A fine giugno, il “Piccolo”, quotidiano di Trieste, dava notizia dell'inizio di uno sciopero alla Fiat Chrysler Automobile (Fca) di Kragujevac (Serbia), dove si produce la nuova 500 L. Da quel momento in poi, l'informazione in Italia avrebbe parlato poco o nulla di uno degli scioperi più lunghi e combattivi della storia recente, almeno in Europa. Lo stabilimento, per il 33% a partecipazione statale, è la prima realtà produttiva della Serbia, impiega 2400 lavoratori e coinvolge un indotto di 6000 addetti, rappresenta il 3% del Pil e l'8% dell'export del Paese. Lo sciopero generale, proclamato il 27 giugno, era stato preceduto da alcuni scioperi dimostrativi di un'ora. All'origine della protesta operaia, i bassi salari e l'intensificazione dello sfruttamento, con l'aggravante della calura estiva a rendere ancor più insopportabile la vita all'interno degli stabilimenti.

Samostalnj Sindicat (sindacato indipendente) e Nezaviznost (unione sindacale autonoma), le sigle protagoniste dell'iniziativa, chiedevano aumenti del salario base da 38mila a 45mila dinari (da 316 a 375 euro lordi; secondo altre fonti, la richiesta sarebbe stata di 50mila dinari, pari a 416 euro), più rimborsi per i trasporti e bonus di produzione per il 2016 e il 2017. In primo luogo, si chiedeva una riduzione dei carichi derivanti dalle sostituzioni dei colleghi assenti e in generale da un organico ridotto all'osso, nel più classico stile Fiat/Fca. L'anno scorso, la fabbrica ha sfornato 85mila veicoli, tanti quanti ne sono previsti quest'anno, nonostante il licenziamento di ben 882 operai nel 2016 e un calo complessivo di organico di oltre mille addetti. La pretesa di mantenere i livelli produttivi e contemporaneamente ridurre in modo drastico i costi del capitale variabile aumentando il tasso di sfruttamento è indicativo delle crescenti difficoltà di fare profitti e del rapido esaurirsi delle condizioni differenziali di redditività del capitale tra Paesi diversi. Le agevolazioni concesse dallo Stato per indurre otto anni fa la multinazionale a produrre in Serbia sono addirittura protette dal segreto di Stato, ma i bilanci annuali dell'azienda ne hanno svelato le dimensioni: 30 milioni di euro di finanziamento pubblico, dispensa dal versamento dei contributi per dieci anni, esenzione delle imposte locali, sconti sulle forniture energetiche e altro ancora. E nonostante tutta questa manna e i salari inferiori alle già basse retribuzioni medie nazionali, la fabbrica non è in grado di generare adeguati profitti.

Da questo punto di vista, la vicenda è emblematica della deriva parassitaria in cui è incanalato il capitale, incapace di funzionare come tale senza attingere abbondantemente dalle tasche di Pantalone e, tramite esso, dai proletari e dalle mezze classi. Il completo asservimento dello Stato non basta: è necessario spremere la forza lavoro fino all'osso, toccare livelli intollerabili di sfruttamento per ricavare margini accettabili di profitto e assecondare gli appetiti del capitale finanziario. Le ragioni dello sciopero derivano dall'incalzare folle delle dinamiche del capitalismo mondiale, che ormai produce meno valore nuovo di quanto ne assorba il moloch parassitario della finanza, e deve pertanto imporre le proprie leggi in modo sempre più stringente. La situazione di Fca Serbia è l'emblema del fallimento tanto dell'impresa industrial-finanziaria quanto della politica borghese che si mette al suo servizio, predisponendo il terreno più adatto allo sfruttamento della forza lavoro.

 

Questo dal lato del capitale. Dal lato della classe che ha il compito storico di affossarlo, lo sciopero di Kragujevac ha mandato in cortocircuito la sinergia tra finanza, impresa e Stato, propria della fase imperialista. Per adesioni (oltre il 90%), durata e combattività operaia, è stato un esempio di vera lotta, che ha bloccato la produzione costringendo i sindacati e il governo a muoversi per convincere la direzione Fca a trattare. Il motto operaio “lavoro decente, paghe decenti”, suona molto “classico”, come un po' tutta questa vicenda di contrapposizione tra capitale e lavoro.

