Il drammatico trascinarsi sulla scena del conflitto israelo- palestinese non è che l’ennesima prova dell’impossibilità di trovare soluzione alcuna – nel quadro del sistema attuale – a una sistemazione dell’area che contempli anche una soluzione meno incerta e misera di quella odierna per le migliaia di profughi e proletari palestinesi concentrati in quelle zone, autentica mina vagante per tutte le borghesie mediorientali, arabe ed israeliana. Non potevano costituire un’eccezione le momentanee e compromissorie tregue diplomatiche succedutesi negli anni, da Camp David I agli “accordi” di Oslo e Wye Plantation, a quelli di Camp David II fino agli “inviti verbali” di Sharm el- Sheikh, vera e propria dichiarazione d’impotenza nascosta dietro fumose dichiarazioni verbali delle rispettive cancellerie diplomatiche coordinate dall’interessata mediazione dell’imperialismo americano, o le vicende più recenti (la guerra israelo-libanese, il governo di unità nazionale OLP-Hamas, ecc.).

La definitiva chiusura di ogni residuale “questione nazionale” in Palestina (in cui cioè all’ordine del giorno dello sviluppo storico vi fosse la consegna al proletariato e alle plebi palestinesi di lottare per una propria “patria” accanto alla propria borghesia nazionale) si è manifestata visibilmente, sul teatro di guerra, nel < Amman di Nero>, anche se quello svolto cominciava a delinearsi ormai da molti anni. Ad Amman, in Giordania (nazione fittizia creata dall’imperialismo anglosassone e abitata per due terzi o più da palestinesi che occupano i gradini più bassi della scala sociale e materiale, rispetto alla comunità beduina che controlla gli apparati dello Stato e gode di un alto tenore di vita), il movimento palestinese – pur diretto da frange nazionaliste inconseguenti borghesi e piccolo- borghesi – aveva una forte base di massa e una organizzazione diventata rappresentativa nelle lotte di difesa materiale dallo sfruttamento selvaggio e dalla miseria nera; ma qui l’OLP, anziché indirizzare la lotta delle masse insorte contro il regime di re Hussein, prima si accordò con esso e, dopo l’allontanamento patteggiato dalla città, rese possibile il massacro degli insorti.

“Il tragico destino del Medio Oriente – scrivemmo all’epoca – è di agitarsi senza tregua nel letto che gli hanno tagliato e costruito addosso i cinici, brutali, feroci interessi dell’imperialismo. E’ un mosaico non di nazioni (che non esistono né in dieci formati minori, né, tanto meno, in un solo formato maggiore), ma di Stati gelosi dei loro pidocchiosi interessi, ciascuno cucito nella stessa tela che, di volta in volta, questa o quella grande potenza ha sforbiciato contendendo all’altra i pozzi di petrolio e i campi di cotone, ciascuno farneticante un’indipendenza negata dalla propria reale dipendenza dal mercato mondiale o dalle forniture d’armi di potenze mondiali, ciascuno ebbro di orgoglio e servilmente prono come squallida pedina al padrone di turno, ciascuno retto o da una pseudo-borghesia avida e succhiona, o da un relitto carico di oro di millenni neppure feudali, ma tribali; tutti al servizio di interessi grandi come il pianeta, e di potenti ancora più cinici dei loro reggitori; nessuno annunziatore di un nuovo modo di produzione, meno che mai di un nuovo ordine sociale”1.

