(originale francese)

 

22 novembre 1922

 

Bordiga. Ritengo che la questione italiana sia stata assai poco chiarita e che se ne dovrebbe trattare un po’ più a lungo. Ciò è tanto più vero, in quanto il fondamento della questione dei rapporti col Partito socialista si trova nel giudizio sul Partito comunista d’Italia e sul compito nella situazione attuale.

Bisogna prendere la questione dal suo punto di partenza.

Molti compagni hanno l’impressione che l’opera del PCdI, presa nel suo insieme, non abbia risposto a quello che ci si poteva attendere dalla sezione italiana dell’Internazionale Comunista per quanto riguarda la conquista delle masse al nostro programma e alla nostra azione rivoluzionaria. Partendo da questo punto di vista, si cerca il modo di avere in Italia un Partito Comunista più potente e si considera la fusione col partito massimalista come un mezzo chiaramente indicato dalla situazione per accelerare una conquista delle masse, che è in ritardo.

Ora, il problema va posto molto nettamente – temo di non avere il tempo necessario per farlo -, ma, infine, bisogna mettersi dal punto di vista delle condizioni oggettive nelle quali ci siamo trovati in Italia.

Dal momento della costituzione del nostro Partito, queste condizioni oggettive e la loro direzione del loro sviluppo erano tali che ci si doveva attendere un cambiamento dei rapporti di forza in senso del tutto sfavorevole alla classe operaia. Noi l’abbiamo constatato. Fin dall’inizio del 1921, quando abbiamo costituito il nostro Partito, si poteva prevedere che la fase favorevole per l’azione proletaria fosse passata, fosse finita, e tutte le occasioni favorevoli fossero state perdute, perché il vecchio Partito socialista non aveva saputo riunire le condizioni soggettive che avrebbero potuto completare le condizioni oggettive decisamente favorevoli ad un’azione rivoluzionaria.

Noi abbiamo quindi cominciato il nostro lavoro in una situazione in cui era chiaro – ed è ancor più chiaro oggi – che il proletariato si sarebbe trovato in condizioni decisamente svantaggiose, in una situazione di difesa e, per giunta, di difesa molto difficile, di fronte all’offensiva capitalistica che si scatenava in Italia. Non ritornerò su questa offensiva, dato che nel mio esposto sul fascismo ne ho dato un quadro abbastanza ampio.

Che cosa ha fatto il Partito Comunista? Che cosa poteva fare? Oggi il nostro Partito è soggetto alle critiche più aspre da tutti i punti di vista.

In un primo tempo, e fino ad una certa epoca, si è cominciato con l’essere molto entusiasti del Partito Comunista d’Italia. Alla fine del 1921, si è cominciato a dire che il PCdI ha delle buone qualità, è un buon partito comunista, un buon partito marxista; ma ha pure dei difetti pratici. Adesso si dichiara che la stessa ideologia, il modo di pensare del Partito, non è marxista, non è comunista, e queste critiche vertono sulla sua dottrina, sulla sua tattica, sulla sua azione.

Per quanto riguarda il giudizio sull’ideologia del Partito, io lo contesto. Basterebbe rivolgersi agli anarchici o ai sindacalisti italiani e chiedere loro se si sono mai accorti di una certa simpatia da parte nostra per le idee federaliste, sindacaliste, o altre.

Noi siamo sempre stati e siamo marxisti. Ci si è perfino rimproverato d’essere un partito troppo autoritario nel senso marxista, troppo legato ai problemi della Rivoluzione russa e dell’Internazionale comunista. Se ci si può rimproverare qualcosa, è un eccesso di ortodossia. Ma sarebbe una questione troppo vasta per trattarne ora in modo completo.

Quanto alle basi di costituzione del nostro Partito, abbiamo avuto e conserviamo l’opinione che questa base sia stata data, storicamente dalla scissione di Livorno, perché noi consideriamo la situazione a Livorno da un punto di vista diverso da quello che oggi si adotta nei suoi confronti.

Noi non siamo stati spinti a separarci dai massimalisti dalla sola ragione che essi non si volevano dividere dai riformisti. Per tutto un anno prima della scissione noi abbiamo criticato Serrati (e dico Serrati per dire il gruppo massimalista), in se stesso, come gruppo centrista che doveva essere cacciato dalle file di un Partito rivoluzionario. Il fatto che questo gruppo non volesse scindersi dai riformisti, nella situazione di Livorno, non era l’unico suo errore; era un sintomo del suo carattere centrista in generale.