La durezza dello scontro e l'importanza economica della fabbrica hanno indotto il governo a intervenire ordinando l'avvio dei negoziati, ma la direzione Fca ha posto da subito la condizione dell'interruzione dello sciopero e della ripresa della produzione. Su tutta la vicenda ha cominciato ad aleggiare la minaccia di un allontanamento della Fca e degli investitori esteri, a causa dell'immagine conflittuale che le maestranze dal Paese davano di sé. Il governo si è proposto come mediatore, invitando gli operai a interrompere lo sciopero: ma la determinazione operaia spingeva per una lotta ad oltranza. Tant'è che quando, a metà luglio, il sindacato Salmostalni ha avuto la malaugurata idea di farsi portavoce della richiesta del governo davanti agli operai, se l'è vista brutta: “La reazione dei lavoratori alla nostra proposta non è stata favorevole. Abbiamo affrontato questo rischio, perché la posizione di leader dei lavoratori significa anche prendere decisioni difficili” (adattamento della traduzione Google dal serbo). A quel punto, a oltre due settimane dall'inizio dello sciopero, non apparivano segnali di cedimento né da una parte né dall'altra.

 

I siti dei sindacati riportavano notizie sull'estensione del conflitto in diverse realtà produttive, la lotta alla Fiat sembrava “aver risvegliato il malcontento in sospeso dei lavoratori in tutte le parti della Serbia”. La stampa nazionale dava ampio spazio a commenti sulle lotte operaie e sulle condizioni dei lavoratori, descritti da un autorevole sociologo serbo come “vittime del concetto neoliberista di sviluppo economico in cui i paesi competono per attrarre grandi capitali abbassando il costo del lavoro e riducendo i diritti legali.” Una realtà che evidentemente era stata oscurata dai tempi della dissoluzione della Jugoslavia, se è vero che lo stesso sociologo nei giorni cruciali dello sciopero si è lanciato in questa sorprendente rivelazione: “la gente deve capire che questo è un paese capitalista”! Sarebbe inutile avvertire il luminare che lo era anche prima, quando c'era Tito, anche se forse non si toccavano gli attuali livelli di sfruttamento. La lotta, comunque, ha aperto uno squarcio sulla condizione operaia e costretto tutti a mostrare la faccia, perfino a ragionare sul capitalismo e le sue magagne!

 

Per tornare agli sviluppi dello sciopero, il 19 luglio sul sito di Samostalni sindikat compariva la notizia dell'avvio delle trattative per il giorno seguente, con la partecipazione del governo e dei manager Fca. Il comunicato sindacale suonava come una resa e insieme un avvertimento a quanti intendessero opporsi alla decisione di interrompere lo sciopero e tornare al lavoro:

Vorremmo ringraziare tutti gli scioperanti e l'Unione [Nezaviznost, ndr]. Intendiamo dire che questa unità deve mantenersi. Inoltre, vogliamo dirvi che non c'è spazio per i dissensi tra voi, perché in questi sedici giorni avete dimostrato la vostra forza e la fede di combattere per i diritti dei lavoratori. Domani, quando riprenderà il lavoro, tutti sono tenuti a lavorare in accordo con le norme e le regole che si applicano in azienda, senza eccezione, con il più alto livello di professionalità e dignità dei lavoratori.” (adattamento dalla traduzione Google).

Possiamo solo intuire cosa sia successo nel periodo tra il 14 luglio, quando era ancora altissima la determinazione operaia a continuare lo sciopero, e la sua sospensione: il comitato di sciopero - controllato dal sindacato Samostalni, il solo riconosciuto dall'azienda – e le controparti si accordavano per mettere gli operai di fronte al fatto compiuto dell'apertura delle trattative. Il governo dichiarava che avrebbe fatto il possibile affinché le richieste operaie venissero accolte, pur senza poter garantire nulla, e che nell'incontro con l'azienda i manager erano sembrati “comprensivi e pazienti” (bontà loro!).

