DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Tra una crisi di sovrapproduzione e l’altra

In un articolo del numero scorso di questo giornale (“Affoghiamo in un mare di petrolio!”, Il programma comunista, n.6/2014), abbiamo commentato il grafico relativo all’andamento del prezzo del petrolio dall’inizio della crisi di sovrapproduzione (2007) a oggi. Le nostre considerazioni sulle cause e sugli effetti deflattivi ci hanno portato a prospettare una caduta del Brent molto al di sotto dei 70 dollari al barile ($/b). Il calo è ancora in corso e si è pesantemente accentuato. Il grafico riportato dal Sole 24 ore del 2/12 presenta anche l’andamento storico del suo prezzo dal 1985 a oggi e mostra i picchi del 1985 (30$/b) e del 1990-91 (38$/b) (crisi economica e prima guerra del Golfo). La rapida accoppiata crescita-crisi delle “tigri asiatiche” del 1997-98 e di quella americana d’inizio secolo (2000-01) innescano il processo di accumulazione, ma è la II Guerra del Golfo (2003) che dà luogo al vero periodo di sovrapproduzione con il prezzo del Brent che schizza da 49,60$/b (ottobre 2004) a 146,08$/b (2008), cui segue il crollo successivo a 36,61$/b; poi, dopo una breve risalita a 129$/b, il prezzo ricade a 90,21$/b (ottobre 2014). Da qui in avanti, il prezzo comincia il suo rapido percorso in discesa: il 7 gennaio, il Brent è già sotto quota 51$/b e il WTI sotto la soglia dei 48$/b.

Valori, ovviamente, molto lontani da quelli della prima crisi di sovrapproduzione mondiale del dopoguerra (1974-75), con prezzi che andavano dai 6$/b ai 18$/b, imposti dagli “shock petroliferi” del 1973 e del 1978-79: il primo, durante il conflitto dello Yom Kippur (la guerra dei Paesi arabi contro Israele), nel corso del quale i paesi dell’Opec interruppero del 25% i flussi del petrolio verso i paesi importatori (il che triplicò il loro prezzo); il secondo, durante la cosiddetta “rivoluzione iraniana” del 1979 (circa 40$/b). Al contrario, la guerra Iran-Iraq degli anni 1980-88 spinse i paesi produttori arabi e quelli europei (con la scoperta del petrolio nel Mar del Nord) ad accrescere la produzione, il che riportò il prezzo a 18$/b. Comunque, il valore massimo del prezzo del petrolio nel periodo 1986-2000 (16 anni circa) non superò mai la soglia dei 20$/b (a parte i 38$/b negli anni della crisi economica 1990-91 e i circa 15$/b nel 1999): un lungo periodo, dunque, di “stabilità”. Quello delle materie prime energetiche per l’economia capitalista è un settore molto importante, che permette di segnare la dinamica dei prezzi in generale su scala mondiale, soprattutto nei periodi tormentati in cui si alternano rapidamente sovrapproduzione e crisi. Ricordiamo che la crisi del 1974-75 e la sua coda del 1980-81, attraverso la rapida risalita e poi il crollo verticale dei prezzi delle materie energetiche, innestandosi alla crisi giapponese del 1987, diedero il colpo decisivo all’economia russa: situazione che si sta proponendo ancora una volta, a un livello molto più esteso, con la crisi e il crollo attuale dei prezzi.

Anni di crisi anche per il settore delle materie prime “non energetiche” (vedi Il Sole-24 ore del 2/1/ 2015, Bilancio 2014): molti gruppi dell’industria estrattiva sono stati costretti in questi anni a tagliare investimenti e posti di lavoro per ridare fiato ai prezzi, senza però riuscirvi. A dimezzare i prezzi è stato soprattutto l’andamento al ribasso dei materiali ferrosi, accompagnato da importanti cadute del carbone e del rame. E determinante, ancora una volta, è stata la sovrapproduzione precedente: anni di prezzi alti che hanno spinto l’industria estrattiva a investire centinaia di miliardi in nuovi progetti fino all’attuale crisi. Il crollo del prezzo del minerale di ferro ha il primato di -51,5%; seguono il petrolio a -49%, il cotone a -25%, il rame a -14%, il mais a -4,3%: mezzi di sussistenza, materie prime industriali, materie ausiliarie, tutti nello stesso scivolo in caduta libera. L’Australia, che detiene il 20% delle esportazioni mondiali del ferro, chiave per la produzione dell’acciaio, è riuscita a soddisfare l’insaziabile appetito cinese, ultimamente in declino. Il surplus dovrebbe raddoppiare anche quest’anno (da 60 ai 110 milioni di tonnellate, secondo Goldman Sachs), il che costringerà a cancellare e rinviare “ben 22 progetti di estrazione”.   

