Dati recenti usciti sulla stampa italiana [1] ci offrono un quadro interessante del rapporto fra immigrazione, carcere e lavoro salariato negli Stati Uniti, permettendoci anche di entrare nel merito di alcune questioni relative al rapporto fra capitale e classe operaia in quel paese.

Cominciamo dunque dai dati (che sono sempre da prendere con le dovute pinze), tenendo presente che, mentre la “riforma dell’immigrazione” (che dovrebbe avere come obiettivo la “regolarizzazione” di 12 milioni di clandestini attualmente al lavoro su suolo statunitense) rimane bloccata nei tira-e-molla parlamentari, ha per il momento buon gioco la legislazione anti-immigrati variamente elaborata dai singoli Stati – una legislazione mirante, come sempre in questi casi, a rendere precaria e ricattabile la condizione dell’immigrato (specie dai paesi del Centro e Sud America, ma non solo), esercitando una pressione continua che lo obbliga ad accettare qualunque condizione di vita e di lavoro. E’, si potrebbe dire, la condizione universale del migrante proletario – perseguitato, sfruttato (nel caso specifico riportato dalla stampa, 12 e più ore di lavoro nei campi di raccolta di frutta e ortaggi), di volta in volta dentro e fuori la clandestinità, annaspante giorno dopo giorno in quella che diviene invariabilmente una guerra tra poveri e disperati.

Un altro capitolo di questa guerra tra poveri e disperati s’è poi aperto nel tempo, sotto la spinta delle leggi dell’economia capitalistica e, in questa situazione di stallo (dovuta non a insensibilità morale di singoli parlamentari, ma alle necessità del mercato del lavoro), si rivela in tutta la sua crudezza: soprattutto negli Stati dell’ovest, buona parte del lavoro nei campi – destinazione storica degli immigrati, legali o clandestini – è ora affidata a carcerati. Le grandi aziende agricole “affittano” presso questo o quell’istituto di pena gruppi di carcerati, per farli lavorare nei campi, sotto dovuta sorveglianza, per una paga oraria di circa $9,60 – di cui solo 60 centesimi restano al carcerato-lavoratore, mentre il resto va incamerato dall’istituto, che deciderà se devolverlo per il pagamento dei danni prodotti dal reato in cui è incorso il singolo o se versarlo su un fondo da gestire in prima persona e da girare al singolo al momento della... messa in libertà (insomma, una sorta di TFR, visto che di galera capitalistica in ogni caso si parla).

Ma vediamo più nel dettaglio le singole questioni.

Necessità del capitale e flussi immigratori

I dati forniti ci dicono che la percentuale di manodopera immigrata in rapporto alla manodopera totale negli USA è cresciuto dal 5% del 1970 al 6% circa del 1980, all’8% circa del 1990, al 12% circa del 2000, al 14% circa del 2004 (nella sola California, lo stato che attualmente assorbe il maggior numero di immigrati, si è passati dal 10% del 1970 al 32% di oggi).

La storia del capitalismo statunitense è per molti versi la storia di un succedersi incessante di flussi immigratori. Senza voler qui fare una storia dell’immigrazione negli USA e limitandoci comunque all’800 (il secolo in cui la potenza economica statunitense finisce per emergere come la principale, dopo aver completato, con la Guerra civile del 1861-64, il processo di sistemazione nazionale all’insegna dell’unico modo di produzione capitalistico e dunque aver creato un vero mercato nazionale), si hanno prima le ondate immigratorie degli anni ’40 e ’50 (manodopera tedesca e irlandese: la prima per lo più specializzata o semi-specializzata, la seconda non-specializzata, letteralmente affamata e pronta ad assumersi ogni carico di lavoro a qualunque paga, oggetto di un razzismo aperto della classe dominante e delle crescenti mezze classi), che vanno ad aggiungersi, sul mercato del lavoro, alla manodopera “indigena”, costituita da inglesi e scozzesi e americani di più lunga data. Si creano già, all’interno della classe operaia statunitense, le prime divisioni, abilmente create e sfruttate dalla classe dominante, per indebolire il potenziale fronte di lotta. Negli stessi decenni, sulla costa americana del Pacifico, giungono grossi contingenti di cinesi in fuga dai dissesti provocati dalla penetrazione capitalistica in Asia: andranno a lavorare nelle miniere di oro e argento e nei cantieri per la costruzione delle prime linee ferroviarie intercontinentali e, una volta esaurite queste due fonti di lavoro (e fatti oggetto di una mobilitazione anti-straniero che culminerà in veri e propri pogrom), andranno a costituire le Chinatown delle principali metropoli del paese.