 

La diffusa insoddisfazione tra gli operai trapela da questa dichiarazione del capoccia sindacale Marcovic: “Attraverso i mezzi di comunicazione, voglio informare tutti i nostri cari colleghi che questa non è una sconfitta, come affermano in molti e quanti hanno chiesto di andare fino alla fine. Il nostro scopo non è allontanare la 'Fiat', ma renderla un luogo dove migliorare le condizioni di lavoro, i nostri guadagni, le nostre quattro richieste ". (adattamento della traduzione Google).

 

Nei giorni successivi la base operaia si è trovata esclusa da ogni possibilità di influenzare le trattative, sui cui sviluppi nulla trapelava. Il 25 luglio veniva comunicata la firma dell'accordo: aumento del salario base da 38.000 a 42.250 dinari (352 €), per un incremento totale, erogato in due scaglioni, del 9,5%, un rimborso ai pendolari che non possono usufruire dei trasporti pubblici nei turni di notte e, a partire da agosto, l'adeguamento dei salari all'inflazione attesa. A condire il magro boccone, qualche promessa: l'istituzione di una commissione per verificare il rispetto dell'accordo e controllare i carichi di lavoro e un bonus annuale sul modello di quello già previsto in altri stabilimenti del gruppo. La Fiat, bontà sua, ha garantito la propria permanenza in Serbia per tre anni. Bisogna aggiungere che ancora a fine luglio i termini precisi dell'accordo non erano stati ufficializzati, tant'è che risultavano non poche discrepanze tra la versione del sindacato Samostalni - più generosa - e quella governativa. L'altra organizzazione promotrice dello sciopero, Nezavistnost, ha invece definito senza mezzi termini l'accordo “un inganno”.

 

In risposta alla delusione degli operai, un membro del governo si è sentito in dovere di prendere le difese di Samostalni: “I rappresentanti dei lavoratori sono esposti a critiche su un accordo che sarebbe potuto essere diverso e migliore. Credo che fosse gravosa la posizione dei rappresentanti dei lavoratori, costretti da entrambi i lati a un compromesso serio. Se alla base degli operai della Fiat ci sono persone scontente, non ho alcun problema ad andare a Kragujevac e parlare di nuovo con loro". Il capoccia Marcovic ha invece dichiarato di non aver alcuna intenzione di presentarsi davanti all'assemblea operaia: dovrebbe infatti rispondere, oltre che del resto, dell'aspetto più odioso dell'accordo, con il quale "i rappresentanti sindacali hanno accettato di astenersi da qualsiasi sciopero per tutta la durata del nuovo contratto collettivo"! Alle contestazioni su questo punto, il sindacato firmatario ha risposto che non ci saranno scioperi solo se la Fiat rispetterà i termini dell'accordo. Il ragionamento potrebbe filare se si trattasse di un buon accordo, ma la Fiat non ha alcun interesse a non rispettarlo, mentre la base operaia, dopo aver subito un vero e proprio colpo di mano, si è trovata anche priva dell'unica arma di difesa.

Per chiudere con le dichiarazioni: “Il Governo della Repubblica di Serbia ritiene che l'accordo è un ottimo indicatore che la Serbia è un buon posto per gli investitori nazionali ed esteri, contribuendo ad una ulteriore crescita economica e lo sviluppo del paese.” Questa è la sintesi della vicenda nell'ottica degli interessi del capitale nazionale e internazionale. E' certo che questo accordo non rende la Serbia meno attraente per il grande capitale. Alla fin fine, i modesti aumenti riducono di poco la distanza tra la retribuzione di un operaio della Fca serbo e quella dei sui omologhi turco e polacco. Se le richieste economiche sono state accolte solo parzialmente, non sono state toccate le questioni principali: l'organizzazione del lavoro, l'intensità dello sfruttamento, l'organico sottodimensionato rispetto agli obiettivi di produzione. Su questo terreno, c'è stata la (provocatoria) rassicurazione Fca che non vi saranno ulteriori licenziamenti e poco altro. La materia – come si dice in sindacalese – è stata “ rinviata alla contrattazione”.