In Francia, abbiamo un centro del Partito che, in gran parte, non è comunista, ma accetta tutte le condizioni, firma tutti gli impegni, e noi cerchiamo nella situazione un fatto saliente che possa darci la prova che questa parte del Partito francese non è comunista, mettendola di fronte a responsabilità d’ordine concreto.

Ebbene, la situazione dei massimalisti a Livorno era la stessa. Essi accettavano tutto, dicendo che a separarli dall’Internazionale non v’era che una piccolissima questione. In realtà, non accettavano nulla. Erano un gruppo totalmente anticomunista. Ma l’incidente che ci ha permesso, in modo clamoroso, di dare questa definizione e giungere a questa separazione, a questa scissione, ci è stato offerto dal rifiuto di Serrati e dei massimalisti di separarsi da Turati e dai riformisti, come avrebbe potuto essere offerto da una qualunque altra causa nell’azione proletaria in Italia.

E tutta l’attività ulteriore dei massimalisti ha confermato quel che dicevamo. Si tratta di un gruppo che è in se stesso anticomunista. Bisognava separarsene, non perché nuocesse alla nostra polemica, alla nostra propaganda, non perché volesse marciare con Turati e D’Aragona, ma perché questi fatti mettevano in evidenza tutti i caratteri negativi che il gruppo massimalista portava in sé.

Noi abbiamo sempre pensato che le basi di un’azione comunista in Italia fossero da quel momento stabilite.

Bisognava cominciare il lavoro nella situazione oggettiva della classe operaia italiana.

Che tattica abbiamo seguito? Prima di essere in grado di conoscere i risultati del III Congresso, abbiamo messo al centro della nostra tattica l’unità di azione della classe operaia su rivendicazioni opposte all’offensiva padronale in Italia.

Siamo per il fronte unico. Affermiamo addirittura che siamo stati noi ad applicarlo per primi.

Abbiamo detto: in questo momento, il proletariato comincia ad essere sottoposto ad un attacco della borghesia: è necessaria l’unità di tutte le rivendicazioni, nell’azione di massa.

Abbiamo detto: siamo un Partito di minoranza. Non pretendiamo di condurre ad una battaglia rivoluzionaria immediata tutta la classe operaia italiana. Ciò non è possibile che quando vi sono grandi forze in grado di rispondere a un appello diretto del Partito. Il nostro Partito deve guadagnarsi una maggiore influenza cercando di penetrare nel resto della classe operaia italiana ancora influenzato da altre organizzazioni.

Ecco il nostro punto di vista in merito alla conquista delle masse. Questo problema si pone in maniera generale, ma una soluzione favorevole di esso non esiste in tutti i paesi e in tutte le circostanze. È necessario considerarlo in rapporto ai dati della situazione economica e della situazione politica.

Le condizioni oggettive in Italia erano tali che, anche impiegando una buona tattica, non si poteva giungere a conquistare un’influenza più grande se ci si mette dal punto di vista dell’aumento degli effettivi del Partito, del suo inquadramento sindacale e di altri analoghi inquadramenti.

L’estensione del contatto del Partito con le masse, le possibilità di propaganda, di agitazione, di lavoro, ci erano tracciate ogni giorno dallo sviluppo della situazione, dalla crisi economica e dalla disoccupazione, dalla marcia territoriale dell’occupazione fascista. In queste condizioni, è naturale che gli effettivi del Partito abbiano dovuto, in una certa misura, diminuire. Bisogna tener conto del fatto che con la stessa somma di sforzi di ogni genere che era necessaria prima, diciamo, per organizzare 10 comunisti, oggi non si riesce ad averne che uno solo.

Durante questi due anni, la sfera dell’attività proletaria ha continuato a restringersi sempre più per cause che erano al di sopra di ogni sforzo. Ciononostante, l’influenza del nostro Partito, in senso relativo, è costantemente cresciuta in seno alla classe operaia. Solo che questo risultato non poteva assumere la forma di un aumento degli iscritti al Partito o degli aderenti alle nostre frazioni sindacali. Il nostro obiettivo tattico è sempre stato di riunire il massimo di forze proletarie per una lotta contro l’offensiva incombente del capitale nonostante la situazione sempre più sfavorevole. A mio parere, abbiamo realizzato una buona soluzione di questo problema.