***

Non possiamo qui soffermarci sul processo di costituzione degli Stati nel Medio Oriente, zona nevralgica che fa da cerniera a tre continenti, che ha avuto inizio con il crollo dell’Impero ottomano ed è stata ridisegnata dai maggiori imperialismi a partire dalla fine del I° conflitto mondiale, sulla base delle loro ragioni di rapina imperialistica e di conquista e controllo di nuovi mercati e di fonti di materie prime strategiche. Si tratta di un processo che la conclusione della II° guerra mondiale ha accentuato, pur in presenza dei moti di liberazione nazionale che cominciavano a svilupparsi, con la nascita dello stato d’Israele nel 1948. Con Israele sorgeva il pivot del dispositivo di controllo americano nell’area e, come la sua costituzione sancì la sostituzione del dominio dell’imperialismo americano alla declinante potenza inglese, così il suo progressivo allargamento territoriale rappresentò negli anni la crescita di quel dominio a spese di concorrenti vecchi e nuovi – cui non rimaneva altro che blaterare pietosamente dietro la foglia di fico di risoluzioni Onu dal valore di uno zero assoluto. In attesa di ritornare sull’argomento, rimandiamo all’ampio lavoro di Partito apparso sui nn.12 e 13/1965 de Il programma comunista, intitolato “La solita babele del Medio Oriente”: già allora potevamo sottolineare l’impotenza cronica e le inconseguenze delle borghesie ex-coloniali, al di là delle dichiarazioni ufficiali di “reciproca fratellanza” e dei progetti di “panarabismo” dall’alto o dal basso.
“Grazie all’intervento combinato dei due massimi vincitori della seconda carneficina mondiale – scrivevamo nel primo dei due articoli – la rivoluzione anticoloniale del Medio Oriente, come del resto altrove, ha registrato effetti rivoluzionari inferiori a quelli che sarebbero stati auspicabili per ragioni storiche generali e per lo sviluppo stesso dei paesi interessati. Una rivoluzione borghese ‘fino in fondo’, all’epoca dell’imperialismo, è ancor più irrealizzabile che in passato se i nuovi poteri subentrati ai vecchi non nascono sull’onda di grandiosi movimenti di masse sfruttate e non poggiano sulla forza armata delle stesse. Nei paesi mediorientali molte mo
narchie feudali si sono quindi trasformate senza grandi scosse in monarchie borghesi e continuano a governare sotto nuove spoglie. Ma anche là dove la monarchia è stata sostituita dalla repubblica, l’avvenimento è piuttosto da considerare il frutto di rivolte militari ristrette che di movimenti politici di massa”2. Dunque, in Medio Oriente, non si ebbe innanzitutto alcuna rivoluzione borghese radicale e profonda: i “legami coi centri dell’imperialismo mondiale privano la borghesia locale di ogni autonomia e la sua politica di ‘non allineamento’ [il riferimento è alla politica pseudo-socialista di Nasser. NdR] significa solo che essa può oscillare ora da un lato e ora dall’altro alla mercè del bipolarismo est-ovest”3.

***

Il periodo 1967-1970 può essere ritenuto il periodo cruciale in cui scoppiano tutti i bubboni accumulatisi in precedenza e i nodi irrisolti richiedono ancora una volta il teatro di guerra per il loro scioglimento: “Quale indipendenza e quale pace possono sperare [scrivevamo all’epoca della “guerra dei sei giorni”, sottolineando come la posta in gioco fosse rappresentata dagli interessi e dalle posizioni di forza nazionali e internazionali dell’imperialismo] dei paesi attraverso i quali corrono gli oleodotti che pompano il sangue nelle arterie della pirateria capitalistica mondiale e i cui reggenti – borghesi arrivati, nuovi ricchi o signorotti semi-feudali – hanno tutto l’interesse a vendersi a chi detiene le chiavi dei forzieri in tutto il globo, rubando al vicino, magari fratello di razza, quello che i loro finanziatori e padroni agitano davanti ai loro occhi di insaziabili sciacalli?”4. Fin dall’immediato secondo dopoguerra, la diplomazia americana, sorretta dal proprio pletorico apparato militare e informativo, fu attivissima nel promuovere iniziative tese a consolidare ulteriormente l’influenza acquisita in un’area il cui ruolo nella contesa interimperialistica andava assumendo importanza sempre più rilevante.

