Com’è noto, il 30 giugno p. v. i lavoratori italiani consegneranno compilato, alle proprie aziende, il modulo ministeriale nel quale avranno indicato la destinazione scelta per il proprio TFR. Se il modulo non verrà consegnato, la mancata scelta del lavoratore sarà sostituita, attraverso il meccanismo del silenzio-assenso, dalla decisione dello Stato: il TFR verrà prelevato dall’azienda e depositato nei Fondi pensione di categoria o in quello generico, istituito presso l’INPS.

 

Apparentemente, i lavoratori hanno reagito a quest’ennesimo attacco della borghesia non aderendo ai Fondi: dalle proiezioni a tutto maggio, risulterebbe infatti che solo una parte minoritaria dei lavoratori li ha sottoscritti. Ma, a mischiare le carte dopo il 30 giugno, scenderanno in campo le conseguenze dell’infame “silenzio-assenso”.

 

Non ci dilungheremo qui sugli aspetti tecnico-normativi. Inquadreremo invece il problema dal punto di vista dello scontro tra le classi per evidenziarne la dinamica, mostrando come i proletari si ritrovino oggi soli nel subire le bordate sparate dalla borghesia. Al di là del problema contingente, indicheremo la strada che il proletariato dovrà compiere per difendere oggi le proprie condizioni di vita e di lavoro e contemporaneamente porre le premesse per minare alla base il sistema economico capitalista.

I quattro pilastri dell’attacco borghese

La riforma del TFR è solo una delle espressioni dell’attacco portato dalla classe dominante al proletariato, sull’arco degli ultimi trent’anni segnati da una nuova profonda crisi economica. L’attacco s’è sviluppato su più livelli, ma l’obiettivo unico è rappresentato dalle condizioni generali di vita del proletariato. In particolare nell’ultimo quindicennio, la classe dominante s’è mossa abilmente: infatti, grazie anche all’attivo supporto dei sindacati tricolore, la considerevole diminuzione del potere d’acquisto reale dei lavoratori non è mai stata contrastata da un vero conflitto sociale. Il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro è un processo ineluttabile, se non viene contrastato da una forza proletaria che riprenda in mano i propri metodi e obiettivi classici. Il prossimo futuro lo dirà con sempre maggiore e drammatica chiarezza. Ma vediamo ora come si è sviluppato quest’attacco, rimandando a un successivo articolo le considerazioni più generali.

 

 

Precarizzazione

La prima dura battaglia il proletario l’affronta oggi quando tenta di entrare nel mondo del lavoro. Leggi come la Bassanini, la Biagi e altre ancora, accompagnate da regole e da contratti nazionali sempre più proni alle necessità borghesi, hanno dato origine a un vero e proprio purgatorio, in cui si aggira ogni giovane lavoratore che cerchi d’inserirsi nel mondo del lavoro. In questa fase, il lavoratore è soggetto sia a un regime salariale da fame sia a una condizione lavorativa ambientale fortemente compromessa sul versante di quelli che i borghesi chiamano i “diritti minimi”. La classe dominante, il padronato, lo Stato ottengono così un doppio risultato: pagare salari notevolmente inferiori alla media (e vedremo come questo si ripercuote anche sulle future pensioni) ed educare le “nuove” generazioni di lavoratori al massimo servilismo nei confronti del sistema-azienda, propagandato e imposto come onnipotente.

Euro

In un nostro articolo degli anni ‘50 [1], scrivevamo che gli “Stati Uniti di Europa” non sarebbero mai nati, se non come espressione della doppia esigenza rappresentata dagli interessi imperialisti tedeschi e dalla necessità di attaccare a fondo la classe proletaria europea. Questa seconda previsione, l’attacco alla classe, trova oggi pienamente riscontro in ciò che è accaduto con l’introduzione dell’euro. Per quanto gli istituti statistici ufficiali di tutta Europa continuino a celare la reale inflazione causata dall’introduzione dell’euro, ogni proletario può oggi verificarne la crescita anche solo aprendo il proprio portafogli. La borghesia raccoglie così, di nuovo, un duplice successo: da un lato, impoverisce notevolmente le condizioni di vita dei lavoratori tutti, consegnando nelle loro mani una moneta inflazionata; dall’altro, impone ai proletari misure e condizioni che, mascherate come sono dietro a un processo apparentemente molto lontano dalla quotidianità, come l’“unione monetaria europea”, rendono molto difficile ogni anche piccola reazione proletaria, mantenendo così, per ora, la pace sociale.