A metà ‘800, prima la guerra contro il Messico per il controllo degli ampi territori del sud-ovest e, successivamente, la Guerra civile completeranno appunto il processo di sistemazione nazionale statunitense: fra le molte conseguenze, ciò vuol dire assicurarsi un enorme serbatoio di manodopera a buon mercato costituito dalle popolazioni di origine maya e azteca del sud-ovest e dagli ex-schiavi neri, “liberi” di mettersi sul mercato del lavoro. In entrambi i casi, leggi segregazioniste e consuetudini invalse, scritte e non, contribuiranno a fare di entrambi questi settori una casta ultra-sfruttata e ultra-oppressa.

Nella seconda metà dell’800, infine, giunge la grande ondata migratoria, soprattutto dall’Europa meridionale e orientale – italiani, spagnoli, greci, russi, polacchi, ucraini, un altro, enorme contingente di manodopera a buonissimo mercato, pronta a sobbarcarsi i lavori più duri e peggio pagati pur di sopravvivere e non dover tornare indietro. I trent’anni a cavallo dei due secoli vedono un afflusso continuo, che si concentrerà soprattutto nelle grandi metropoli e sarà all’origine di acute tensioni sociali, ma anche di grandi lotte operaie.

Se dunque, fra 1820 e 1870, giungono negli Stati Uniti all’incirca 7,5 milioni di immigrati, nei 50 anni successivi ne giungeranno circa 26 milioni, con un picco di 8,8 milioni nel decennio 1901-1910 [2] – cifre che basterebbero da sole a spiegare il rapidissimo decollo dell’imperialismo statunitense, il suo intervento nella Prima guerra mondiale e la sua uscita da essa come principale potenza mondiale e stato creditore.

Quello che c’interessa sottolineare è come fin dagli anni ’40 dell’800, ma poi soprattutto nei quattro decenni fra ‘800 e ‘900, la politica del capitalismo americano sia sempre stata all’insegna del divide et impera – approfittare delle divisioni etniche e nazionali della classe operaia in formazione (e il più delle volte alimentarle di proposito) per indebolire il fronte di classe, suscitare antagonismi e odi interetnici, e al contempo spingere in direzione di un’assimilazione dei proletari immigrati in senso fortemente nazionalista, patriottico [3]. Fin dagli inizi, la pratica è stata quella delle “sostituzioni etniche”, come pudicamente i sociologi chiamano il mettere i proletari immigrati e indigeni gli uni contro gli altri. Alcuni casi sono emblematici e aiutano a capire quanto si sta verificando anche oggi, con il tira-e-molla in corso per quanto riguarda la “legge sull’immigrazione”.

Nel 1882, viene promulgato il Chinese Exclusion Act, che vieta l’ulteriore ingresso di immigrati cinesi, una legge apertamente classista (l’ingresso è concesso solo al personale diplomatico e alle loro famiglie, ai mercanti e alle loro famiglie, ai pochi studenti). La legge resterà in vigore fino al 1943, quando verrà abrogata per permettere l’ingresso delle “spose di guerra” (donne sposate in Estremo oriente da militari americani di origine asiatica, durante il conflitto). Tralasciamo per il momento i risvolti relativi alle conseguenze materiali e psicologiche di questa legge, responsabile della nascita nelle Chinatown statunitensi della cosiddetta “società degli scapoli”, uomini che non potevano più farsi raggiungere dal resto della famiglia. Quello che è interessante sottolineare è che questa legge restrittiva anti-cinese si accompagna, negli stessi anni, a una sorta di non scritta, ma pienamente operante, “porta aperta” nei confronti di altri asiatici, come i filippini (le Filippine vengono sottomesse alla potenza imperialista statunitense nel 1898, insieme ad Hawaii, Guam e Portorico, e rimangono una sorta di “camera di compensazione” dell’immigrazione asiatica nel Nord America), mentre resta sempre aperta la porta dell’immigrazione dal Messico.