La “follia speculativa” in quanto causa della rapida crescita e del conseguente crollo dei prezzi, la psicologia delle aspettative, la cosiddetta “legge della domanda e dell’offerta”, non c’entrano nulla. La sovrapproduzione e la crisi hanno ben altre cause. Durante le crisi di sovrapproduzione, avviene un vero e proprio “cedimento strutturale” dell’impalcatura economica, che Marx ed Engels disegnano così: “La società si trova all’improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie, sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza, l’industria, il commercio sembrano distrutti” (Manifesto del partito comunista, 1848). Le conseguenze del cedimento del plusvalore (profitti, rendite, interessi) peseranno duramente sugli Stati produttori del Medioriente, come sulla Russia, sul Venezuela, sulla Nigeria, ma anche sugli Stati Uniti per il settore shale oil/gas, che ha fatto degli Usa un paese produttore. E’ così difficile capire che i paesi produttori saranno colpiti duramente dalla crisi, mentre i paesi consumatori, risparmiando sulle spese energetiche, miglioreranno temporaneamente il loro Pil? Ma questo è solo un aspetto della dinamica economica. Se si considera però che l’estrazione di gas, ottenuto da argille a grandi profondità, ha attirato grandi investimenti in larga parte finanziati a debito, al punto da far gridare a una nuova bolla speculativa, si comprende che un prezzo dell’energia in continuo calo è destinato a minare l’intera economia (e non solo il settore dell’energia), mandando all’aria tante aziende e quindi ampliando con i licenziamenti l’attuale livello di disoccupazione e creando nuova precarizzazione a catena.

Gli addetti ai lavori dal lato finanziario aggiungono, mettendo in evidenza il problema dei canali del finanziamento, che le “obbligazioni spazzatura” americane, investite nel settore dal 2008 in avanti, hanno triplicato il loro peso fino a 210 miliardi di dollari – il che ha già fatto rinascere il timore, se non la certezza, che l’economia stia tornando alla casella di partenza (nel Gioco dell’Oca!), là dove la crisi, provenendo allora dai mutui subprime, ebbe inizio. Il lupo perde il pelo, ovviamente, ma non il vizio. E’ comunque sicuro che la “guerra dei prezzi” continuerà a mietere vittime su tutti i fronti e che la dietrologia ispirerà veri e propri capolavori letterari alla piccola borghesia, sempre alla ricerca delle responsabilità individuali e collettive. Nell’attuale situazione di crisi, il movimento sconnesso di una sola tessera del domino avvierà inevitabilmente un processo a catena che sommuoverà nuovamente l’economia mondiale. Gli eventi politici, le guerre, gli scontri sociali entreranno presto o tardi in risonanza distruttiva con la dinamica dei prezzi di mercato fortemente instabili. I teorici delle “bolle temporanee”, si sostiene, non possono capire la “rivoluzione americana in corso”, dovuta alla riduzione del prezzo di produzione iniziata molto tempo fa con la produzione dello shale gas. Dal 2000, la produzione è aumentata “in modo impressionante”, superando i 420 miliardi di metri cubi l’anno (l’85% del consumo europeo).

E c’è dell’altro: il flusso di petroldollari (le grandi rendite finanziarie) che con la vendita andava a finire nelle casseforti dei monarchi, delle oligarchie e delle democrazie del petrolio, per essere poi investito sui mercati dei paesi industriali (500 miliardi nel 2006), verrebbe a mancare nei loro bilanci. Questo canale d’investimenti esteri, necessario per uscire dalla crisi, si prosciugherebbe oppure anche verrebbe risucchiato in patria, come già in parte accade – il che porterebbe anche (per la riduzione dei prezzi) alla diminuzione drastica del Pil mediorientale. Per adesso, niente riesce a fermare il crollo delle quotazioni, le armi sono tutte spuntate e la rassegnazione scommette ancora su un crollo più rapido dei prezzi per tutto il 2015. Invece di “bloccare l’offerta”, come veniva suggerito, quasi tutti i paesi continuano ad aprire i rubinetti contribuendo alla caduta dei listini. Che la volontà c’entri poco e la politica economica sia alla soglia della débâcle lo dimostra il fatto che la Russia ha raggiunto un nuovo picco della produzione, 10,6 milioni di barili al giorno, il massimo dai tempi della cosiddetta Unione Sovietica, che anche l’Iraq punta ad aumentare le esportazioni e che l’Iran cerca accordi sul nucleare e sulla fine delle sanzioni per raddoppiare le esportazioni. Tutti gli avvenimenti oggettivamente legati alla riduzione della produzione (guerre, sanzioni, aumento delle scorte, contrabbando, sottrazioni, embarghi) non hanno alcun effetto: sovrapproduzione e crisi si intrecciano irreparabilmente. Anche lo shale oil negli Usa sta reggendo al crollo dei prezzi: l’80% della produzione sembra che possa resistere anche a 40-50$/b. Che cosa succede dunque in questi tempi di vacche magre? L’Idra dalle Sette Teste, il Mercato, schiaccia e livella inevitabilmente verso il basso. La “bassa inflazione” (sic!) incombe (domina) sull’Eurozona, i titoli energetici crollano e così le Borse (6 e 7 gennaio). Il ritorno del segno meno nell’indice dei prezzi al consumo segnala i suoi effetti più gravi nella crescita sempre più bassa e nella disoccupazione sempre più alta. Se si osserva la variazione mensile dell’indice dei prezzi al consumo del 2014, lo 0,8% di gennaio (divenuto 0,3% a novembre) si chiude col segno meno (-0,2%) a dicembre. Deflazione! Lo spettro del 2009 riappare. Il 2% programmato si allontana.