Vorrei avere il tempo necessario per esporre in tutti i particolari lo sviluppo della nostra tattica e mostrare come abbiamo cercato, nel modo più concreto, di sfruttare tutte le occasioni e tutte le possibilità che ci si offrivano.

Questa linea di azione ha preso una forma che si chiama fronte unico sindacale. Si è criticato l’atteggiamento da noi assunto in questa questione accusandoci di una specie di tendenza sindacalista, astensionista in fatto di politica. Ora non si trattava di estraniarci dal campo della lotta politica. Noi abbiamo sempre detto che il fronte unico deve formarsi per sostenere rivendicazioni sia politiche che economiche.

Il fronte unico, secondo noi, deve essere realizzato dalle masse operaie per riempirlo del contenuto della politica propria del Partito comunista e non per accontentarsi di una politica derivante da una miscela confusa, da una specie di diagonale tracciata fra la politica comunista e quella di altri partiti.

È – il nostro – un criterio completamente politico, come si vede; e, a questo fine, abbiamo proposto e realizzato un accordo fra i diversi sindacati esistenti in Italia, ciascuno dei quali d’altronde è collegato a un Partito politico. Abbiamo anche avuto delle riunioni e delle discussioni con gli altri Partiti politici e, se abbiamo pubblicato i risultati di queste discussioni solo dopo la lotta, è appunto in base al carattere particolare assunto in Italia dal problema del fronte unico. Non si trattava soltanto di dimostrare al proletariato che gli altri Partiti non vogliono la lotta, ma di prepararsi ad una situazione in cui perfino i riformisti avrebbero accettato l’idea di una lotta proletaria generale, ma l’avrebbero fatto, come sempre, in modo corrispondente alla loro volontà di sabotare l’azione. Bisognava lottare per la preparazione di questa azione, e fare, nel modo più clamoroso, delle proposte concrete in merito ai suoi fini, ai suoi metodi, al suo piano e, d’altra parte, non mettere mai le nostre responsabilità sullo stesso piano politico dei massimalisti, dei riformisti, degli anarco-sindacalisti ecc.; e bisognava tenere questo atteggiamento appunto perché sapevamo che una maggioranza non comunista avrebbe impresso all’azione un indirizzo sbagliato, e condotto il proletariato alla sconfitta.

Nel mese di giugno, alla riunione dell’Esecutivo Allargato, ho esposto questo piano al compagno Souvarine – il quale ora sorride –, che ha osservato che era una concezione meccanica. Ebbene, vorrei avere il tempo di dimostrare al comp. Souvarine come questo piano meccanico abbia funzionato in tutti i dettagli previsti, e come le cose siano avvenute esattamente nel modo che noi ci attendevamo.

L’azione – lo sciopero generale di agosto – si è fatta, ma appunto in base ai metodi opposti a quelli che erano stati proposti dal Partito Comunista, perché era diretta dai riformisti che avevano svolto una propaganda di disinganno della idea stessa di sciopero generale e si erano sempre opposti alle nostre proposte tendenti a dare alla classe operaia la maggior forza possibile.

Durante tutto questo periodo di preparazione, essi hanno criticato ciò che i comunisti proponevano, ma, dopo la sconfitta (sconfitta inevitabile), le masse hanno potuto constatare che essa era avvenuta per non aver voluto adottare i suggerimenti del PC. Hanno constatato che si era scelto per la lotta il momento più sfavorevole, dopo essersi lasciate sfuggire le buone occasioni nelle quali il nostro Partito aveva lanciato l’appello all’azione.

È perciò che noi sosteniamo di aver visto giustamente la situazione e di averla utilizzata, dal punto di vista tattico, nel modo più largo possibile; è perciò che affermiamo non solo che si è trattato di un vero esempio di tattica del fronte unico, ma che, in realtà, quella lotta ne è stata un’applicazione classica.

Prima di essa, tutti i Partiti non facevano che criticare nel modo più aspro il Partito Comunista, dicendo che eravamo dei blagueurs (degli sbruffoni) e che proponevamo al proletariato delle cose che l’avrebbero condotto al disastro.