Infatti, mentre nel 1924 la legge nota come National Origins Act chiude praticamente i rubinetti dell’immigrazione dall’Europa, i rubinetti sono sempre aperti per quella dal Pacifico (e in particolare dalle Filippine, che fino al 1934 sono territorio americano) e dal Messico (la cui frontiera con gli Stati Uniti si sviluppa su un’estensione tale da rendere quasi impossibile – anche oggi – una sua vera chiusura). Insieme ai neri e ai portoricani, i filippini e i messico-americani (i cosiddetti chicanos) [4] formeranno da allora uno dei settori più sfruttati, più oppressi e perseguitati del proletariato americano.

Quanto sia ipocrita da parte borghese ogni discorso di “controllo dell’immigrazione” è dimostrato proprio dal caso portoricano. Portorico viene assoggettata dagli Stati Uniti nel 1898, diventando non uno degli Stati Uniti, ma un “membro del commonwealth” – un rapporto molto ambiguo, che permette al capitale USA di sfruttare l’isola come un pratico e vicino serbatoio di manodopera, con l’elasticità resa necessaria dalle diverse fasi del ciclo economico. Un primo flusso inizia nel 1917 (data in cui viene concessa ai portoricani la cittadinanza americana, escludendoli così dalla condizione di “stranieri” soggetti a eventuali leggi restrittive), culmina negli anni ’30, riprende con forza negli anni intorno alla seconda guerra mondiale (quando è necessario “riempire i buchi” dei soldati sui fronti) e soprattutto negli anni ’50 (gli anni del boom), quando l’“Operation Bootstrap” (in pratica, l’industrializzazione forzata dell’isola) riversa su suolo nord-americano migliaia di piccoli contadini immiseriti, pronti a trasformarsi in proletari e sottoproletari nelle grandi metropoli, ma anche a far ritorno nell’isola quando le leggi del ciclo economico lo impongano.

Qualcosa di simile succedeva intanto con i messico-americani: tra il 1942 e il 1964, il “Bracero (=bracciante) Program” introduce praticamente a forza, negli Stati del sud-ovest, più di cinque milioni di chicanos, impiegati come stagionali nell’agricoltura, in condizioni di vita e lavoro impressionanti (furono molti i casi in cui i lavoratori dovettero sborsare un affitto per gli alberi sotto cui dormire nei campi!); ma nel 1954, l’“Operation Wetback” (wetback=schiena bagnata, termine con cui vengono indicati i clandestini che traversano il Rio Grande per entrare negli Stati Uniti) ne riporta indietro a forza un milione, dichiarato “clandestino” (fra cui – risulterà in  seguito – non pochi cittadini americani a tutti gli effetti). Infine, negli ultimi anni, l’“Operation Gatekeeper” vorrebbe “regolare” il flusso degli immigrati clandestini con la costruzione di un muro d’acciaio e l’istituzione di “pattuglie di frontiera” – “regolare”, ma non troppo... perché, come si è visto, il loro ruolo è pur sempre fondamentale per l’andamento dell’economia americana.

Nel Libro Primo del Capitale (Cap.XXIII: La legge generale dell’accumulazione capitalistica), Marx scrive:

“Ma, se una sovrapopolazione operaia è il prodotto necessario dell’accumulazione o dello sviluppo della ricchezza su base capitalistica, questa sovrapopolazione diventa inversamente la leva dell’accumulazione capitalistica, anzi una delle condizioni di esistenza del modo di produzione capitalistico. Essa forma un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale in maniera assoluta come se fosse stato allevato a sue spese; crea per le sue mutevoli esigenze di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto indipendentemente dai limiti del reale incremento demografico” [5].