Nei sette anni dell’attuale crisi, intere società medio-piccole del settore petrolifero e gasifero hanno intrapreso fusioni e acquisizioni passando da una mano all’altra soprattutto tra le società produttrici dello shale oil/gas negli Usa. Nei prossimi anni, si annunciano ulteriori fusioni tra le grandi compagnie petrolifere, “una volta stabilizzate” (sic!) le oscillazioni dei mercati, crollati in un breve spazio di tempo. Basti pensare che sette mesi fa il prezzo del Brent era valutato 115$/b, quindi più del 50% in più di oggi (1barile=159 litri=135 Kg). Risulta che le acquisizioni e fusioni annuali in miliardi di dollari (M$), dal 2003 al 2007, sono passate da 80 a 280, nei due anni successivi la crisi le riporta attorno a 210, dal 2010 a oggi il processo di acquisizioni e di fusioni cresce oscillando tra 300 e 350, segno che si prospettano grandi affari per i “nuovi ricchi”.

Per aver un quadro meglio definito dei processi di sovrapproduzione e crisi successive, sono abbastanza significative anche le entrate delle esportazioni petrolifere Opec. Un grafico riportato dal Sole-24 ore del 18/12 le rappresenta per il periodo 1975-2014 (40 anni circa) in miliardi di dollari (Iran escluso): vi si evidenzia in miliardi di dollari (M$) il periodo di grandi attivi (1975-80) e di crisi (1981-85), in cui le entrate sono comprese all’incirca tra 620 (max) e 180 (min); segue il lungo periodo di quasi stabilità (1985-2000) attorno ai 200, per un valore totale delle entrate petrolifere nette tra 180 (min) e 300 (max); quindi, un terzo periodo di sovrapproduzione (2000-07), con entrate fino a 800; poi, un crollo nel 2009 fino a 500, una risalita fino a 900 nel 2013, e una ricaduta quest’anno a 703, con prospettiva di discesa nel 2015 al di sotto dei 450.

L’andamento degli investimenti e disimpegni nei cicli produttivi, l’entità delle forze-lavoro attive e di riserva, la valorizzazione e svalorizzazione delle forze produttive (saggio del plusvalore e saggio del profitto) in questo settore potrebbero offrirci dati ed elementi ancor più significativi sulla crisi.

La visione strabica

Gli economisti borghesi soffrono di uno strabismo incurabile: vedono masse di beni e borse valori, valori d’uso e di scambio scissi al loro interno (petrolio, gas, metalli, mezzi di sussistenza, oro, mezzi di scambio, di pagamento, monete nazionali, etc.), laddove dovrebbero vedere solo “merci” (ma la dialettica materialista, certamente, non è il loro forte!); a sua volta, lo scambio di merci è visto come un semplice baratto. E ciò impedisce di comprendere il fenomeno della crisi mondiale.

Diamo la parola a Marx: “Qui dunque in primo luogo una merce, in cui esiste l’antitesi tra valore di scambio e valore d’uso, viene trasformata in un semplice prodotto (valore d’uso) e perciò lo scambio di merci in semplice baratto, di prodotti, di semplici valori d’uso. Si retrocede non solo dietro la produzione capitalistica, ma sinanche dietro la semplice produzione di merci, e il fenomeno più complicato della produzione capitalistica – la crisi del mercato mondiale – viene negato negando la condizione prima della produzione capitalistica, che il prodotto deve essere merce, perciò deve rappresentarsi come denaro e passare attraverso al processo di metamorfosi” (Teorie del plusvalore, vol. II, pg. 548-49).

