capolavori “di pace” fu però il pattoHitler-Stalin,un “trattato di non aggressionefra la Germaniae la Russia, firmato aMosca il 23 agosto1939, a pochi mesi dalla scoppio del conflitto: i festeggiamenti per la volontà di pace dell’uno e dell’altro non si contarono, come non si contarono gli inni alla democrazia e al “diritto dei popoli”. I macellai d’Europa si preparavano agli scontri. Le conseguenze immediate più importanti di quel trattato stabilivano in anticipo la divisione del territoriopolaccoe l'occupazione delle repubbliche baltiche da parte dell’esercito russo. E fu la Germania a rompere il patto, due anni dopo che era stato stipulato, invadendo la Russia il 22 giugno 1941. Ignare di quel che le due borghesie avevano concordemente architettato (patto e protocollo d’intesa), le popolazioni furono precipitate nell’abisso.

La violenza economica accumulata tra la fine del primo conflitto mondiale e il secondo spinse i flussi di popolazione europea da un capo all’altro del continente, trasformando la crisi economica mondiale del 1929-32 in un orrendo scannatoio. Passarono i decenni, all’insegna della “pace”, della “ricostruzione”, del “boom”, e infine di una nuova fase di crisi economica: e venne il terremoto centro-orientale degli anni 1989-91, che spinse le popolazioni europee verso occidente. L’abbattimento del muro di Berlino proposto come simbolo di una “pacificazione ritrovata” tra i popoli, rappresentò viceversa un vero e proprio Anschluss della DDR (e non solo il “ricongiungimento” con la Germania dell’Ovest). La deflagrazione della cosiddetta Unione Sovietica fece sì che si capovolsero alleanze, si ridisegnò la geografia: anche qui, con la crisi economica russa, si assistette a un rapido spostamento di popolazioni. Alcuni anni dopo, la stessa violenza spinse le popolazioni balcaniche le une contro le altre, come vere e proprie mandrie al macello, prima di costringerle a partire alla ricerca di qualche terra promessa. La ricostituzione dell’intero territorio degli “slavi del sud” in forma di puzzle lasciò dietro di sé un immenso bagno di sangue. Sotto sorveglianza (del marco prima e dell’euro dopo), si assistette così a un movimento via terra e via mare di macedoni, albanesi, kosovari, montenegrini, serbi, croati, bosniaci-erzegovini.

Che cos’è cambiato da allora? La balcanizzazione che avanza sembra non avere fine. La guerra civile nel Donbass, al confine russo-ucraino, continuerà a mietere altre vittime. Una volta ridisegnata l’Ucraina, quanti partiranno ancora e quanti gruppi troveranno lungo la strada la loro cosiddetta identità nazionale?

Più difficile da capire è dove porterà oggi lo tsunami mediorientale. I media ci raccontano, con il solito tono piagnucoloso e ipocrita, dei massacri, a centinaia di migliaia, in Siria e in Iraq, alimentati dalle armi e dai capitali delle grandi potenze. Ci narrano del lungo esodo biblico dei profughi verso l’Europa: una massa oscillante, sui vari fronti, tra gli otto e i dieci milioni di persone, una massa che continua a crescere, lungo strade, sentieri, binari, disperdendosi nei vari paesi, dalla Siria alla Turchia, dalla Grecia alla Serbia, dall’Ungheria all’Austria fino a Germania, Danimarca, Svezia, Finlandia, costretta a impiantare lungo il tragitto precari concentramenti stanziali (baraccati, tendopoli, accampamenti). Via via, queste “stazioni di sosta” si trasformano poi, a loro volta, in masse in movimento, che attraversano aree desertiche o zone urbane ormai abbandonate e distrutte dai bombardamenti, che sconfinano di qua e di là sotto la pressione degli interessi locali – interessi locali che bloccano, incanalano e deviano l’esodo con muraglie e reticolati.