Dunque, necessità della sovrapopolazione operaia (per tener bassi i salari, per esercitare un ricatto costante sul resto della classe, per coprire subito i buchi eventualmente formatisi nel mercato del lavoro, per iper-sfruttare una forza-lavoro che accetta qualunque cosa pur di sopravvivere) e controllo della stessa attraverso “leggi anti-immigrati” (leggi che vengono presentate come parte integrante di un progetto di “pace sociale”, ma che in realtà servono solo a esercitare un’ulteriore pressione sugli immigrati e soprattutto sul settore più vulnerabile, quello dei clandestini) non sono una contraddizione, ma una legge dell’accumulazione – parte integrante della brutalità di funzionamento del modo di produzione capitalistico.

Carceri e business capitalistico

Veniamo ora all’altro aspetto, quello della trasformazione della popolazione carceraria americana in un ulteriore settore di manodopera sottopagata. Anche questa, in verità, non è certo una novità, e gli esempi non mancano, soprattutto negli Stati Uniti. A partire soprattutto dalla seconda metà dell’800, le lunghe file di carcerati alla catena impegnati a costruire strade e ferrovie, scavare fossati, rinforzare argini, oppure raccogliere cotone e tabacco, sorvegliati da poliziotti armati a cavallo, sono state una scena familiare, radicata anche nella cultura popolare, per esempio dei “canti di lavoro” (“Prendi questo martello, portalo al capitano, digli che me ne sono andato...”). In occasione delle grandi piene del Mississippi come di altri fiumi, nei primi decenni del ‘900, l’uso di manodopera carceraria per far fronte alle emergenze fu comune, e comune fu l’uso di carcerati durante il New Deal per costruire strade negli Stati del sud. D’altra parte, il rapporto fra carcere e società borghese fu sempre molto stretto: basti pensare a quella che Marx, sempre nel Libro Primo del Capitale (Cap.XXIV: La cosiddetta accumulazione originaria), chiamava “legislazione sanguinaria contro gli espropriati” e che si sviluppò in Europa fin dal ‘500 culminando nelle inglesi “leggi contro il vagabondaggio”:

“Che gli uomini cacciati dal suolo con lo scioglimento dei seguiti feudali e un’espropriazione violenta a sbalzi, questo proletariato senza terra o dimora, fossero assorbiti dalla nascente manifattura con la stessa rapidità con la quale venivano al mondo, era impossibile. D’altra parte, gli uomini improvvisamente scardinati dall’orbita consuetudinaria della loro vita non potevano adattarsi con altrettanta prontezza alla disciplina della nuova condizione; si trasformarono in massa in mendicanti, in predoni, in vagabondi, sia per inclinazione, sia, nella maggior parte dei casi, sotto la pressione delle circostanze. Di qui, alla fine del secolo XV e per tutto il secolo XVI, in tutta l’Europa occidentale, una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I padre dell’attuale classe operaia vennero in un primo tempo castigati per la conversione loro imposta in vagabondi e paupers. La legislazione li trattò come delinquenti ‘volontari’ e presuppose che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare o meno a lavorare nelle antiche e non più esistenti condizioni di vita” [6].

Quando poi, con il passare del tempo, il problema non fu più solo quello dell’adattarsi a nuovissime condizioni di vita, quando cioè, a partire dai primi dell’800, il modo di produzione capitalistico fu pienamente dispiegato nell’Europa occidentale, non bisogna dimenticare che il vagabondo, il senza-lavoro, la vedova senza sostegno, il bambino orfano, avevano come unica realistica prospettiva quella di vedersi acciuffare e confinare nella workhouse – la “casa di lavoro” che ancora Marx caratterizzerà come il “bagno penale della miseria” [7], autentici incubi per il proletariato e sottoproletariato inglese, resi familiari dai romanzi di Dickens.

Dunque, fin dagli inizi, il carcere (nelle sue varie forme e accezioni) si configura anche come strumento-chiave dello sfruttamento capitalistico: serve a convogliare verso lo sfruttamento capitalistico masse ingenti di popolazione dislocata dai rapidi e violenti processi di trasformazione al momento del trapasso da feudalesimo a capitalismo, e al tempo stesso “abilita” allo sfruttamento capitalistico anche chi si trova, più o meno momentaneamente, ai margini della società. Una società che, dalla nascita, ha dunque nel carcere (nel “bagno penale”) la propria più efficace metafora.