Non si comprende cioè che, nella realtà capitalistica, non si è in presenza di una produzione di soli valori d’uso, che nella crisi di sovrapproduzione non si è davanti a una sovrapproduzione di prodotti, che per uscire dalla crisi non si tratta di ricostruire la stessa massa di valori d’uso alla loro vecchia scala o su una scala più allargata, ma si tratta al contrario di conservare e accumulare il valore di scambio totale, il valore contenuto nelle merci: tempi di lavoro socialmente necessari, la cui tendenza storica è poi quella della riduzione del loro valore unitario al crescere della produttività del lavoro. Ogni valore d’uso, sulla base della produzione di massa, porta stampato a lettere di fuoco il suo valore di scambio, variabile nel tempo, da cui non può scindersi, e perciò il valore si muove dentro una contraddizione insolubile. Il prodotto deve essere merce, deve “rappresentarsi” come denaro, deve passare attraverso il processo di metamorfosi di denaro in capitale producendo plusvalore. Le contraddizioni in cui si dibatte la merce a causa dei suoi vincoli e limiti sono queste: 1) il contenuto di valore-lavoro non retribuito, ovvero di plusvalore (profitto), deve essere accumulato a una scala sempre più larga in ogni processo produttivo di valorizzazione in rapporto al capitale già investito – il che significa anche sovrapproduzione di valori d’uso; 2) se il processo di crescita si manifestasse in forma assoluta, senza crisi distruttive, il capitalismo si dimostrerebbe eterno; 3) nel corso delle crisi di sovrapproduzione (come dimostra Marx), l’aumento del plusvalore e del saggio di sfruttamento (i parametri fondamentali dell’accumulazione e della sovrapproduzione), temporaneamente e a un dato momento, risulteranno ridotti in relazione alla scala richiesta del capitale, livello imposto proprio dalla dinamica di accumulazione, e ciò durerà fino a quando non avverrà una distruzione dello stesso capitale pari almeno alla scala della sovrapproduzione di merci e di capitale sopravvenuta; 4) la condizione di crisi di sovrapproduzione dovrà essere superata, non è permanente, altrimenti è la morte del capitale, perché non esiste e non può esistere una condizione di plusvalore e di saggio di plusvalore nulli o decrescenti in permanenza, mentre esiste, ed è provata dalle innumerevoli crisi sopravvenute, una condizione di crisi di sovrapproduzione transitoria distruttiva tra una situazione di sovraccumulazione e di successiva ripresa su scala allargata, fino alla ulteriore crisi. Il punto di non ritorno sarà di natura politica: sarà lo scontro politico fra le classi e la vittoria della classe operaia.

 

Sovrapproduzione e autosufficienza americana

Lasciamo ai giocatori in Borsa la solita frase: “C’è stato un nuovo bagno di sangue sui mercati petroliferi”. A Wall Street, la piazza finanziaria del nuovo petrol-Stato che sono gli Stati Uniti (il dio Mercurio, protettore dei mercanti e dei ladri) non lascia intravvedere nemmeno l’ombra di una possibile ripresa generale dell’economia, di cui i prezzi del petrolio e del gas rivelano lo stato attuale di fragilità. “Non si tratta di un ribasso, è una rotta disordinata, un tracollo senza rete”, spiega Federico Rampini su La Repubblica del 14 dicembre. Lasciamo agli appassionati dello shale oil/gas (del Texas e del North Dakota) e ai suoi prezzi di mercato l’illusione della ripresa economica e dell’uscita dalla crisi sotto la benedizione della famosa “legge della domanda e dell’offerta”. Quello che conta è che, per alzare il saggio medio di profitto, centinaia di migliaia di proletari sono messi e dovranno essere messi ai lavori forzati per ottenere in un tempo brevissimo una gigantesca massa di produzione: produttività elevatissima, bassi salari, flessibilità e aumenti degli orari di lavoro. Creare plusvalore è il diktat del Capitale. Non auguriamo ai proletari del mondo, siano o no accompagnati da operaisti, riformisti e appassionati ex- o neo-stalinisti del prodotto nazionale lordo, una tale condizione!