Pensioni

Non basta. Fin dall’ormai lontano 1992, e con una feroce determinazione indipendente da ogni successivo schieramento governativo, la classe dominante ha perseguito la “riforma delle pensioni” (in parole semplici, lo smantellamento delle pensioni pubbliche). In esse si nasconde infatti un’enorme fetta di potenziali profitti, strappati negli anni precedenti dalle lotte proletarie o concessi in funzione della sostenibilità e della pace sociale del sistema capitalistico (il romantico Welfare State). A tutto ciò si mette la parola “Fine!” e si riduce nei fatti la pensione “garantita” a un misero 40% dell’ultimo salario. Il sistema in futuro non restituirà più una pensione previdenziale, ovvero calcolata sugli ultimi stipendi (quindi svincolata dal reale importo contributivo versato dal lavoratore). Dal 1993, con l’introduzione del sistema contributivo, al lavoratore verrà restituita solamente la somma realmente versata lungo tutto l’arco di tempo in cui lavorerà, più un interesse legale.

Pensiamo ora alle implicazioni che questo meccanismo ha in rapporto con la precarietà giovanile esaminata in precedenza: calcoli realistici hanno già evidenziato che quel 40% “garantito” è solo apparenza, perché la cifra si abbasserà ulteriormente in funzione degli anni di precarietà e/o praticantato. Anche in quest’ultimo caso la borghesia porta a casa il suo bottino senza colpo ferire: si appropria di una quota di reddito dei lavoratori, ma trattandosi di un reddito futuro non provoca frontalmente il proletariato.

L’attacco alle pensioni ha anche un altro versante, rappresentato dal tentativo della classe dominante di allungare quanto più possibile la vita lavorativa, spostando così la pensione per vecchiaia sempre più in avanti nel tempo.[2] La borghesia (italiana e internazionale, perché si tratta di misure che il capitale impone ovunque) chiede insomma al proletariato di morire possibilmente nelle sudice fabbriche o tra i freddi banconi di un ipermercato, in modo da sciogliere ogni residuo problema relativo alle pensioni.

Il TFR

Quale sarebbe dunque la soluzione proposta per far fronte alle prossime pensioni da fame? Semplice e lineare: giocare in borsa una parte del proprio reddito, perché ciò garantirebbe una fonte di rendita integrativa da sommare alla pensione erogata dall’INPS. Questa trovata, già applicata da molte borghesie mondiali, ha significative implicazioni: in primo luogo, garantisce alla classe dominante nazionale e ai suoi scagnozzi sindacali la gestione di un’enorme liquidità, che non può non far gola in una fase storica in cui il processo di autovalorizzazione del capitale è sempre più asfittico; in secondo luogo, la possibilità di scelta per aderire o meno alla gestione finanziaria del proprio TFR è solo apparente e momentanea. Presto vi sarà infatti lo scippo del TFS degli statali e, se poi l’adesione volontaria dei lavoratori ai fondi non sarà quella auspicata, la “libera scelta” smetterà d’essere tale e l’adesione ai fondi diventerà obbligo di legge [3].

Risultato? La borghesia, ed in particolare la borghesia finanziaria, già enormemente accentratrice di capitali, potrà gestire una liquidità pari a 19,21 miliardi di euro l’anno, liquidità che aumenterà quando a essere coinvolti saranno tutti i lavoratori: una ricchezza pari a due finanziarie per ogni anno.

Un ultimo, ma non secondario, risultato è poi l’ulteriore parcellizzazione della classe operaia che, già suddivisa in cento categorie e livelli, si vedrà da oggi ulteriormente divisa anche nel futuro pensionistico che ad ognuno verrà assegnato: infatti, le pensioni saranno molteplici e, sulla carta, infinite. L’importo finale della pensione individuale dipenderà dalla vita salariale del lavoratore e dai fondi che questi, nel corso di tale vita, avrà sottoscritto. Come uno scorpione, la borghesia inietta un altro po’ di veleno nelle vene operaie per stordirne e fiaccarne la compattezza e la solidarietà.

 

 

Ma gli altri?

Davanti a questa guerra aperta condotta dal capitale nazionale contro le condizioni di vita presente e futura dei proletari, come rispondono tutti coloro che rivendicano a sé la loro tutela?

Iniziamo dai sindacati confederali. Con questa sua ultima sortita, la triade CGIL-CISL-UIL ha definitivamente sancito l’uscita dal campo proletario, portando a termine quel processo di integrazione negli istituti dello stato nazionale borghese iniziato fin dalla fine della seconda guerra mondiale. Possiamo ben dire che (non da oggi soltanto, ma soprattutto da oggi) i sindacati della Triplice sono “amici dei proletari” quanto lo sono i “bravi ragazzi” del 118 o della protezione civile, con un'unica macroscopica differenza: la Triplice media fra i lavoratori e gli interessi del capitale nazionale al solo scopo di gestire una fetta dell’enorme torta rappresentata dall’amministrazione diretta del TFR maturando (non scordiamo che il meccanismo del “silenzio-assenso” è stato fortemente caldeggiato dai sindacati, insieme a tutta la legge).