Dopo lo sciopero generale e dopo la pubblicazione da parte nostra della storia dei suoi precedenti, e delle proposte che erano state fatte dai diversi partiti politici, quando abbiamo sviluppato questa polemica agli occhi delle grandi masse, non solo non si sono più continuate le critiche di prima, ma si è perfino evitato di risponderci, perché fra gli operai e i contadini si era formata la convinzione che il Partito Comunista aveva ben lottato. Il prestigio del Partito Comunista è quindi aumentato in seno al proletariato, benché, come abbiamo detto, a causa degli sviluppi sfavorevoli della lotta la sfera dell’attività proletaria si sia considerevolmente ridotta. Noi pensiamo che non c’era nulla di meglio da fare, in Italia, al fine di conquistare le masse.

Risponderò in anticipo alle critiche della nostra minoranza alla tattica del Partito. Sono le critiche dell’ultima ora.

Questi compagni non hanno mai dato un contributo positivo alla soluzione dei problemi formidabili e urgenti che si ponevano. Non hanno fatto che apportare esitazioni e dubbi.

Al Congresso di Roma, si sono fatte delle riserve sulle nostre tesi, che ponevano un problema generale e di principio per tutta l’azione comunista internazionale; ma i rappresentanti della minoranza si sono tutti dichiarati d’accordo, in pratica, con ciò che si era fatto in Italia fino a quel momento. D’altronde, i pochi oratori della minoranza che presero la parola non erano neppure d’accordo fra loro e presentarono ciascuno una risoluzione diversa.

In giugno, in occasione dell’Esecutivo Allargato, la minoranza ha sostenuto la stessa cosa, cioè che, in Italia, non si poteva agire diversamente.

In quel momento, la tattica era definitivamente stabilita, ed era impossibile non svilupparla fino alla lotta proletaria generale.

Qui a Mosca, in quell’occasione, non si è discusso in modo molto ampio la questione italiana perché, nei primi abboccamenti, si è subito constatato che fra il nostro Partito e l’Internazionale non esistevano divergenze profonde. La risoluzione che è stata avanzata qui si limitava a dirci di lanciare la parola d’ordine del governo operaio prima del 15 luglio.

Quando l’abbiamo fatto, qualche compagno della minoranza ha detto subito che era ridicolo, che applicare questo che era l’aspetto più contrastante con le necessità della situazione italiana, cioè il governo operaio, significava rovinare la tattica del fronte unico. Ma, quando hanno saputo che era un ordine dell’Internazionale, questi compagni hanno immediatamente dichiarato che era la buona tattica e che noi l’avevamo applicata senza fede e senza entusiasmo.

Noi non possiamo accettare critiche di questo ordine e dichiariamo di essere pienamente convinti di aver agito bene.

Crediamo di aver dimostrato nei fatti che la nostra tattica ha realizzato tutto quanto era possibile per conservare al nostro Partito e alla classe operaia italiana il massimo di forza e resistenza contro l’offensiva borghese.

Gli ultimi avvenimenti, con la vittoria di Mussolini, costituiscono un’altra sconfitta per il proletariato italiano. La concentrazione di tutta la borghesia intorno al fascismo è la concentrazione di tutte le forze antiproletarie, benché, in un certo senso, la situazione sia arrivata ad una svolta tale che c’è motivo di sperare che le condizioni oggettive sfavorevoli comincino a modificarsi; ma è sempre una sconfitta.

In questa situazione, in base alle informazioni che abbiamo appena ricevuto, si può dire che in Italia non è rimasto che un solo Partito proletario, il Partito comunista.

Gli anarchici e i sindacalisti non hanno recitato nessuna parte seria; i riformisti hanno recitato quella di passare definitivamente dalla parte dell’avversario, essi che avevano sostenuto che, per compiere un’azione antifascista, bisognava perfino accettare una coalizione con la sinistra borghese cosiddetta antifascista. Ora che hanno preso un atteggiamento di conciliazione verso Mussolini, essi non hanno più nessuna influenza in seno alla classe operaia italiana, che, nonostante la situazione spaventosamente sfavorevole, conserva sempre lo spirito della lotta di classe.

Quanto al Partito massimalista, esso non ha detto nulla. La sua organizzazione completamente legale non ha potuto resistere in una situazione così difficile. Questo Partito non ha saputo lanciare nessuna parola d’ordine; non ha nessun programma positivo ed è rimasto sul terreno ben definito dalla parola di Turati: il nullismo, cioè il programma di non agire mai, di non preparare nulla e di non dire nulla nei momenti decisivi.