Che si possa aumentare il saggio di profitto anche a parità di costi, approfittando della crisi e dei bassi prezzi dei mezzi di produzione, dei mezzi di sussistenza, delle materie energetiche è un’altra occasione d’oro. In tempo di crisi, operano lo sciacallaggio e il cannibalismo di classe: mani avide affondano nella palude del mercato in crisi, raschiando mezzi d’ogni specie, svenduti per chiusura di imprese. Infine, in qualsivoglia occasione, dov’è possibile, si possono riaprire vecchi cantieri e vecchie miniere, risparmiare in sicurezza, tornare a un’agricoltura di raccolta, scavare e riempire fossati, con forze-lavoro spinte ad accettare lavori miserabili per sussidi di fame.

Di fronte alla valutazione recentissima (che cioè sulla maggior parte dello shale oil/gas si può scommettere oggi, così “dicono”, su prezzi intorno ai 40$/b, pochi mesi fa considerati proibitivi per la maggior parte delle piccole e medie aziende, di cui si compone in assoluto il settore shale e del tutto disastrosi con i metodi tradizionali, già con un prezzo inferiore ai 110$/b), l’Opec e l’Eia, l’Agenzia Internazionale per l’Energia (e la stessa Arabia Saudita) hanno dovuto rinculare dalla precedente posizione di sostegno dei prezzi, arrendendosi all’evidenza e dichiarando: “E’ necessario che il prezzo si abbassi”.

Che qualche dubbio sulle capacità predittive delle teorie borghesi (supposto che ne esistano!), all’inseguimento giorno per giorno delle quotazioni di mercato, possa venire in mente agli “esperti”, lo escludiamo. A spingere il “prezzo di produzione” verso il basso (prezzo di produzione per noi equivalente al “valore” legato non al saggio di profitto aziendale e di settore, ma al saggio medio di profitto), sono stati i costi estrattivi dello shale gas/oil, crollati “rapidamente e improvvisamente”, insieme al tempo socialmente necessario di produzione. Essi hanno richiesto metodi tecnicamente più efficaci di quelli iniziali per rendere efficienti le operazioni di estrazione, “risparmiando ultimamente sull’impiego dell’acqua e della sabbia nel fracking, ovvero la fratturazione idraulica”, oppure “utilizzando speciali trivelle che permettono di perforare contemporaneamente un numero più elevato di pozzi”. Alcune società hanno già comunicato una riduzione dei prezzi dietro la sollecitazione del crollo delle quotazioni del greggio, nello stesso tempo in cui si continuano a prevedere aumenti della produzione anche per il 2015. Quello che si sta osservando è un ciclo straordinario di sovrapproduzione e di crisi, relativo a una materia prima ausiliaria fondamentale, che a sua volta sta al centro di una macro-categoria di merci essenziali: benzina, gasolio, kerosene, lubrificanti, concimi, plastica, paraffina, asfalto, oli combustibili, ecc., e di una catena di usi che investono tutta l’economia borghese – industriali, militari, dei trasporti – di cui “si prospetta” un secondo crollo. Il che non è una novità. Ricordiamo che tutte le crisi dell’economia capitalistica sono state investite dalle crisi di sovrapproduzione delle materie prime e soprattutto delle materie legate all’energia del sistema produttivo. Che la Exxson, il primo gruppo mondiale dell’energia, abbia pagato 42 miliardi di dollari per comprare il più grande produttore di shale gas, inseguendo il prezzo in rialzo, e che il 29 novembre abbia perso alla borsa di New York 16,8 miliardi di dollari per i prezzi in caduta del gas convenzionale; e che le grandi compagnie del petrolio quello stesso giorno abbiano perso 100 miliardi di capitalizzazione, dimostrano quanto siano aleatorie le cosiddette quotazioni di mercato e quanto siano pesanti le perdite, che richiederanno anni prima di essere assorbite. A differenza del petrolio estratto con le forme tradizionali, ci dicono, una caratteristica sostanziale del petrolio shale è il suo elevato tasso di esaurimento, che costringe le aziende produttrici alla continua ricerca di nuovi terreni-pozzi nei quali investire per contrastare il declino dei volumi di produzione. Per mantenere la produzione stabile o in crescita c’è dunque bisogno d’investimenti continui in nuove perforazioni per rimpiazzare i pozzi in esaurimento. Una rappresentazione geologica del pianeta rivela che la presenza (in quanto risorsa) dello shale gas/oil è diffusissima in Russia, in Brasile, in Cina, in Australia, in Canada, e non solo negli Usa: ma,  in quanto attività produttiva propria, solo gli Usa ci si sono buttate a capofitto.