Alla fine, gli operai, ancora una volta schiacciati nella morsa corporativa Stato-azienda-sindacato, hanno ottenuto poco in rapporto alla forza e alla determinazione messe in campo. Il timore che il prolungarsi della lotta portasse a una generalizzazione e internazionalizzazione dello scontro spiega la fretta di Governo e sindacato di giungere a una soluzione e mettere la base operaia di fronte all'aut aut: sospensione immediata dello sciopero oppure nessun accordo, col rischio di chiusura della fabbrica.

 

La vicenda si presta a una valutazione di carattere generale sull'assetto internazionale del capitalismo e la situazione della classe operaia. Al capitalismo che agisce internazionalmente per cogliere, ovunque si presentino, le migliori condizioni di profittabilità, deve corrispondere una prospettiva altrettanto internazionale del proletariato se questo non vuole farsi schiacciare dal sistema delle articolazioni nazionali che agiscono in reciproca competizione per aggiogarlo al carro del capitale a condizioni via via più umilianti. Sotto questo aspetto, gli operai serbi hanno avuto poco più che una solidarietà formale dalle organizzazioni sindacali di altri paesi, fatta eccezione, per quanto ne sappiamo, per una vivace mobilitazione in Grecia e uno sciopero di due ore indetto dalla Usb a Melfi. La scarsa circolazione di notizie, anche in Italia, considerata l'importanza che il gruppo Fca ha nel Paese, rivela l'intento di isolare e circoscrivere la lotta proletaria entro i confini nazionali, non senza la collaborazione delle forze sindacali e politiche serbe, le cui reazioni hanno assunto spesso toni fortemente nazionalistici.

 

Le dichiarazioni di Samostalni Sindikat invocavano il blocco col governo per contrastare il “datore di lavoro straniero” non rispettoso della legge serba. Esponenti sindacali hanno proposto di sostituire i cartelloni Fiat posti sulle vie d'accesso alla città con quelli del vecchio marchio Zastava, in polemica con la multinazionale esosa e con un governo troppo prodigo, evocando un improbabile ritorno a produzioni nazionali: un tentativo di accattivarsi consensi tra gli operai, magari nostalgici di Tito e della grande Jugoslavia “socialista”, e per oscurare la natura internazionale della lotta operaia e il suo potenziale internazionalismo.

 

Una delegazione Fiom si è recata a Kragujevac per portare “la solidarietà” del maggior sindacato metalmeccanico d'Italia. Dietro la facciata solidaristica, lo scopo pratico della missione era con ogni probabilità di affinare le già notevoli capacità Fiom nel contenimento delle spinte della base operaia, e magari dare qualche buona dritta ai sindacati locali in difficoltà nel guidare la vertenza. Ad allontanare ogni fraintendimento sulla natura dell'interessamento Fiom per le vicende serbe è l'evidente contraddizione tra un sano atteggiamento di solidarietà internazionale e l'invocazione a ogni piè sospinto di una “politica industriale” che rilanci la produzione nazionale, accompagnata inevitabilmente dalla condanna aperta della delocalizzazione. Questi della Fiom non ragionano molto diversamente dai loro omologhi nostalgici della gloriosa Zastava: ma, se si vuole rilanciare la produzione nazionale, a risentirne sarà la produzione altrui, e con essa i presunti interessi degli operai di altri Paesi. Senza contare che se si vuole effettivamente mantenere o attrarre investimenti, si deve accettare la logica della competizione al ribasso sui cosiddetti “diritti” dei lavoratori, tanto più evocati quanto più calpestati nei fatti. Si può mostrare la faccia cattiva in TV come il sempre accigliato Landini: ma in questa logica la difesa dei “diritti” operai passa per l'intensificazione dello sfruttamento.