“Ai gangsters del dollaro – scrivevamo nel 1958 – preme soprattutto impedire la formazione del grande Stato unitario che è nelle aspirazioni del movimento pan-arabista e quindi salvare le alleanze militari che sono il maggior ostacolo alla unificazione dei popoli del Medio Oriente […] I paesi arabi si trovano attualmente nelle condizioni in cui si trovava l’Italia risorgimentale. Uno stesso popolo parlante la medesima lingua, professante gli stessi usi e costumi , avente alle spalle un’evoluzione storica indivisibile è spezzettato in una dozzina di Stati […] La rivendicazione della unificazione statale, riunificazione che fu in altri tempi la bandiera dei Garibaldi, dei Kossuth, e dei Bolivar, la soppressione dello spezzettamento politico e del separatismo, è una rivendicazione non comunista, non proletaria, ma nazionale e democratica.

Sta interamente dentro la rivoluzione democratica nazionale borghese. Al proletariato cosciente non interessa la formazione dello Stato nazionale in se stessa, ma il contenuto di trasformazioni sociali che il trapasso comporta. Gli interessano lo sbocco dialettico dei ‘potenti fattori economici’ che Lenin vedeva costretti ed immobilizzati dalle anacronistiche strutture politiche che si perpetuano nei paesi semifeudali ed arretrati”5.

Solo un conseguente movimento nazional-rivoluzionario armato poteva dunque rompere la tela che il gioco degli accordi e dei contrasti interimperialistici andava tessendo e solo questo avrebbe giustificato un appoggio delle masse proletarie, in funzione non certo della sistemazione nazionale ma dello sviluppo storico dell’intero movimento proletario su scala internazionale.
Quando la soluzione passa dalla forza delle armi a quella del diritto e delle democratiche conferenze (in cui i patteggiamenti diplomatici si costruiscono sul tavolo da disegno e col bilancino della contabilità del brigante più forte), il rinculo di tali movimenti è inevitabile e ogni soluzione che sorge su queste basi diventa reazionaria.

“Come avevamo facilmente previsto – potevamo scrivere qualche mese dopo – la questione del Medio Oriente, trasferita sul piano delle trattative diplomatiche, ha trovato il suo epilogo nella più cinica e risibile pastetta. Pastetta tra i giovani Stati arabi soprattutto. Preoccupate di perdere acquirenti (il che vale in particolare per i produttori di materie prime d’importanza mondiale, come l’Irak, la Tunisia, il Marocco e via discorrendo), divise da contrasti di interesse e di tradizioni storiche, ansiose di non perdere il controllo di masse scatenate e malfide, pronte ad inchinarsi al primo banchiere ‘caritatevolmente’ disposto a fornire ossigeno in denaro sonante (il che vale per tutti), le giovani ed avide borghesie giuranti sul Corano hanno messo da parte il loro ‘anticolonialismo’ di maniera barattando il ritiro dei ‘soldati stranieri’ contro  l’ingresso trionfale di quattrini non meno stranieri: facendo propri – esse che si pretendono portatrici della guerra santa rivoluzionaria – i principi della ‘non interferenza’, del ‘rispetto reciproco, dell’integrità e sovranità nazionale’, insomma della difesa di uno status quo che è pure l’espressione ed il prodotto del dominio imperialistico, il rovescio della vantata aspirazione ad uno Stato arabo unitario esteso dall’Asia occidentale a tutta l’Africa del nord”6.

In questo contesto, in cui gli interessi economici e politici dei paesi imperialisti si sviluppano in una dinamica tendente con forza sempre maggiore a fagocitare gli interessi delle giovani borghesie nazionali mediorientali attirandole nei rispettivi campi d’influenza e schierandole tutte insieme a difendere le esigenze del capitalismo mondiale dalla pressione delle masse diseredate arabe (prime fra tutte quelle palestinesi), la nascita dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, con una propria organizzazione di tipo diplomatico e statale e la dotazione di un’organizzazione militare con funzioni di polizia interna e all’esterno indirizzata a sostenere l’attività diplomatica e i patteggiamenti della dirigenza , si pone immediatamente come la nascita ufficiale del comitato d’affari e di rappresentanza della borghesia palestinese, alle cui esigenze vengono e verranno sempre subordinate dunque le stesse spontanee iniziative delle masse dei campi profughi e di quelle sparse nei vari paesi dell’area, costrette a vivere ovunque in condizioni miserevoli.