Guardando al cuore dell’attività produttiva dello shale gas, si scopre che le grandi società prevedono tagli non agli investimenti, ma al costo del lavoro. “Una strategia sbagliata”, insorge l’economista L. Maugeri su La Repubblica del 15 dicembre “L’industria petrolifera non ha un’alta intensità di lavoro, mentre ha un’altissima intensità di capitale. In altri termini, il costo del lavoro rappresenta una frazione ridotta di quanto ogni società investe ogni anno in nuovi progetti”. Ma, basso costo del lavoro in rapporto a un grande capitale investito significa alta produttività del lavoro, rapida accumulazione e basso saggio di profitto. Poiché la massa totale di profitto dipende anche dal numero di proletari sfruttati, con la loro riduzione e a parità di saggio di sfruttamento, essa non può che diminuire. Una tale dinamica non può che ripresentare di volta in volta una nuova sovrapproduzione esponenziale e una crisi successiva devastante. Non ne usciamo!

Ancora Marx: “Poiché, dunque, la massa complessiva del lavoro vivo, applicato ai mezzi di produzione, decresce in rapporto al valore di questi stessi mezzi di produzione, anche il lavoro non retribuito e la parte di valore, in cui esso si rappresenta, decrescono relativamente al valore del capitale totale anticipato. Ovvero un’aliquota sempre minore del capitale totale sborsato si converte in lavoro vivo, quindi questo capitale succhia, proporzionalmente alla sua grandezza, sempre meno pluslavoro, per quanto possa crescere nello stesso tempo il rapporto tra la parte non retribuita del lavoro impiegato e quella retribuita. La diminuzione proporzionale del capitale variabile e l’aumento proporzionale del capitale costante, benché entrambe le parti crescano in assoluto, non è, come si è detto, che un’altra espressione dell’aumentata produttività del lavoro” (Idem, cap. XIII, pag.277).

Una guerra tra borghesie contro il proletariato

Quel che accade relativamente al petrolio e al gas in Medioriente, in Ucraina, in Russia, in Africa, in Cina, in Venezuela, negli Usa non sono eventi economici indipendenti o del tutto casuali. Stati imperialisti di produttori (esportatori) e consumatori (importatori), intravvedendo l’arrivo dei cavalieri dell’Apocalisse e avvertendo la non lontana minaccia della guerra imperialista, misurano le reciproche distanze mascherandole nelle forme politically correct. Mentre il Congresso statunitense vota l’invio di armi in Ucraina e la Nato dilaga nell’Est europeo sotto la bandiera a stelle e strisce (e il Regno Unito in particolare traffica coi paesi baltici), gli aerei russi sorvolano l’Europa stringendo a sé la Crimea e l’area sud-orientale dell’Ucraina. I mostri della guerra mascherati dall’ideologia dominante in colombe portatrici di pace, democrazia e benessere cominciano a tessere la loro tela. Si soccomberà, dunque, per una semplice questione di sproporzioni domanda-offerta nella circolazione delle materie prime ed energetiche, per una semplice partita finita male tra consumatori e produttori, nello scontro tra vecchie monarchie, oligarchie, e civilissime democrazie?

In realtà, la rapidità dei processi deflattivi sta mettendo a soqquadro le relazioni internazionali. Ci sta anche, in questo scontro, la grande battaglia dei media per spararle grosse dai due fronti: non appena “il mercato” annuncia i suoi prezzi, con la stessa velocità vengono esibiti i muscoli e le forze produttive in gioco. Appena sette anni fa, sembrava impensabile per la Russia un capovolgimento della situazione con un dato del Pil dell’8,5% e con un prezzo medio al barile di 72 dollari che spingeva sempre più in alto. Nella crescita successiva del 2012, se il prezzo si era portato a 111$/b, tuttavia la velocità di crescita del Pil aveva perso il precedente vigore. Tra debito estero russo (600 miliardi di dollari), crollo del rublo (valore dimezzato in pochi mesi), a tutt’oggi la situazione si è interamente rovesciata. Il tracollo economico russo e la caduta libera del rublo del 17 dicembre disegnano un quadro sociale ad altissima pericolosità. Se aggiungiamo le sanzioni imposte dall’Europa e dagli Usa per la questione ucraina e le spese militari, che entrambi i fronti stanno sostenendo, il proletariato internazionale dovrà essere estremamente vigile: la nera nuvolaglia sui cieli europei annuncia tempesta.

