PRESENTAZIONE

 

 

Il presente volume, il primo di una serie attesa a ricostruire e documentare storicamente il processo di formazione e di sviluppo di una sinistra comunista rivoluzionaria in Italia, e in seguito la sua rilevante azione nel campo internazionale, dalle origini fino al 1926 - l'anno del Congresso di Lione e del VI Esecutivo Allargato dell'Internazionale a Mosca -, parte dalle origini del movimento proletario su scala mondiale e si ferma alle prime battute di preparazione del congresso socialista di Bologna, fra l'agosto e il settembre 1919.

Esso si compone di due parti. La prima, di carattere espositivo, rievoca sulla base di una rigorosa documentazione storica il processo attraverso il quale la sinistra comunista, presente in Italia sia pure in forma embrionale dal 1880 circa, ma ben definita per saldezza di impostazione teorica e continuità di azione pratica a partire dal 1910, si enucleò dal seno del Partito Socialista nell'incessante battaglia condotta prima e durante la guerra contro il riformismo in tutte le sue varianti e metamorfosi e, nello stesso conflitto ma soprattutto nell'immediato dopoguerra, contro l'equivoco centro dei «massimalisti»; battaglia che sarà il necessario preludio alla costituzione del Partito Comunista d'Italia, sezione della III Internazionale, al congresso di Livorno, gennaio 1921.

Essa ha per teatro l'Italia, ma non sarebbe concepibile in tutto il suo percorso fuori dalla vigorosa offensiva antirevisionista ed antiriformista condotta dall'ala rivoluzionaria internazionale sull'arco di un ventennio; come sarà sottolineato in ogni pagina del presente volume.

La seconda parte riproduce in una stretta successione cronologica una massa notevole di testi (soprattutto articoli, ma anche discorsi e mozioni), apparsi dal 1912 all'estate 1919 e qui riprodotti ad illustrazione delle tesi svolte nella parte espositiva e a conferma di una continuità ed «invarianza» di posizioni teoriche e di battaglia, che unisce attraverso un filo ininterrotto l'estrema sinistra di allora e quella che oggi, sotto il nome di Partito Comunista internazionalista, si batte per il ristabilimento integrale del programma marxista e dell'organizzazione del partito di classe del proletariato.

Ogni scritto, di cui si é conservato (salvo rari casi da noi segnalati) il titolo originate, é preceduto da una noterella in corsivo che lo ricollega agli eventi descritti nella prima parte e alla linea storica generale della Sinistra rivoluzionaria marxista. Nella serie di questi testi - 68 in tutto, ai quali vanno aggiunti le mozioni, i programmi, i brani o le note complete di giornale pubblicati nello prima parte per gli anni 1914, 1915, 1916, 1917, 1918 e 1919 -, ne sono però inclusi, quando servono a illuminare il rapporto storico del tempo, taluni che provengono da movimenti diversi dal nostro ed anche avversi.

La seconda parte é quindi l'indispensabile completamento della prima: l'una non può utilmente essere letta senza l'altra.

Sia il testo di oggi, che i testi di allora, sono anonimi: gli unì e gli altri perché da noi considerati non già come espressione di idee o di «opinioni» personali, ma come testi di partito, e il primo per la ragione supplementare che è frutto di un lavoro di ricerca, di riordinamento e di compilazione collettivo, al quale non si addice nessuna etichetta di persona, e che non solo non comporta ma esclude la borghese e mercantile rivendicazione della peggiore forma di proprietà privata, quella «intellettuale».

 

 

Autunno 1963                                      Il Programma Comunista

 

 

 

 

LA LINEA STORICA DELLA SINISTRA COMUNISTA DALLE ORIGINI FINO AL 1919 IN ITALIA

 

Premessa.

 

Nel presente lavoro si vuol seguire la linea della formazione e dell'influenza sugli avvenimenti del partito politico della classe pro­letaria, lungo un periodo abbastanza lungo per istituire confronti utili tra l'indirizzo che il partito stesso si poneva e gli eventi succes­sivi, traendo gli insegnamenti dalle vicende e dalle stesse crisi del partito nei rapporti con tutta la società in cui esso si muove.