Anche qui, la borghesia imperialista ha lasciato la propria impronta distruttiva. Alimentando divisioni etniche, religiose e “nazionali”, esportando le proprie guerre “umanitarie” e democratiche”, scatenando i propri conflitti per il petrolio, l’imperialismo continua la sua attività devastatrice. E, alla fine del lungo “disperato viaggio della speranza”, l’Europa, giungla di nazionalismi, mostrerà pienamente il proprio volto: “meraviglia dopo meraviglia”, si scopriranno mura, confini, polizie militari e controlli d’ogni specie, nuovi lager e nuove schedature, nuovi sfruttamenti e nuove persecuzioni. Sotto lo slogan pietistico dell’“accoglienza” a suon di “benvenuti!”, si distribuisce… la cioccolata: rinasce una Nuova Germania, per i nuovi Sciuscià e Terroni in arrivo dalla Siria, dopo quegli altri che, negli anni ’60 del ‘900, con le valigie di cartone, erano partiti per la Svizzera, per il Belgio, per la Francia, per una Germania che, avida di manovalanza a buon mercato, marciava a ritmi straordinari.

Quanti altri campi di concentramento dovranno costruirsi, prima della mattanza finale? Rifugiati, o cercatori di lavoro? Avanti i primi, fuori i secondi!, si dice. Chi e quanti saranno accolti? Quale sarà la loro composizione etnica, religiosa, “nazionale”, nei lager di nuova formazione? Vivranno come, ormai da sessantacinque anni, vivono i rifugiati palestinesi, nelle centinaia di campi (città, paesi, agglomerati), in Giordania, Libano, Siria, nella Striscia di Gaza o in Cisgiordania, separati da mura altissime erette dal più democratico e moderno degli Stati imperialisti, Israele, in attesa che venga riconosciuta loro la terra da cui furono cacciati e, nel frattempo, macellati periodicamente da un’immane violenza che gli si riversa addosso da tutte le parti? Che cosa aspettano i palestinesi (anche loro!) a mettersi in cammino, a percorrere il letto di questo fiume demografico, a cercare un nuovo campo-profughi nella generosa Germania – così come è avvenuto per i “curdi” che, divisi in “etnie” mai più ricomponibili (siriane, irachene, iraniane, turche), vanno a sbattere come mosche impazzite contro la muraglia anatolica? Ma la domanda vera è: chi non è un rifugiato, un perseguitato, un oppresso, chi non ha subito violenza, nella società del capitale? I proletari del mondo, i senza riserve, coloro che non hanno illusioni di alcun genere, non hanno da perdere che le loro catene e tutto un mondo da guadagnare.

Generosità tedesca? Gli istituti di ricerca spiegano che il rapporto costi-benefici produrrà per la Germania un saldo attivo. Scrive Il Sole-24 ore del 13 settembre u.s.: “i rifugiati costeranno tra i 6 e i 10 miliardi di euro aggiuntivi per il bilancio tedesco, ma quello che ci aspettiamo è un effetto traino tra lo 0,2 e lo 0,3 in più di crescita del Pil già dal prossimo anno. La crescita si stabilizzerà, se avverrà rapidamente un’integrazione degli immigrati nel mercato del lavoro, come dimostra quello che è accaduto negli ultimi anni durante i quali la Germania ha beneficiato della loro presenza”. Achtung! Il welfare è sostenibile nella misura in cui c’è un veloce riassorbimento della forza-lavoro nelle fabbriche: avanti, dunque, uomini e donne rifugiate, non isolatevi e imparate il tedesco, qui nelle galere patrie siete i benvenuti finché il flusso di plusvalore scorrerà dalle vostre braccia alle nostre tasche! Generosità italica? Gli immigrati, quasi 5 milioni (compresi i non occupati), producono 123 miliardi di euro di valore aggiunto: in pratica, l’8,8% del Pil. Uno studio della Fondazione Leone Moressa calcola che il rapporto costo-benefici, mettendo in fila le entrate e le uscite, è un saldo attivo di 3,9 miliardi per lo Stato. Quale altro commento è necessario?