In tempi moderni, e con buona pace di tutte le anime belle riformatrici, questa caratterizzazione del carcere si è fatta ancor più esplicita, soprattutto negli Stati Uniti che, essendo il paese capitalisticamente più “avanzato”, detta legge al mondo intero. Non solo dunque il carcere come pura repressione, come tentativo di totale eliminazione dalla società di comportamenti definiti (con enorme ipocrisia) “asociali”: ma anche, all’opposto, il carcere come struttura profondamente integrata alla società capitalistica, al modo di produzione capitalistico, al punto di offrire a esso un ulteriore “dono” di manodopera ultra-sfruttata e ultra-ricattabile – quella carcerata. A questo punto, par di sentire il clamore scandalizzato delle anime belle: “Ma come! Si tratta invece di nobilitare la condizione di carcerato attraverso il lavoro!”. Già, Arbeit Macht Frei, come si leggeva all’ingresso di certi lager nazisti: “Il lavoro rende liberi”. Come volevasi dimostrare: la lagerizzazione della società capitalistica ha fatto passi da gigante.

Ma torniamo agli Stati Uniti e al lavoro (produttivo!) dei carcerati.

Secondo il più recente rapporto del Dipartimento di Giustizia [8], la popolazione carceraria USA ammontava al 30 giugno 2006 a 2.245.189 persone, con un aumento del 2,8% rispetto all’anno precedente: per due terzi, in prigioni federali e per un terzo in prigioni locali. Se poi di questa popolazione carceraria si prende la fascia d’età compresa fra i 18 e i 39 anni, e la si scompone per “appartenenza etnica” e origine, si ha il seguente quadro:

-          Neri: 11,6% (nati negli S.U.), 2,5% (nati all’estero)

-          Ispanici o Latinos: 6,7% (nati negli S.U.), 1,0% (nati all’estero)

-          Asiatici: 1,9% (nati negli S.U.), 0,3% (nati all’estero)

-          Bianchi: 1,7% (nati negli S.U.), 0,6% (nati all’estero)

I dati [9] confermano quanto si può facilmente immaginare: la situazione nel carcere ripropone, specularmente, la condizione di oppressione e discriminazione vissuta da ampi strati di popolazione americana “in libertà”. Il che vuol dire anche che buona parte di quel 20% abbondante di neri e ispanici (centro-americani, latinoamericani, ecc.) appartiene al proletariato e sottoproletariato statunitense. Nasce da qui una prima considerazione da tener presente. Non intendiamo ora analizzare la recente legislazione americana con le sue norme sempre più repressive (il “three strikes and you’re out” e altre delizie del genere), né entriamo nel merito più specifico della presenza nelle carceri USA di un largo numero di individui incarcerati per motivi politici. Risulta però immediatamente chiaro che la repressione e il carcere vengono usati non solo a fine di immediata “pacificazione sociale”, ma anche per creare ulteriori divisioni in seno al proletariato.

Quanto al lavoro in carcere, si tratta di una realtà ormai diffusa, e da tempo. Per esempio, secondo il rapporto del Department of Corrections della Florida, relativo all’anno fiscale 2003-2004, le cosiddette Community Work Squads (“squadre di lavoro per la comunità”!) hanno prodotto nel corso dell’anno qualcosa come 6,5 milioni di ore lavorative, per il valore totale di circa 68 milioni di dollari, che si trasformano, al netto delle spese, in 38,5 milioni di dollari di “valore aggiunto” (l’espressione, usata dal rapporto, è la stessa di qualunque bilancio aziendale). I “beneficiari” di tutto questo “plus-lavoro carcerario” sono il Dipartimento dei Trasporti, il settore dei Lavori Pubblici, e altri “Lavori a Contratto” esterni [10].