Un simile studio, come tende ad essere esteso il più possibile nel tempo, così dev'essere impostato su una vasta estensione di spazio e contemplare il gioco delle forze internazionali. Non si potrebbero utilmente trarre conclusioni dal movimento italiano, se non conside­randolo parte inseparabile del movimento europeo e anche mondiale, nelle varie tappe.

Storie e cronistorie del socialismo italiano ne esistono anche recenti e trattate con vari metodi; il rimandare ad esse senza citarle ci basta per avvertire che la nostra narrazione non deve essere ana­litica e particolare, né pervenire ad una cronaca di accadimenti di dettaglio sia interni che esterni al partito, ma vorrà seguire una linea a grandi tratti essenziali e giungere ad una grande sintesi senza ri­ferire di tutto il materiale di fatti utilizzato e compulsato, e meglio direttamente acquisito, dall'opera del gruppo collettivo che a questo lavoro ha provveduto.

Nel primo tratto di vita di un movimento socialista in Italia, seguiremo le vicende del contrasto tra due forme che si pongono come obiettivo al movimento; una è quella del partito politico aperto, cui accedono quanti decidono di operare sulla linea del suo programma; l'altra è quella operaista nel senso che il movimento, con formule varie, aderisce strettamente alla qualità operaia dei suoi membri, ed anche esclusivista - per secondario che sia un tale carattere nel senso che respinge l'adesione di chi quella caratteristica sociale esat­tamente non possieda.

Poiché di tale dualismo dovremo occuparci, è bene stabilire, per imboccare subito la rotta precisa che ci condurrà fino alla fine, che questo fenomeno è proprio di tutti i paesi e domina la storia di tutti i partiti socialisti d'Europa nel corso di più di un secolo; non sarà quindi mai sull'esperienza concreta di un solo paese che se ne potrà fare un bilancio che sorregga conclusioni generali. Per noi, è evidente avanti lettera, che la forma storica propria del partito proletario ri­voluzionario è quella aperta, nella quale un legame unico ed uniforme lega al partito ciascuno dei suoi aderenti, senza stratificazioni e di­scriminazioni, come il corso ulteriore porrà in risalto. Ogni marxista e dialettico comincia la sua esposizione coi dati di fatto mediante i quali deve convincere, avendo già davanti ben formata e precisa la propria conclusione.

È banale osservare che la forma di associazione politica per opi­nioni e per milizia di azione è quella stessa derivata dalla grande rivoluzione borghese coi suoi famosi club, e che l'originalità del nuo­vo movimento socialista starebbe nel sottolineare che il discorso è rivolto non al generico componente della società umana, ma ai mem­bri di una data classe. Sarebbe questa una versione fredda e non dia­lettica della funzione delle classi nella storia, che la nostra dottrina ha in effetti posto come suo cardine.

 

 

1          Origini del movimento proletario internazionale.

 

Se riandiamo la storia della Internazionale operaia quale si pre­parò nella prima metà del secolo diciannovesimo, vedremo che la pri­ma forma a delinearsi è quella appunto delle società di propaganda, in genere segrete a imitazione delle carbonerie, sorte in varie nazioni e tra loro collegate, che avevano come programma quello di spingere ai limiti estremi i principi ideologici della rivoluzione liberale; egua­glianza, giustizia, fratellanza. Prima di arrivare alla Lega dei Comu­nisti fondata verso il 1847 a Parigi da militanti di vari paesi, in gran parte operai, ma anche intellettuali, cui aderirono Marx ed Engels, attraversiamo forme spurie da cui i due fondatori del socialismo scientifico ben presto si staccarono, come le Leghe dei Proscritti, dei Giusti, dei Diritti dell'Uomo, e così via. Ben presto si scavò l'abisso tra quelle ideologie umanitarie, filantropiche, illuministiche ed anche cristianeggianti, e la nuova teoria atta a investire di sé il moto prole­tario anticapitalista; e il primo esempio di partito proletario si ebbe non in Inghilterra, prima nazione capitalistica sviluppata (il cartismo, malgrado i suoi innegabili legami col proletariato già numeroso, te­neva ancora di quei caratteri aclassisti), ma in Francia col concorso di profughi di vari paesi. Esso fu appunto la Lega dei Comunisti, che per prima si imbevve del principio che non vi può essere moto so­ciale rivoluzionario senza un'autonoma teoria rivoluzionaria, e tenne un primo congresso nell'estate 1847, poi in novembre-dicembre un se­condo, a cui vennero presentati vari progetti: dopo dieci giorni di dibattiti quello di Marx ed Engels, che fu Il Manifesto del Partito Comunista, risultò adottato all'unanimità, e ad esso ancor oggi noi ci colleghiamo, fermo restando che si parte da una storia non di prodotti letterari, ma di movimenti collettivi e sociali, per embrionale che ne fosse la prima organizzazione.