La grande muraglia di merci, nella fattispecie petrolio, gas, materie prime, costruita durante l’epoca di sovrapproduzione, sta crollando sotto le cannonate dei bassi prezzi. Allo sviluppo delle immense forze produttive, alla caduta del tempo medio di produzione e ai bassi prezzi, non c’è scampo. E tuttavia, se in Arabia saudita, in Kuwait, negli Emirati, si sostiene che si resisterà al “raffreddamento dei prezzi”; se si denuncia il bluff americano sullo shale gas/oil; se si dà per scontato che profitti e rendite rimarranno comunque elevati per un costo di appena 12$/b, non è così per la Russia, Irak, Venezuela, Iran, Nigeria, in cui la garanzia della stabilità sociale, economica e politica non può giocarsi al di sotto dei 100$/b: i buchi di bilancio in questa situazione di prezzi in caduta libera produrranno presto o tardi scontri sociali, nei quali il proletariato non può non essere la vittima da sacrificare, se rimane del tutto inerte. I 4000 uccisi nella miserabile guerra per l’indipendenza (sic!) in Ucraina, le centinaia di migliaia di morti in Siria e dintorni, i milioni di sfollati (fra cui gli annegati di Lampedusa) che fuggono dalla Nigeria, dal Sudan, dalla Libia, mostrano la pericolosità di un modo di produzione che deve essere abbattuto.

La situazione è diventata ancor più pericolosa dal punto di vista economico e politico da quando la crisi ha colpito l’Europa, ha rallentato la crescita cinese e imposto al Giappone una forte recessione, travolgendo con quei paesi tutte le cosiddette nazioni emergenti asiatiche, agganciate da decenni al colosso cinese. “Dal lato della produzione stanno avvenendo cambiamenti secolari”, scrive ancora F. Rampini (notizie tratte dal Wall Street Journal). “Dal 2008 sono scomparse dai mari 100 super petroliere al mese, sono quelle che trasportavano 90 milioni di barili mensili in provenienza dai paesi dell’Opec per il mercato Usa. La Nigeria già dal 2010 non consegna più petrolio”. La produzione dello shale gas/oil, ripete l’autore, ha superato ogni prospettiva: “Il settore petrolifero si è trasformato da industria pesante in industria leggera”. Gli impianti di trivellazione utilizzano oramai nanotecnologie e automazione. I fornitori boliviani, brasiliani, algerini sono stati sostituiti dai fornitori statunitensi. Gli Usa hanno raggiunto la Russia nella produzione del gas e si apprestano a superare l’Arabia Saudita nella produzione petrolifera. Soprattutto la legge protezionista, che evitava l’esportazione del petrolio dagli Usa “in quanto bene nazionale” e tuttora vigente fin dallo shock petrolifero del 1973, con la concessione delle prime licenze è stata derubricata a pieni voti. “Nessuno era preparato a questo […] il più grande consumatore diventa improvvisamente il più grande produttore del mondo”… E quindi il maggiore concorrente e il nemico pubblico numero uno. Gli altri Stati e tutti gli economisti accreditati, Nobel del mondo inclusi, dormivano nel frattempo? Quando tutto il nero catrame della terra sarà trasformato in Oro nero dal re Mida-Capitale, a che servirà averlo prodotto, se non verrà soddisfatta la fame di profitto? A che servirà produrre la merce-pane se non sazierà gli affamati? Già vediamo i consumatori che hanno risparmiato sui prezzi della benzina saltare di gioia, la famiglia-tipo americana gongolare di felicità, il benzinaio abbracciare il consumatore, la generosa bolletta diventare leggerissima, non sapendo cosa bolle in pentola. Ma ecco un pensiero alquanto funesto: “Con la frenata della Cina si sta chiudendo un ciclo ventennale di boom di tutte le materie prime: non solo energia ma anche minerali, metalli, legname, derrate agricole”…

Il guastafeste Marx pazientemente spiega: “Non è che si producono troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario. Se ne producono troppo pochi per poter soddisfare in modo decente ed umano la massa della popolazione. Non è che si producano troppi mezzi di produzione per poter occupare la parte della popolazione idonea al lavoro. Al contrario. Prima si produce una parte eccessiva della popolazione, che non è realmente atta al lavoro; che, per le sue condizioni, dipende dallo sfruttamento del lavoro altrui, o da lavori che possono valere come tali sono nell’ambito di un modo di produzione miserabile. Non si producono in secondo luogo, mezzi di produzione sufficienti perché tutta la popolazione idonea al lavoro lavori nelle condizioni più produttive, quindi il suo tempo di lavoro assoluto si abbrevi grazie alla massa e all’efficienza del capitale costante impiegato nel corso del tempo di lavoro. Ma periodicamente si producono troppi mezzi di lavoro e mezzi di sussistenza, per farli funzionare come mezzi di sfruttamento dei lavoratori ad un saggio di profitto dato. Si producono troppe merci per poter realizzare nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di consumo dati dalla produzione capitalistica il valore in esse contenuto e il plusvalore ivi racchiuso. E riconvertirli in nuovo capitale, cioè per poter compiere questo processo senza esplosioni perennemente ricorrenti.