L’attività dell’OLP è stata sempre quella di un organismo governativo di una classe borghese nazionale, peraltro codarda e costretta all’inconseguenza dai rapporti di forza internazionali che pure l’avevano generata e ai quali doveva sentirsi legata. Le continue tappe e i vari mercanteggiamenti – dalla famigerata risoluzione Onu n. 242 (1967, denominata “terra in cambio di pace”, che doveva sancire il ritorno alle frontiere esistenti prima del giugno 1967, con la rinuncia di Israele ai territori di Cisgiordania, Gaza e Golan occupati in seguito alla guerra) fino alla costituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese (che nel 2000 avrebbe dovuto sancire unilateralmente la nascita dello Stato palestinese, per poi ritirarsi con la coda fra le gambe appena gli imperialismi maggiori, Russia compresa, hanno negato il loro assenso a cotanta “decisionalità unilaterale”!) – sono fasi di un percorso lineare dentro al quale non c’è spazio per le esigenze materiali dei proletari palestinesi.

“La soluzione diplomatica – scrivevamo nel 1988 – si ridurrebbe alla creazione di un mini-Stato entro i confini militarmente occupati dagli israeliani, un’entità non vitale condannata ad una perpetua dipendenza politica ed economica da Israele e Giordania, un Bantustan in edizione mediorientale che solo l’inarrivabile ipocrisia borghese potrebbe far passare per l’equivalente di una home, o per la realizzazione del ‘diritto dei Palestinesi all’autodeterminazione’; una turpe arlecchinata che servirebbe unicamente a perpetuare le ragioni non di pace, ma di guerra, da cui tutta la zona è funestata. Chiunque – partito od organizzazione – pretenda di manifestare ‘solidarietà’ per i Palestinesi facendosi nello stesso tempo portavoce di simili ‘soluzioni’ (e tutti i partiti democratici hanno questa pretesa), è un traditore della causa per la quale dice di battersi. Per una tale soluzione manovrano non a caso le diplomazie di mezzo mondo, portatrici di piani diversi e spesso antitetici ma tutti ispirati all’ansia di impedire che la Mezzaluna Fertile divenga prima o poi teatro di esplosioni non soltanto politiche ma sociali, e di assicurare agli imperialismi alleati o concorrenti da cui promanano le debite zone d’influenza l’ambita greppia a cui attingere per soddisfare appetiti economici, politici e militari”7.

Se i fatti di Amman 1970 avevano consentito la visibilità piena di un fenomeno già inscritto nei suoi elementi genetici, ossia la confederazione di fatto fra l’OLP e le borghesie arabe ed israeliana contro le masse proletarie dell’area, la storia si sarebbe incaricata di sancirne materialmente la portata in diverse altre occasioni, nelle quali sempre il proletariato palestinese ha dovuto pagare con un bagno di sangue il fatto di essere chiamato ad immolarsi per finalità non sue.

Nella Comune di Tall El Zaatar, nel 1976, l’eroica resistenza del proletariato libanese e palestinese insorto a difendere le proprie condizioni di vita fu repressa nel sangue dall’esercito siriano e dalle truppe falangiste, con la fattiva collaborazione della marina israeliana che controllava gli accessi al mare e dell’esercito dell’OLP che non intervenne in nome del ‘diritto di non ingerenza’: ossia, supinamente ai dettami imposti dalle esigenze del mantenimento di buoni rapporti di vicinato e di “costruttivi” rapporti diplomatici. Nel 1982, ci fu il massacro nei campi di Sabra e Chatila, compiuto dall’esercito israeliano a conclusione dell’assedio di Beirut, dopo che le forze dell’OLP avevano lasciato il terreno alla “forza di pace multinazionale” inviata dall’Onu, ulteriore dimostrazione di come, per la borghesia palestinese, placidamente adagiatasi nei commerci e nelle altre attività lucrative svolte nei diversi Stati arabi nei quali si era integrata, il controllo sociale del proletariato fosse divenuto ormai da tempo l’obiettivo prioritario da perseguire: un obiettivo al quale rispondeva la stessa strumentale richiesta di indipendenza nazionale, peraltro sempre più mercanteggiata in imbelli trastullamenti diplomatici bilaterali o multilaterali e, dopo la sconfessione ufficiale di ogni ricorso alla violenza e il reciproco riconoscimento di fatto con Israele, ridotta a mera compravendita territoriale, dove nel prezzo finale è inclusa la copertura del costo sostenuto per il controllo delle sempre più diseredate masse proletarie palestinesi.