[4]

Su questo fronte il proletariato è solo

Ora, se possiamo definire nemici i sindacati della Triplice, figuriamoci come possiamo appellare i partiti della “sinistra” seduti sulle poltrone parlamentari, su un arco che va dai cinici sostenitori di posizioni apertamente anti-proletarie fino ai suini che si mascherano da amici degli operai. I primi, DS in testa, sono ormai pienamente integrati nella borghesia: o meglio, sono una frazione della borghesia italiana, fra i principali artefici  di tutte le riforme che si sono susseguite negli ultimi 15 anni e che hanno trasformato radicalmente l’istituto previdenziale. I secondi, i figuri alla “Rifondazione comunista”, hanno fatto in modo di assorbire nel loro ventre molle tutte le sia pur minime reazioni genuine della classe proletaria, illudendola che il mondo presente è in qualche modo riformabile e che pertanto si deve continuare a reggere “il sistema Italia”, ora e per l’eternità. Dei due, i veri infami sono proprio questi ultimi, perché sono i più mimetizzati, i più subdoli. Anche su questo versante, il proletariato è solo.

Esistono poi i sindacati detti “di base”. Per quanto numericamente deboli, questi esprimevano in origine il tentativo di difesa dei settori più combattivi della classe, e oggi, con modalità diverse (perché ognuno tiene al proprio orticello!) e con la costituzione di un fantomatico “Comitato del NO alla riforma del TFR”, hanno tentato un accenno di protesta: solo un accenno, però, anche perché nella realtà la classe operaia non è scesa in piazza e non sarà certo un atto volontaristico a portarcela. I “sindacati di base” hanno infatti subito corretto il tiro e ora stanno cercando di sfruttare, legittimamente ma anche pateticamente, il misero dibattito sul TFR, nel tentativo di crescere numericamente e di aumentare la propria influenza là dove sono poco presenti, nel tessuto del lavoro privato. Il loro limite, che li pone al di fuori del campo della vera difesa degli interessi proletari, è la loro estraneità alla tradizione e alla prassi della lotta di classe: sottoposti continuamente ai richiami nefasti delle baldracche della sinistra parlamentare italiana, essi contribuiscono ad alimentare l’illusione della “riformabilità del sistema capitalistico” – un’illusione di cui sono essi stessi prigionieri, come dimostrano la loro pratica codista, il loro inguaribile corporativismo e il loro muoversi in un eterno circolo vizioso di illusioni e disillusioni.

Anche su questo versante, oggi, i proletari sono dunque soli.

Come reagire dunque?

Come ricordiamo nel volantino distribuito dal nostro Partito in varie occasioni nelle ultime settimane e riprodotto in altra pagina di questo numero del nostro giornale, è evidente che i proletari devono tornare a difendersi, scontando l’handicap gravissimo di quest’abbandono e tradimento da parte di tutte le forze che a parole dovrebbero difenderli. Possono farlo, da un lato perché si tratta davvero di una questione drammaticamente “di vita o di morte”, e dunque saranno necessariamente spinti a una risposta, se non immediata, certo futura; dall’altro, perché risulterà sempre più drammaticamente chiaro che la “questione del TFR” è più in generale la “questione del salario”, e che la “questione del salario” non può essere disgiunta dalla “questione dell’orario”, e che tutte queste “questioni” non riguardano i lavoratori fortunatamente occupati in questa o quella azienda, ma tutti i lavoratori, occupati o meno, giovani o anziani, di ogni sesso od origine nazionale. Insomma, nei fatti, la ripresa della lotta per non soccombere (perché di questo si tratta) riproporrà inevitabilmente la necessità della ricostituzione di un fronte proletario di lotta. Avremo modo di tornarci ancora su.

 

                                                                                                                                                          Partito Comunista Internazionale
                                                                                                                                                            (il programma comunista n°03 - 2007)

 

[1] “United States of Europa”, pubblicato nel 1949 su quella che allora era la nostra rivista teorica, Prometeo

[2] Sembra assurdo che, di fronte a un mercato del lavoro che fatica ad assorbire nuova manodopera, la borghesia cerchi la quadratura del cerchio nell’allungamento della vita lavorativa dei lavoratori. Ma si tratta solo di una contraddizione apparente, come mostreremo nella seconda ed ultima parte di questo articolo, di prossima pubblicazione.

[3] In un’intervista a Radio24, rilasciata a fine maggio, il presidente della COVIP (l’organo di controllo sui fondi pensione) affermava la necessità di rendere obbligatori i fondi, là dove l’adesione volontaria dei lavoratori non fosse stata quella auspicata nella legge. Ai primi di giugno, i media riportavano che l’adesione ai fondi pensione s’aggirava intorno a un 9%.

[4] Il meccanismo del silenzio-assenso farà sì che il TFR finisca o nei fondi di categoria cogestiti dai sindacati firmatari dei contratti nazionali o nel fondo previdenziale speciale dell’INPS cogestito dai sindacati firmatari dei contratti nazionali: giudicate voi!

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