Non è che si produca troppa ricchezza. E’ che si produce periodicamente troppa ricchezza nella sua contraddittoria forma capitalistica” (K. Marx, Il Capitale, Libro III, cap.XV, pag.329-30, Ed. UTET, 1987).

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      PDF   Quaderno n°9
  • Per la difesa intransigente ...
    Per la difesa intransigente
NOSTRI TESTI SULLA "QUESTIONE ISRAELE-PALESTINA"
  • Israele: In Palestina, il conflitto arabo-ebreo ( Prometeo, n°96,1933)
  • Israele: Note internazionali: Uno sciopero in Palestina, il problema "nazionale" ebreo ( Prometeo, n°105, 1934)
  • I conflitti in Palestina ( Prometeo, n°131,1935)
  • Gli avvenimenti in Palestina (Prometeo, n°132,1935)
  • Israele: Fraternità pelosa ( Il programma comunista, n°21, 1960)
  • Israele: Il conflitto nel Medioriente alla riunione emiliano-romagnola (Il programma comunista, n°17, 1967)
  • Israele: Nel baraccone nazional-comunista: vie nazionali, blocco con la borghesia ( Il programma comunista, n°20, 1967)
  • Israele: Detto in poche righe ( Il programma comunista, n°18, 1968)
  • Israele: Spigolature ( Il programma comunista, n°20, 1968)
  • Israele: Un grosso affare ( Il programma comunista, n°18, 1969)
  • Incrinature nel blocco delle classi in Israele(Il Programma comunista, n°17, 1971)
  • Curdi palestinesi(Il Programma comunista, n°7, 1975 )
  • Dove va la resistenza palestinese? (I)(Il Programma comunista, n°17, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (II)(Il Programma comunista, n°18, 1977)
  • Dove va la resistenza palestinese? (III)(Il Programma comunista, n°19, 1977)
  • Il lungo calvario della trasformazione dei contadini palestinesi in proletari(Il Programma comunista, n°20-21-22, 1979).
  • In rivolta le indomabili masse sfruttate palestinesi ( E' nuovamente l'ora di Gaza e della Cisgiordania)(Il Programma comunista, n°8, 1982)
  • Cannibalismo dello Stato colonialmercenario di Israele(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Le masse oppresse palestinesi e libanesi sole di fronte ai cannibali dell'ordine borghese internazionale(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • La lotta delle masse oppresse palestinesi e libanesi è anche la nostra lotta- volantino(Il Programma comunista, n°13, 1982)
  • Per lo sbocco proletario e classista della lotta delle masse oppresse palestinesi e di tutto il Medioriente(Il Programma comunista, n°14, 1982)
  • La lotta nazionale dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°12, 1982)
  • Sull'oppressione e la discriminazione dei proletari palestinesi(Il Programma comunista, n°19, 1982)
  • La lotta nazionale delle masse palerstinesi nel quadro del movimento sociale in Medioriente(Il Programma comunista, n°20, 1982)
  • Il ginepraio del Libano e la sorte delle masse palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1984)
  • La questione palestinese al bivio ( Il programma comunista, n°1, 1988)
  • Il nostro messaggio ai proletari palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1989)
  • Una diversa prospettiva per le masse proletarie (Il programma comunista, n°5, 1993)
  • La questione palestinese e il movimento operaio internazionale ( Il programma comunista, n°9, 2000)
  • Gaza, o delle patrie galere (Il programma comunista, n. 2, 2008)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • A Gaza, macelleria imperialista contro il proletariato ( Il programma comunista, n°1, 2009)
  • Il nemico dei proletari palestinesi è a Gaza City ( Il programma comunista, n°1, 2013)
  • Per uscire dall’insanguinato vicolo cieco mediorientale (Il programma comunista, n° 5, 2014)
  • Guerre e trafficanti d’armi in Medioriente (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • Gaza: un ennesimo macello insanguina il Medioriente-Volantino (Il programma comunista, n°5, 2014)
  • L’alleanza delle borghesie israeliana e palestinese contro il proletariato (Il programma comunista, n°6, 2014)
  • Israele e Palestina: terrorismo di Stato e disfattismo proletario  ( Il programma comunista, n°3, 2021)
  • A fianco dei proletari e delle proletarie palestinesi! ( Il programma comunista, n°5-6, 2023)
  • Il proletariato palestinese nella tagliola infame dei nazionalismi ( Il programma comunista, n°2, 2024)
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