Il riconoscimento da parte degli avvoltoi della diplomazia internazionale della sedicente Autonomia Nazionale Palestinese, estesa a macchia di leopardo su un territorio comprendente la striscia di Gaza e alcune parti della Cisgiordania e circondato da insediamenti israeliani presidiati dall’esercito, non poteva certo interrompere questa spirale di sangue e miseria per le masse povere palestinesi, proseguita senza soluzione di continuità fino agli avvenimenti seguiti alla provocazione, orchestrata dagli israeliani, della visita di Sharon alla spianata delle Moschee il 28 settembre 2000 e a ciò che vi è seguito, fino alla recente guerra israelo-libanese (estate 2006) o ai continui massacri perpetrati dall’esercito israeliano nella striscia di Gaza 8. A conferma della importanza dell’OLP per l’intera borghesia mediorientale e mondiale (come della funzione di carne da cannone che le maciullate plebi palestinesi rivestono per la loro dirigenza), non si può dimenticare un episodio molto eloquente in merito: in occasione della durissima rappresaglia militare dell’esercito israeliano, seguita al linciaggio dei due riservisti israeliani catturati dalla popolazione palestinese, il quartier generale dell’Onu e il “nemico” Arafat sono stati avvertiti tre ore prima dell’attacco dal comando militare israeliano, affinché potessero comodamente mettersi in salvo e continuare la commedia degli inganni, mentre la popolazione civile veniva selvaggiamente bombardata…

***

Ogni sbocco della questione palestinese, nel quadro degli attuali rapporti economici e sociali e nell’ottica del contemporaneo mantenimento dello status-quo, non poteva e non può che essere fittizio e illusorio. I fatti si sono incaricati di eseguirne la sentenza e i pretesti sono stati subito trovati (ad esempio, la disputa sullo status di Gerusalemme Est, città che comunque, più che per la tradizione religiosa, è importante in quanto centro nevralgico per tutte le direttrici di comunicazione e traffico tanto per la borghesia israeliana che per quella palestinese).
Israele non potrà mai rinunciare volontariamente all’occupazione di territori ritenuti “utili” per le risorse vitali – in primo luogo l’acqua – e per esigenze di controllo militare. Né di conseguenza abbandonerà la politica di emarginazione e discriminazione degli arabi che vivono dentro i suoi confini, poiché quella sottomissione è funzionale alla fame di plusvalore del capitale israeliano. L’OLP, dal canto suo, piuttosto che, oggi, Hamas, non possono rinunciare del tutto a cavalcare la tigre della creazione di un nuovo Stato artificiale, a causa della pressione sempre più acuta che la crisi economica esercita sia sulle masse palestinesi sia sui commerci e sui profitti delle classi medie e piccolo-borghesi.

Per gli altri paesi arabi, Giordania in testa, l’esigenza prioritaria è quella di circoscrivere i generosi moti delle masse povere, sia tenendoli possibilmente fuori dai propri confini sia sviandone le energie con l’indirizzarli sul terreno religioso o nazionale. E’ la paura del contagio fra masse proletarie affamate e sfruttate che potrebbero trascinare sul lastrico qualche testa coronata che ha imposto le conclusioni del vertice del Cairo del 21 ottobre 2000, dopo che la “tregua” verbale di Sharm-el- Sheikh era stata subito smentita sulla pelle dei giovani arabi mandati al macello. L’invito, proveniente dal vertice, a un “intervento dell’Onu per proteggere i palestinesi” e la richiesta di un “tribunale internazionale che indaghi sugli atti criminali commessi da Israele” non sono altro che la richiesta di aiuto delle borghesie mediorientali alla borghesia mondiale in difesa dello status- quo e dunque dei loro regimi.