Durante questi avvenimenti, certi capi massimalisti erano assenti dall’Italia, ma quando si assentano essi lasciano sempre la parola d’ordine di tacere. È forse per ciò che questo Partito non ha parlato, non ha lanciato un solo manifesto, non ha chiesto d’inserire un comunicato qualsiasi, per esempio, nei nostri giornaletti illegali.

Più tardi l’Avanti! è apparso. Ma, nel momento più difficile, sulla scena dell’attività politica proletaria non v’è stato che il Partito comunista.

Tutte le informazioni in nostro possesso ci permettono di dichiarare che in questa situazione il nostro Partito si è posto al centro di tutta la vita della classe operaia italiana in quanto classe. Nella misura in cui le condizioni oggettive permetteranno al proletariato italiano di risollevarsi, ciò potrà avvenire soltanto intorno al Partito comunista così come è oggi costituito, con i vantaggi della chiarezza della sua attitudine ideologica e della saldezza della sua organizzazione.

Adesso voi ci ponete il problema dei rapporti con i massimalisti e vi lamentate del nostro disaccordo con il punto di vista dell’Internazionale.

Ma quando è cominciato questo disaccordo?

In giugno, della questione del Partito socialista non abbiamo parlato. Ho avuto soltanto uno scambio di idee con Zinoviev a proposito della frazione Maffi. In materia, ho chiesto di essere informato dei rapporti dell’Internazionale con questa frazione, cosa che mi si è promessa e si è realmente fatta in seguito.

Ma era chiaro che noi eravamo contro la fusione anche con questa frazione, e l’Internazionale non ha creduto necessario sollevare in modo formale un simile problema.

C’era stata una divergenza all’epoca del congresso di Milano, ma la questione sembrava chiusa dopo che Serrati era rimasto con i riformisti. Noi non potevamo credere di avere sempre questa spada di Damocle della fusione sospesa sulle nostre teste. Non potevamo ammettere che una rottura qualsiasi fra le due ali del Partito socialista avrebbe indotto immediatamente l’Internazionale a sostenere la fusione del nostro Partito con l’ala sinistra del PSI senza considerare il valore e la portata di una tale rottura. Se mi si permette l’espressione, è stato per noi un colpo di fulmine, quando l’Internazionale ci ha detto: È possibile che fra massimalisti e riformisti si produca una frattura. Noi siamo per la fusione. Siamo addirittura per servirci della nostra influenza allo scopo di favorire la rottura.

Perfino certi compagni della minoranza, che erano favorevoli alla fusione coi maffisti, quando ho loro annunziato che l’Internazionale aveva dato ai suoi rappresentanti in Italia il mandato di preparare la fusione con i massimalisti, se ne sono stupiti e si sono dichiarati contro l’atteggiamento dell’Internazionale. Poi, divenuti a poco a poco favorevoli nel modo più completo alle proposte dell’Internazionale.

Ecco il nostro punto di vista circa la scissione socialista.

I massimalisti hanno rotto con Turati sulla sola questione della tattica parlamentare. Ma, in tutto lo sviluppo dell’azione proletaria in Italia, sono sempre stati i complici del disfattismo riformista. Come i riformisti, hanno lottato contro di noi, contro la nostra proposta di riscossa proletaria, contro la preparazione dello sciopero generale. Le loro batterie sono sempre state dirette non contro la destra, ma contro la sinistra, non contro la II Internazionale, ma contro l’Internazionale comunista, contro i comunisti, contro la Rivoluzione russa, contro i compagni che sono venuti a Genova e che essi hanno trattato da servitori perché hanno stretto la mano al re.

Noi diciamo che non si possono dimenticare queste cose, non in un senso personale, ma in base alla nostra convinzione che le masse non le dimenticano, e non le dimenticano perché tutti quegli errori sono costati troppi sacrifici e troppo dolore. Le masse hanno la chiara sensazione che è il nullismo del metodo massimalista, ancor più che il riformismo dichiarato, ad averle messe alla mercè del fascismo, e i comunisti italiani pensano che la forma più pericolosa dell’opportunismo in Italia è il centrismo massimalista.