Guerra di razze o di classe?

Mentre uccideva milioni di essere umani (uomini, donne, bambini, vecchi, malati) in nome della proprietà privata, del profitto e della rendita finanziaria, la borghesia capitalista in tutte le sue espressioni nazionali imputava alla nazione vicina la causa del II conflitto mondiale che portò a compimento il trionfo del colonialismo, del nazionalismo, dell’imperialismo. Ma i capi di Stato, i vari Roosevelt, Hitler, Stalin, Mussolini, Deladier, Chamberlain, Hiro Hito, i rappresentanti della classe dominante mondiale, non erano “il nemico”.Nemiche erano le masse umane occupate e disoccupate, in fuga dagli orrori della guerra, disperate, colpevoli di non avere altro addosso che i propri panni. Nemica era la piccola borghesia terrorizzata, o almeno quel suo distaccamento sacrificabile ridotto a stracci. Nemici erano gli esseri umani allo sbando, i proletari, i poveri d’ogni nazione, i miserabili di tutte le razze, l’esercito di riserva dei proletari cresciuti in eccesso rispetto ai bisogni della macchina produttiva. Settanta milioni di esseri umani furono straziati, maciullati, gasati, atomizzati e sepolti in ogni angolo del pianeta. Mentre distruggeva e sventrava città, case, strade, mentre bombardava e incendiava lasciando intorno solo morte, la borghesia continuava a vantare titoli di “civiltà, progresso, libertà, democrazia” (liberale, sociale, socialnazionale) nei confronti di qualche entità malvagia “straniera”, messa in scena come bersaglio, a maggior gloria della propria Patria, del proprio Stato, della propria Nazione, della propria Razza: feticci sanguinari alla cui adorazione erano state condotte le enormi masse umane, prima d’esser trasformate in carne da cannone.

Il nazionalismo e l’imperialismo si presentarono in tutta la loro ferocia: mentre si abbatteva sui miserabili la morte atomica a Hiroshima e Nagasaki, mentre le città erano rase al suolo (Dresda, Coventry…) e le camere a gas si riempivano di innocenti, di piccola borghesia ormai spogliata non solo delle riserve ma anche di ogni parvenza umana, mentre si innalzavano cippi, lapidi, monumenti, cattedrali alla memoria e una montagna di medaglie al valore si appuntavano sui petti delle classi dominanti, la borghesia si vantava di aver condotto la guerra per “difendere l’umanità dalla barbarie”, dai “nemici della civiltà”: le “bestie” di allora hanno oggi nuovi nomi e volti, ma sono la stessa peste di ieri. Mancava, tuttavia, al delirio di sangue cui tutti gli Stati avevano partecipato, l’alibi perfetto: la giustificazione di una guerra condotta contro la “barbarie” di una parte del fronte puzzava d’ipocrisia. Occorreva qualcosa di più forte: e vennero in soccorso Auschwitz, Buchenwald, Dachau, Birkenau... L’orrore dei campi di sterminio (l’olocausto) doveva traboccare in modo tale da annichilire, al confronto, la distruzione totale prodotta dalla guerra.