Il capitale conduce internazionalmente una guerra a tutto campo contro il proletariato, piegando gli Stati a strumento dei propri interessi. Le aziende proiettate sui mercati mondiali premono per modificare le norme vigenti del diritto del lavoro, ovviamente in senso peggiorativo. E' il caso della acciaieria cinese Hestia, che chiede al governo serbo maggiore libertà di imporre carichi di lavoro aggiuntivi ed eventualmente di licenziare quelli che si rifiutano di accollarseli. La Serbia si è già dotata di una nuova legislazione del lavoro nel 2014, disegnata sulle esigenze del capitale interno e internazionale. La Fca, a quanto pare, non ha avuto bisogno di chiedere il permesso al governo serbo per poter licenziare e aumentare i carichi di lavoro.

 

La realtà è che il capitalismo ha surclassato la dimensione nazionale: non può essere costretto entro i confini nazionali, sia che si tratti di un grande centro imperialista la cui potenza internazionale poggia su forti basi economiche, sia che si tratti di capitalismi come quello serbo, non in grado di reggere il confronto e pertanto destinati alla colonizzazione. Se le maggiori potenze imperialiste si possono ancora permettere, in virtù della loro concentrazione industriale e finanziaria, di concedere qualcosa a una parte privilegiata della propria classe operaia, lo possono fare sulla pelle degli operai che lavorano nelle fabbriche inserite nella catena internazionale del valore di cui costituiscono il perno. La moderna struttura dell'imperialismo propone in effetti le sue gerarchie nazionali, e condizioni diverse tra i rispettivi proletariati nel contesto di un comune sfruttamento, ma essa è funzionale all'asservimento dell'intera classe alla legge capitalistica, e cadere nella trappola della nazione significa, oggi come e più di sempre, fare il gioco del capitale, servirne gli interessi vitali.

 

Da sempre, la nazione non costituisce un fattore di protezione delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato, ma è la gabbia entro la quale esse vengono aggredite in nome degli stessi interessi nazionali. Non stupisce che di questi tempi sia lasciato spazio a sproloqui contro “la mondializzazione” che, liberato il vorace capitale finanziario, avrebbe portato allo smantellamento dei diritti sociali e del lavoro faticosamente conquistati. In questa visione reazionaria, la “riconquista” della sovranità nazionale sarebbe condizione per la riconquista dei diritti perduti, e non manca chi ha il coraggio di condire di fraseologia “marxista” questa farsesca riedizione del roboante proclama: unità della Nazione contro le potenze plutocratiche che la vogliono asservire! Se si trattasse di utili idioti e non di predicatori prezzolati, potremmo cassarli con una risata, ma questi come altri segnali indicano una convergenza di forze per compattare il proletariato attorno alla Nazione, alla Patria, allo Stato. Dal sindacalista “responsabile” all'arruffapopolo leghista, dal devoto alla Costituzione al fascista dichiarato (senza trascurare i fans di Maduro) c'è concordia nel ridare valore alla sovranità nazionale contro le oscure forze della mondializzazione, al grido di “Patria o muerte”! Da qui il passo verso l'Union sacrée è davvero breve, e si accorda con la preparazione alla guerra implicita in ogni soluzione nazionale alle crisi generate dalle dinamiche del capitale.

 

Ma nel bilancio dello sciopero di Kragujevac non mancano le voci positive. La lotta coraggiosa degli operai di Serbia ha rimesso gli interessi di classe sopra ogni altra valutazione di carattere economico o nazionale; ha costretto l'arrogante direzione Fca a scendere a patti; ma soprattutto ha dimostrato nei fatti la forza dell'organizzazione operaia. La ritrovata consapevolezza di questa forza potrà tornare utile al proletariato europeo e mondiale nel prossimo futuro. “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”: solo così potrà essere spezzata la catena che lega internazionalmente i proletari al giogo de capitale.

 

Principali fonti:

“Il Piccolo” del 27 giugno 2017

www.eastjournal.net

www.sindikat.rs/aktuelno.html

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

 

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