Ci si dice: i massimalisti hanno cambiato, e si dichiarano pronti ad accettare la linea dell’Internazionale comunista.

Ma ecco ancora un carattere del nullismo opportunista, ecco un atteggiamento che ritroviamo dovunque e che, per esempio, Trotsky ha criticato nei centristi francesi che si dichiarano tutto il tempo i migliori comunisti, e firmano non importa quale testo.

Trotsky. Proponete dunque di escludere il centro francese?

Il problema è più complicato.

Si dovrebbe ritornare sui metodi che si sono applicati all’epoca di Tours paragonandoli ai metodi seguiti in Italia. Si tratta di due vie opposte.

È possibile che l’una e l’altra abbiano degli svantaggi; comunque, in Italia, noi abbiamo seguito fino ad ora un dato metodo e abbiamo pagato tutto quel che si doveva pagare per applicarlo. Perché non attendere che l’esperienza si completi, perché non assicurare all’Internazionale, in modo completo, questo episodio storico? Noi abbiamo creduto che in Italia fosse necessario seguire una tattica severa anche di fronte agli avversari più vicini. Ora che la parte più dura della bisogna è fatta, voi volete interromperne lo sviluppo che consiste nel mantenere la compattezza, nelle file del Partito comunista, dell’avanguardia della classe operaia italiana, conservandole l’organizzazione originaria di Livorno.

Voi dite: Ci sono dall’altra parte degli operai che bisogna conquistare. Ora, consideriamo un po’ la situazione di questi due Partiti operai. Da noi, gli operai sono solidamente organizzati per la lotta. In casa massimalista, sono dispersi, perché i loro dirigenti non possiedono né idee chiare, né una solida rete organizzativa.

Non si possono mettere questi due Partiti sullo stesso piano. Noi abbiamo il 95% di lavoratori. Essi hanno una massa enorme di piccoli borghesi, piccoli impiegati, funzionari.

Soprattutto, bisogna considerare il modo in cui gli operai sono riuniti nelle loro organizzazioni. Il nostro Partito ha dimostrato di essere una vera organizzazione di classe proletaria. La sua rete ha funzionato perfettamente benché, nell’ultima lotta, diversi capi del Partito fossero assenti. D’altronde, i capi del Partito comunista in Italia sono abbastanza anonimi. Noi siamo molto più conosciuti a Mosca – dove ci si nomina sempre, per criticarci – che in Italia. Ebbene, nonostante l’assenza di una parte dei capi, la macchina ha funzionato e il Partito ha fatto il suo dovere fra la classe.

Il contrario è avvenuto nel Partito massimalista. In questo Partito ci sono dei buoni elementi, soprattutto i pochi compagni che si sono messi alla sinistra fin dal primo momento e che sono certamente degli uomini leali e possono essere, in una certa misura, dei dirigenti comunisti; ma la vera e propria cricca dei capi del Partito massimalista non ha nulla a che vedere con il comunismo.

Questa cricca, per le sue tradizioni, per le sue cattive abitudini, per i suoi legami personali, ecc., è assolutamente indegna di inquadrare un Partito della massa operaia. Questi tipi, quando i loro capi mancano, hanno come consegna di battere il passo, di non fare e dire nulla; di tempo in tempo, pubblicano qualche cosa, ma solo per ripetere la vecchia canzone: Siamo dei buoni rivoluzionari marxisti, sappiamo che la rivoluzione verrà, non si possono schiacciare le idee con la violenza, bisogna aspettare che passi la tempesta, perché è certo che il socialismo trionferà; e avanti con tutta la demagogia con cui si costruisce una specie di marxismo fatalista. Questa cricca, nella sua costituzione e nel suo ruolo, è controrivoluzionaria e, per prendere gli operai che ha sotto di sé, non bisogna negoziare con lei, ma spezzarla. Bisogna respingere ogni discussione tendente a riconoscerle il diritto di rappresentare quegli operai. Questa cricca era già completamente battuta in Italia, e sarebbe stato più che possibile strapparle gli operai che influenza, se si fosse continuato a sviluppare la nostra politica, che consiste nell’inquadrare progressivamente intorno a noi gli operai staccati dal Partito socialista mediante una critica poggiante sui risultati clamorosi dell’azione.

