Scrivevamo appena otto anni fa: “La rivoluzione proletaria non fila più il suo tessuto all’interno di una sola nazione, non si apre più il suo percorso dentro un unico paese, ma in un intreccio internazionale, perché internazionale è la lotta di classe per uscire dal sistema capitalista (“Iran, la piovra del riformismo”, Il programma comunista, n.1/2010). Negli anni che ci stanno dietro le spalle, una nuova guerra si è abbattuta in Medioriente, una guerra micidiale che ha sconvolto l’intero territorio siriano, causando la morte di centinaia di migliaia di civili, donne e bambini, e la fuga di milioni di disperati. Il Medioriente, da Damasco ad Aleppo, da Mossul a Baghdad e San’a’ è un cimitero! L’alleanza tra macellai imperialisti a guida americana – super-armati, amici-nemici, il vero e proprio califfato imperialista – ha messo a tacere una banda di islamisti imbecilli. Le colombe della cosiddetta pace si sono posate sulle sponde dei fiumi Tigri ed Eufrate, tubando alla vittoria del fronte russo-iraniano-siriano. Agli altri paesi (Turchia, Iraq, Kurdistan) sono rimaste appena le spoglie. Partecipando alla guerra e ponendosi al centro degli avvenimenti, l’Iran ha giocato il proprio ruolo imperialista insieme agli altri eserciti, alle altre bande e ai saccheggiatori. La borghesia imperialista ha richiamato i mostri del nazionalismo, gettando il proletariato (la nostra classe) nella paura e nella disperazione.

L’Iran è un paese industriale con una numerosa e combattiva classe operaia, capace di lottare anche nelle condizioni più difficili. La guerra “ha fatto bene” all’Iran, scrivono i giornali: nel primo semestre di quest’anno, il Pil è cresciuto del 5,6% e anche la crescita economica del 2018 sarà ampiamente positiva, mentre la produzione petrolifera è raddoppiata. Al tempo stesso, l’intervento militare ha avuto un costo pesante e il debito pubblico pretende che sia stretta la cinghia ai proletari. La disoccupazione ha superato il 12%, ma il tasso reale è molto più alto e quella giovanile arriva al 25% (metà della popolazione ha meno di 30 anni e 750 mila giovani ogni anno entrano nel mondo del lavoro). Patrimoni e assets sono concentrati nelle mani di pochi, la corruzione ha alimentato la guerra e questa la corruzione. Contro questo massacro esploda dunque la rabbia dei senza riserve! il proletariato entri in lotta richiamando dalla memoria la parola d’ordine del disfattismo rivoluzionario: il nemico è nel nostro paese!!

Molta acqua è passata sotto i ponti dal 1979, dalla cacciata dello Scià all’arrivo della Repubblica islamica, dalla guerra contro l’Iraq degli anni 1982-88 alle lotte operaie del nuovo secolo (2009). L’ostacolo che si frappone al cammino della nostra classe, in Iran come in tutta Europa e nel mondo intero, è la piovra del riformismo che continua il suo percorso di menzogne. A partire dal 28 dicembre 2017, da Mashad (la seconda città più popolosa dell’Iran), le manifestazioni si sono estese: a migliaia, in tutto il paese, le masse urbane si sono messe spontaneamente in moto. Contro l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, contro la corruzione e la miseria crescente, la rabbia si è levata nei confronti della borghesia. I manifestanti hanno attaccato le effigi e la funzione reazionaria e riformista del clero; hanno bruciato centinaia di moto dei miliziani del regime, i Basij. Nella città industriale di Isfahan, gli operai sono entrati in sciopero. A tutto ciò ha risposto una dura repressione che ha causato centinaia di arresti e una ventina di morti per le strade di Teheran e in decine di altre città iraniane. E questo non sarà dimenticato.

L’oggi ripropone per l’ennesima volta, non più il riformismo del campione progressista Moussavi del 2009 né quello dell’attuale leader riformista Rouhani che ha cercato di calmare i manifestanti invitandoli alla calma e alla “non violenza”. Le manifestazioni, a quanto sappiamo, non hanno avuto per guida alcun leader politico del clero o della società civile, né alcuna autorità sindacale. La rabbia, sorta spontaneamente dalle situazioni di miseria, ha attaccato i centri religiosi, le banche, le sedi della milizia islamica, i tribunali, le caserme, le prefetture, ovvero i palazzi del potere. Dopo ogni crisi economica e sociale, dopo ogni guerra, dopo ogni lotta dura, le illusioni di pacificazione sociale da una parte e le false promesse del potere dall’altra stendono i loro tentacoli per frenare le lotte, magari prospettando quell’elemosina coranica che in occidente si chiama “carità e welfare”, la forma miserabile in cui viene umiliata la condizione di classe. Le masse iraniane in questi anni di guerra non hanno agitato il disfattismo di classe e neppure lo hanno fatto i proletari delle metropoli industriali. Non potevano: il ritardo della nostra classe alla scala storica, come il ritardo del partito rivoluzionario, ha bisogno di una rinnovata fiducia nelle proprie forze, di una nuova capacità organizzativa, ma soprattutto di una teoria e di una tattica rivoluzionarie. Abbiamo spesso indicato la necessità della lotta come forma di allenamento preventivo alla guerra di classe, senza di cui sarà impossibile spingere in avanti la lotta stessa, e abbiamo indicato nella nascita di “organismi territoriali indipendenti di classe” gli strumenti necessari a esprimere gli obiettivi di classe. Durante le proteste a Teheran non sono mancate le grida: “abbasso la guerra!”, “fuori dalla Siria!”. Per le strade si è gridato “per il pane, per il lavoro, per la libertà!”. Le manganellate e i lacrimogeni hanno rilanciato le proteste, gli spari hanno tentato di fermare la lotta. L’incendio di classe non c’è stato: solo una fiammata durata pochi giorni. E tuttavia verrà l’incendio di classe che aspettiamo.

8/1/2018

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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