Si tratta di una realtà comune a buona parte della rete degli istituti di pena statunitensi (ma, sappiamo bene, non solo). L’elenco dei “beneficiari” di tutto questo “plus-lavoro carcerario” va ben al di là di agenzie governative, dipartimenti dei trasporti, lavori pubblici, e comprende la crema delle ditte USA e non, come IBM, Boeing, Motorola, Microsoft, AT&T, Dell, Compaq, Honeywell, HP, TWA, Revlon, Macy’s, Pierre Cardin, e via di seguito. In certi casi, dopo aver de-localizzato la propria produzione da centri industriali troppo onerosi, spostandola nelle orribili maquiladoras lungo il confine con il Messico, alcune compagnie hanno finito per ri-appaltarla ad alcuni carceri, come la famigerata San Quentin Prison in California. C’è poi il fenomeno crescente delle “prigioni private”, che, attraverso alcune corporazioni (la Corrections Corporation of America, il Geo Group, Inc., le Cornell Companies), ricevono un sussidio per ogni singolo carcerato, e per il resto devono comportarsi come una qualunque azienda: devono cioè avere i conti in ordine, con tutto quel che ne consegue [11].

E tanto basti, per il momento.

***

Noi non proviamo alcuna romantica fascinazione per l’immigrato in quanto tale, né ci balocchiamo con le mistificazioni reazionarie del “politicamente corretto” (per cui l’appartenenza etnica o nazionale, le tradizioni sociali e culturali d’origine, avrebbero un valore in sé e andrebbero salvaguardate, nel vortice della “globalizzazione”). Come, per Marx, “il proletariato o è rivoluzionario o non è nulla”, così l’immigrato o arriva a sentirsi parte del proletariato in lotta o non è nulla – anzi, è soggetto alle peggiori infatuazioni scioviniste: che poi vengano dal suo passato o dal suo presente, poco importa. Allo stesso modo, quanto al “lavoro carcerario”, c’è sì in esso un aspetto “positivo”, ma non nel senso che vorrebbero le anime belle (riabilitazione, reinserimento, rispetto di sé, e tutte le altre balle riformiste che accompagnano la realtà del carcere da quando esso è diventato una delle istituzioni-chiave del modo di produzione capitalistico). E risiede, di nuovo, nella potenzialità (sottolineiamo: potenzialità) di far sentire al carcerato che produce “plus-lavoro” la propria appartenenza alle schiere degli sfruttati, dentro e fuori il carcere: il proprio essere proletario, in quell’enorme galera che è il capitalismo.

Ma perché tutto ciò si decanti davvero e si concretizzi in un vero fronte proletario, sono necessarie due pre-condizioni: che la lotta di classe torni a divampare cementando insieme settori diversi del proletariato mondiale e facendo loro superare, attraverso fasi sicuramente drammatiche, le divisioni imposte dal capitale, e che torni a radicarsi a livello internazionale il partito rivoluzionario.



[1] Cfr. La Repubblica del 21/7/2007.

[2] Dati tratti da Annamaria Martellone, a cura di, La “questione” dell’immigrazione negli Stati Uniti, Il Mulino, 1980, p.79.

[3] Nelle numerose manifestazioni del Primo Maggio 2007, promosse da alcune organizzazioni di immigrati (soprattutto dall’America Centrale e Meridionale), lo slogan dominante, accompagnato da sventolio di bandierine a stelle e strisce, era “Anch’io sono America”.

[4]

[5] K. Marx, Il capitale, Libro Primo, UTET, 1974, p.805.

[6] Idem, p.920.

[7] Idem, p.831

[8] Bureau of Justice Statistics, “Largest Increase in Prison and Jail Inmate Populations Since Midyear 2000”, Department of Justice (Office of Justice Programs), June 27, 2007 (www.ojp.usdoj.gov/bjs)

[9] Sempre La Repubblica del 21/7/2007.

[10] Bureau of Institutional Support Services, “Community Work Squads – Earnings and Value Added/Cost Savings Report”, Florida Department of Corrections, October 27, 2004 (www.dc.state.fl.us/pub/worksqds/03-04/index.html).

[11] Nel corso del 2005, il 7% della popolazione carceraria americana si trovava in prigioni private, con un aumento rispetto al 2000 del 74,2% (Office of Justice Programs, “Prisoners in 2005”, Bureau of Justice Statistics Bulletin, Nov.2006, p.5.

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2007)

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