In primo piano vanno poi collocate, senza soffermarci per ragioni di spazio sugli appetiti di tutti i paesi imperialisti verso il Medio Oriente, le necessità dell’imperialismo americano di rafforzare il proprio controllo del fronte mediorientale dopo il crollo dell’imperialismo sovietico. Gli USA, dopo la prima guerra del Golfo (che già aveva consentito di aumentare il loro contingente militare preposizionato nell’area a difesa del controllo degli interessi petroliferi e finanziari del capitalismo americano), si sono fatti portatori dell’alleanza strategica fra Israele e Turchia, aumentando così la propria capacità di proiezione di forza e di ricatto, abbinando – nuovo asse della strategia yankee – la potenza militare al controllo monopolistico delle risorse idriche di tutto il Medio Oriente. Ma, poiché questo disegno produceva un aumento dell’instabilità per i paesi dell’area che entrano nella “sfera di sicurezza nazionale americana” (a cominciare da Siria e Iran, che iniziavano a guardare al capitale europeo, tedesco in particolare), l’amministrazione americana, preso anche atto del fallimento della precedente politica del “doppio contenimento” nei confronti di Iran e Irak, si è dovuta far carico di un’attività di stabilizzazione che la compensasse. Da qui, l’iniziativa di accelerazione dei tempi di una pacificazione fra israeliani e palestinesi, che rappresentava dunque il tassello che avrebbe consentito all’imperialismo statunitense di tenere a distanza gli imperialismi concorrenti attraverso una maggiore sudditanza filoamericana delle borghesie arabe. Infatti, la divisione dei paesi mediorientali, perseguita con l’appoggio finanziario, politico e militare all’alleanza turco- israeliana, per essere funzionale ai disegni dell’imperialismo USA doveva essere ancora una volta bilanciata – anche per rafforzare la stabilità dell’asse e la sua portata “fuori area”, in tutta la regione denominata “Eurasia” – da un intervento “moderatore”, volto a un maggior coinvolgimento e accomodamento alle politiche USA della maggior parte dei paesi arabi, tutti più o meno costretti a sviare la pressione del proprio proletariato con la retorica della solidarietà ai palestinesi. Il fallimento di questo tentativo indica che la dinamica impressa dalle forze materiali del sottosuolo economico della società borghese sempre meno riesce a essere contenuta nell’alveo delle ordinarie “relazioni internazionali”, in una situazione in cui la crisi economica mondiale acutizza su scala globale la contesa interimperialistica.

***

Nella fase imperialistica del capitalismo, la borghesia ha la necessità di condurre guerre sempre più distruttive e indirizzate essenzialmente contro le masse proletarie, prima nei “continenti di colore” e in seguito nelle stesse metropoli imperialiste. Questa tendenza irreversibile non può essere spezzata che dalla guerra di classe che il proletariato internazionale, diretto dal suo Partito, dovrà dichiarare alla borghesia mondiale sempre confederata contro di esso a difesa del proprio dominio politico ed economico. Oggi che il ciclo delle lotte e dei movimenti puramente nazionali per la Palestina e tutto il Medio Oriente è definitivamente privo di qualunque prospettiva storica, per le masse proletarie palestinesi esiste un’unica soluzione, che contiene anche la possibilità dello scioglimento del nodo dell’oppressione e della discriminazione nazionale: la lotta per la rivoluzione proletaria internazionale, a partire dall’abbattimento di tutti gli Stati della regione, da Israele alle varie repubbliche ed emirati arabi, e dalla cacciata dei vari briganti imperialisti che controllano politicamente ed economicamente lo sfruttamento delle masse mediorientali. In questa lotta sarà chiamato a entrare dalla forza materiale delle cose anche il proletariato dei paesi imperialisti e a essa il proletariato mediorientale dovrà congiungersi, affinché la rivoluzione possa trionfare alla scala mondiale.