Al tribunale di Norimberga, eretto come altare dai vincitori, fu concepito il “mostro assoluto” su cui riversare e incanalare tutto l’odio sofferto a causa della guerra. La borghesia trovò i criminali: non la causa economica del crimine di distruzione, di cui è geneticamente portatore il modo di produzione capitalistico; trovò anche la giusta spiegazione storica: la guerra era stata un atto generale di “liberazione dagli orrori antisemiti”. Una genialata da macellai. Una volta riconosciuto, lo scopo venne santificato, e finalizzato a segnare un limite insuperabile. Quelle masse di soldati combattenti, prigioniere della dittatura feroce delle classi dominanti, quei civili seppelliti dentro le loro case, nei palazzi, nelle fabbriche, nelle scuole, negli ospedali d’ogni paese e città, furono coperti per sempre da una montagna di ossa sopra altre ossa, da un unico e solo carnaio di ebrei, per battezzare la guerra mondiale, non come guerra contro il proletariato internazionale ma come guerra razziale. La menzogna scavò in profondità una non verità: l’olocausto, il genocidio, furono solo di ebrei, e non di proletari tra altri miserabili della terra ridotti alla fame. I proletari del mondo che avevano subito quell’orrore sprofondarono in un abisso di menzogna da cui non emerge ancora alcuna memoria di classe, cancellata per generazioni. Quelle masse umane, etichettate come razza, che tentarono una straordinaria lotta a Varsavia nel 1944, quelle masse di disperati scacciati dalle città e messe alla gogna che non ebbero i mezzi per fuggire e attraversare gli oceani, che non ebbero né denaro né riserve per sopravvivere, furono prima isolate e rinchiuse nei ghetti, poi sottoposte a lavori forzati, e infine sterminate nei lager nel corso della guerra – abbandonate e rifiutate dalle borghesie e dalle Chiese, sebbene più volte, fin dalla spartizione della Polonia, gli stessi nazisti tentassero di “venderle” al fronte nemico utilizzando organizzazioni semiclandestine di ebrei.

Il conflitto mondiale, la macelleria di guerra, alla fine furono cancellati, e la distruzione imperialista in quanto tale si dissolse come in una nebbia, lasciando il posto a tutte le retoriche nazionali, umanitarie, pacifiste. L’antifascismo democratico, per affossare il senso della guerra totale di sterminio da parte della borghesia mondiale, la presentò al mondo come “questione razziale”. E la Resistenza borghese, a ulteriore gloria della Nazione, della Patria, dei Parlamenti, della Democrazia, dopo i bombardamenti e le distruzioni rimise a nuovo l’economia capitalista, schiacciando sotto il proprio giogo la classe operaia. Ogni ricordo del massacro scomparve. La borghesia cercava un capro espiatorio su cui fondare la Ricostruzione e la Pace, dopo avere creato attorno a sé un immenso cimitero. E lo trovò. Dopo aver prodotto miseria e oppressione, cercò di nascondere la verità: la guerra è la massima soluzione capitalistica della crisi, è la distruzione massiccia d'impianti, di mezzi di produzione e di prodotti, di esseri umani, rimedio ultimo alla “sovrappopolazione” periodica che va di pari passo con la sovrapproduzione.

Già nel 1844, Marx dimostrava quali sono le cause della “sovrappopolazione”: “La domanda di uomini regola necessariamente la produzione di uomini, come di qualsiasi altra merce. Se l'offerta supera largamente la domanda, una parte dei lavoratori cade nella mendicità o muore di fame” (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Primo Manoscritto: Salario). Ed Engels gli faceva eco: “Se Malthus non avesse considerato la questione così unilateralmente, avrebbe dovuto essersi accorto che la popolazione o la forza-lavoro in eccesso è sempre connessa ad un'eccedenza di ricchezza, di capitale e di proprietà fondiaria. La popolazione è troppo numerosa solo dove la forza produttiva è troppo grande”(F. Engels, Lineamenti di una critica dell'economia politica, 1844). Che altro dire di più?

 

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  • Per uscire dall’insanguinato vicolo cieco mediorientale (Il programma comunista, n° 5, 2014)
  • Guerre e trafficanti d’armi in Medioriente (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • Gaza: un ennesimo macello insanguina il Medioriente-Volantino (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • L’alleanza delle borghesie israeliana e palestinese contro il proletariato (Il programma comunista, n°6, 2014)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario  ( Il programma comunista, n°3, 2021)
  • A fianco dei proletari e delle proletarie palestinesi! ( Il programma comunista, n°5-6, 2023)
  • Il proletariato palestinese nella tagliola infame dei nazionalismi ( Il programma comunista, n°2, 2024)
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