Nel numero scorso abbiamo raccontato dello sciopero dei proletari tessili a Mahalla, presso il Cairo (Egitto), uno sciopero condotto con grande determinazione, tra alterne vicende, per un anno intero, e della vittoria ottenuta. Abbiamo anche riferito degli accordi capestro stipulati dal sindacato americano UAW alla General Motors, mentre arrivano notizie di licenziamenti alla Chrysler (13000) e alla Alcatel (4000). Quest’altro sciopero, svoltosi a Dubai (Emirati Arabi Uniti), su obiettivi salariali e migliori condizioni di vita, e finito in scontri, arresti ed espulsioni (4000!), merita tutta l’attenzione dei lavoratori (riportiamo le informazioni dal Sole 24 ore del  31/10 e dal Manifesto del 2/11). A Dubai, lo sfruttamento della manodopera (composta quasi esclusivamente di immigrati: pakistani, nepalesi, afgani, bengalesi, filippini) è pesantissimo: il salario va da $ 2,75 a $ 7 al giorno, i proletari dormono in baracche e raggiungono i cantieri edili in pullman affollati, iniziando a lavorare prima dell’alba. Lo sciopero (illegale negli Emirati Arabi) ha avuto dunque inizio sabato 27 ottobre, quando in 5000 hanno incrociato le braccia chiedendo il raddoppio della paga e migliori condizioni di vita, e segue quello dell’estate scorsa, in cui i lavoratori sono riusciti a ottenere di sospendere il lavoro nelle ore più calde (oltre i 40°), un minimo di assistenza medica e migliori condizioni abitative (a parole ovviamente!): “Preferiamo pagare le multe che fermare i cantieri dalle 12.30 alle 16.30”, avevano reagito le imprese di costruzione. Va ricordato che i grossi imprenditori arabi si sono buttati sulla rendita immobiliare: stanno costruendo grattacieli, alberghi, centri commerciali, piste da sci artificiali nel deserto; ad oggi, il boom edilizio è pari a quello di Shanghai, con 300 miliardi di dollari investiti nell’immobiliare “per liberare la loro economia [degli Emirati] dalla dipendenza del petrolio”. Oggi solo il 10% delle entrate vengono dal greggio.

Ma vediamo come si sono svolti gli avvenimenti. A Jebel Alì, 5000 lavoratori “incazzati” (una piccola parte dei 700.000 edili stranieri che lavorano a Dubai, su un totale di 1.200.000 negli Emirati) non sono saliti sui pullman, non hanno percorso l’autostrada verso i cantieri e si sono fermati presso i centri commerciali (i più grandi del Medioriente). Qui si sono verificati gli scontri con le forze dell’ordine. Di fronte alla linea dura, i lavoratori hanno rovesciato auto, lanciato pietre contro la polizia, incendiato 14 autobus. In 800 sono stati arrestati, molti saranno processati ed espulsi: una lotta straordinaria, che lascerà indubbiamente il segno nel Medioriente. Scrive il giornalista del Il Sole 24 ore, con molto... savoir faire: “la logica è ineccepibile: scioperare è illegale, chi lo fa è fuori legge”, e aggiunge, riportando le parole del Ministro del lavoro: “Non vogliono lavorare e noi non vogliamo costringerli a farlo”. Di fronte a questi scontri, il “caporale” per i cantieri edili, di nomina regia, non si è scomposto: “Che il numero dei lavoratori deportati in conseguenza degli scioperi siano 1.500 o 5000, non dovrebbe avere un grande impatto, ci sono 120.000 immigrati illegali negli Emirati, pronti a prendere il loro posto”. Il cuore del giornalista di casa nostra non può non sentirsi afferrato da un afflato caritatevole: “Forse è prematuro chiedere democrazia agli emiri, ma giustizia, sì”. E ancora: “Il Governo costruisce qualche dormitorio in più, ma quei lavoratori restano privi di ogni diritto nelle mani dei reclutatori che spesso pretendono l’intero primo anno di paga per garantire un permesso di soggiorno!” (è forse un suggerimento per l’Italia?). Negli Emirati e in altri regni del Golfo, lavorano otto stranieri su due indigeni: 4 milioni e mezzo di immigrati su 5 milioni di persone, per due terzi provenienti dal sud-est asiatico. Addirittura, la forza-lavoro importata costituisce il 99% dei dipendenti del settore privato. A questa massa di immigrati maschi si affianca un numero altissimo di donne che fanno le colf o le pulizie negli alberghi. Il giornalista del Sole 24 ore si abbandona alla fine ad una considerazione, che per noi è un’altra perla di saggezza: “per fortuna i mullah non lottano per un salario minimo, ma per il paradiso [...] il problema laggiù non è Lenin, ma Bin Laden”.

Se lo ricordi, quando la lotta spingerà infine a creare organizzazione e da questa, a sua volta, si sprigioneranno le scintille destinate a innescare un grande incendio, sotto la guida del partito rivoluzionario di classe!

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°06 - 2007)

 

 

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