Credo che sarebbe preferibile dare dei posti nella nostra organizzazione – per la direzione della lotta rivoluzionaria – a giovani compagni ventenni messi alla prova del nostro Partito, piuttosto che pensare di raggranellare a questo scopo uomini così squalificati.

La nostra campagna per liquidare il Partito massimalista avrebbe già avuto grandi successi, se l’Internazionale comunista non l’avesse intralciata. Essa è stata tanto generosa da prestare il proprio nome, che ha un’enorme influenza sugli operai italiani, al Partito di Serrati nel momento in cui la sua bancarotta politica era definitiva. I massimalisti avevano perduto ogni stima presso la classe operaia. La loro ideologia no vale un soldo. La loro organizzazione è in uno stato deplorevole anche dal punto di vista finanziario; dopo che i riformisti li hanno abbandonati, essi sono rovinati.

In qualche mese questo Partito poteva essere schiacciato, e tutti gli operai rivoluzionari sarebbero venuti con noi. Ma noi non abbiamo applicato il nostro metodo, perché l’Internazionale appoggiava un metodo diverso.

La nostra proposta, voi la conoscete. Noi diciamo: è vero che si devono conquistare gli operai che sono con i massimalisti per aumentare gli effettivi del nostro Partito; ma, per ottenerlo, non bisogna accettare di trattare con i loro capi. Non bisogna mettere quella gente in grado di occupare certi punti vitali della nostra rete organizzativa. Anche se in tal modo il numero degli operai che verranno con noi può essere aumentato, sarà sempre un cattivo affare, perché il pericolo al quale ci esponiamo è molto maggiore.

Voler cambiare l’intera direzione dell’azione comunista in Italia nel momento in cui vi si delineava una svolta politica decisiva, ha voluto dire immobilizzare il nostro partito allo stesso inizio di un’èra nuova nella quale essa avrebbe senza dubbio conquistato progressivamente un’enorme simpatia in tutta la classe operaia.

Noi siamo per l’adesione individuale; ciò non significa che vogliamo realizzare un filtraggio personale di tutti gli operai che si trovano nel Partito massimalista; il significato dell’adesione individuale è il passaggio dei massimalisti nelle nostre file come semplici militanti, come soldati semplici, senza conservare i loro posti di capi, di cui non sono degni.

Con la forza della nostra organizzazione, noi possiamo impegnarci a non permettere a quegli uomini un’attività disfattista se sono accettati come semplici membri del Partito, mentre crediamo estremamente pericoloso dar loro dei posti di fiducia nella rete del lavoro di Partito.

Un esempio a proposito del regime della stampa, di cui ho parlato col compagno Lenin. Per formare dei redattori comunisti, noi abbiamo impiegato due anni di lavoro, durante i quali abbiamo attuato nuovi metodi, nuovi sistemi. Ora voi ci presentate un redattore socialista e ci dite di affidargli lo stesso posto nel Partito. Ora io posso ben ammettere che egli sia diventato sinceramente comunista nelle sue idee e nella sua volontà di agire. Ma egli non è ancora in grado di lavorare utilmente come redattore della stampa comunista, che è organizzata in modo assai diverso rispetto alle tradizioni socialdemocratiche.

Quel che dico per i giornalisti, lo si può dire per tutti i capi di diverso grado, che sono abituati a metodi di lavoro inadatti alle esigenze dell’azione comunista.

Noi crediamo che sia nostro dovere opporci a questa infiltrazione pericolosa nell’organizzazione che abbiamo costruita per l’azione della classe operaia.

La maggioranza del nostro Partito conserva la sua opinione che, con la politica da essa sostenuta e sviluppata, si potevano guadagnare tutti gli operai massimalisti, in modo non solo più sicuro, ma anche più rapido.

Ci siamo formati questa convinzione attraverso tutta la esperienza e il lavoro di questi anni: ma il nostro spirito di disciplina verso l’Internazionale Comunista non ha limiti.

Noi chiediamo ai compagni dell’Internazionale, nelle cui mani è ora la sorte del movimento italiano, di ben riflettere alla loro responsabilità di fronte al fatto che i rappresentanti dell’insieme dei militanti che hanno dimostrato di aver fatto il proprio dovere per la causa rivoluzionaria indicano loro i pericoli di una enorme gravità e forse senza rimedio contenuti nelle risoluzioni che si stanno per prendere.

 

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