Il nostro indirizzo odierno ai proletari palestinesi, dunque, può solo essere quello che il Partito indicava loro trent’anni fa, subito dopo il massacro di Amman, e che riproduciamo con le stesse parole di allora e un odio ancora maggiore, se possibile, verso questa società in putrefazione:
“I fedayn esprimono la collera sacrosanta di plebi maciullate sotto il rullo compressore della ‘pace’ borghese. Ma che cosa possono attendersi, dall’eroismo della propria disperazione? Essi stessi sono il prodotto di un gioco infame condotto sulle spalle e sulla pelle di popolazioni conquistate o perdute ai dadi dal capitale nell’affannosa corsa al dominio del mondo: forse che ‘la Palestina ai palestinesi’ li riscatterebbe più di quanto li abbia ‘riscattati’ la Giordania? Sono i martiri del dramma collettivo; non possono – non è colpa loro – risolverlo nel quadro e coi mezzi della società che l’ha voluto e lo vuole. Non hanno né ‘fratelli’ né ‘cugini’ negli Stati vicini o lontani sui quali hanno avuto l’ingenuità di contare, non al Cairo e non a Damasco, non a Mosca e non a Pechino.

Avranno dei fratelli il giorno in cui i proletari d’Europa e d’America, delle ‘metropoli’ del ladrocinio mondiale, avranno cessato di prosternarsi vergognosamente dietro i loro falsi pastori al mito della ‘pace’, del ‘dialogo’, di una ‘solidarietà’ fatta di miserabili preci e lacrimose petizioni e, avendo liberato se stessi dal duplice giogo del capitale e dei suoi servi opportunisti, si assumeranno con gioia fraterna il compito di dare, essi che avranno ereditato non le troppe infamie ma le poche conquiste durature della società borghese finalmente defunta, a coloro che non hanno mai avuto. Li avranno il giorno in cui il Medio Oriente non conoscerà più giordani né libanesi, né siriani né iracheni, né egiziani né sauditi, ma proletari che abbiano fatto saltare qualunque frontiera, abbiano riconosciuta falsa e bugiarda ogni patria, abbiano visto in faccia il nemico di classe e non di ‘razza’ o ‘nazione’, e si siano stretti in un ‘popolo’ solo, cioè in un solo esercito di ‘senza riserve’, per far piazza pulita di sbirri e ladroni locali e stranieri, ancora per avventura pascolanti sulle loro disgrazie! Non dipende da noi, meno che mai ci fa piacere il dirlo, se purtroppo questo domani non è alle porte di casa dell’oggi. O lo si prepara, quel giorno, o i massacri proseguiranno, la ferita incancrenirà, la tregua sarà quella che è da mezzo secolo [oggi, ormai, 80 anni]– un’atroce agonia. E’ tempo, è gran tempo di capirlo, proletari, prima che l’ora, una volta di più, sia al loro cannone! Più che mai, non avete nulla da perdere e tutto un mondo da conquistare”9.

NOTE:


1. “Non c’è via di salvezza, nel quadro dell’ordine esistente, per le vittime del cannibalismo imperialistico”, Il programma comunista, n.17/1970. [back]

2. “La solita babele del Medio Oriente”, Il programma comunista, n.12/1965. [back]

3. Idem. [back]

4. “Non vi sarà pace né nel Medio Oriente, né altrove, finché regna sovrano dovunque il capitale” , Il programma comunista, n.11/1967. [back]

5. “L’imperialismo gangster del dollaro aggredisce la rivoluzione araba”, Il programma comunista, n.14/1958. [back]

6. “Medio Oriente e Algeria. L’ipocrita piratesco regno della coesistenza pacifica”, Il programma comunista, n.16/1958. [back]

7. “Il nostro messaggio ai proletari palestinesi”, Il programma comunista, n.2/1988. [back]

8 Cfr. “La guerra isarelo-palestinese. Solo aggressori, nelle guerre dell’imperialismo. L’unico, vero aggredito è sempre il proletariato”, Il programma comunista, n.4/2006. [back]

9 “Non c’è via di salvezza, nel quadro dell’ordine esistente, per le vittime del cannibalismo imperialistico”, Il programma comunista, n.17/1970.

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2007)

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