Tale documento contiene e una teoria completa della storia so­ciale umana, e un programma definito della lotta per la trasformazione sociale, e ne indica in modo positivo i mezzi e le vie. Esso non suppone un autore o un pensatore a cui il futuro debba attingere lumi, ma già dichiara di emanare da un ente collettivo, dichiarato partito politico, nato per la storica necessità degli eventi; non si lega alla storia e al compito di una sola nazionalità e di una lingua sola, ma dichiaratamente si pone su una base internazionale di battaglie e di conquiste.

Poiché teniamo ugualmente ad affermare che sappiamo in anti­cipo dove ci condurrà la rotaia continua su cui poniamo ora il piede, e che il risultato della vasta dimostrazione che intraprendiamo non è originale o frutto di speculazioni senza età, ma esisteva integral­mente nelle nozioni proprie della nostra scuola politica internazio­nale, prenderemo, ad esempio di questa sintesi e di questa concomi­tanza, nazione per nazione, del carattere con cui si forma dovunque il moto rivoluzionario antiborghese, il capitoletto introduttivo della classica Storia della Socialdemocrazia tedesca di Franz Mehring, traducendola qua e là, per maggior sicurezza, dall'edizione originale te­desca del 1897.

La storia del Mehring è stata sempre considerata un testo orto­dosso del marxismo, è stata progettata durante la vita di Marx e seguita da Engels fin che visse come opera di stretto discepolo, e negli ultimi anni della sua vita l'autore lottò contro la degenerazione del partito tedesco nella prima guerra mondiale.

Quest'opera fra l'altro contiene un brillante riassunto del primo Libro del Capitale di Marx nel quale si congiungono, cosa non facile, una presentazione concentrata e suggestiva, e una rigorosa fedeltà teoretica: il capitolo VII della sezione III, intitolato: «L'opera fon­damentale del comunismo scientifico»(1)

Stiamo però ora ricorrendo al Mehring solo per quanto dice nell'introduzione alla sua Storia. Egli avverte subito che il movimento tedesco ebbe fin da principio carattere internazionale, e mette in evidenza la derivazione dei primi socialisti tedeschi dalle lotte dell'Ovest e dalla letteratura socialista d'Inghilterra e di Francia. Marx ed Engels, quando scrissero il Manifesto, chiamarono a raccolta i proletari di tutto il mondo. Essi erano passati attraverso la scuola «della filosofia tedesca, della rivoluzione francese, dell'industria in­glese» una formula cardinale per i marxisti.

Il comunismo scientifico moderno che essi avevano fondato «fu però nuovamente travolto dall'ascesa economica e dalla decadenza politica degli anni '50» Si parla (è ben chiaro) del XIX secolo; ma non va forse bene anche per il XX?

Allora subentrò l'agitazione «concreta» (diremmo noi) di Las­salle, che non poté che copiare, ancora, il contemporaneo socialismo francese. I borghesi sofisticano sulle differenze tra socialismo e co­munismo. Nella lingua del decennio 1840-1850 il socialismo era un movimento borghese, il comunismo un movimento proletario. Anche Mehring dice che una traccia di tutto questo il partito la conservava nel suo nome di «socialdemocrazia». Ma in Francia si trattava di un socialismo fatto con l'aiuto delle classi possidenti e di un'alleanza con la sinistra democratica borghese; in Germania, in quanto il par­tito si inspirò a Marx e non a Lassalle, si fece appello alla forza del proletariato, indipendente da tutte le altre classi, sulla base dottrinale del Manifesto.

All'epoca del Manifesto dei Comunisti e della generale rivoluzione europea, che doveva consolidare e nel fatto consolidò l'avvento della società borghese, solo in Inghilterra e in Francia si erano già storicamente svolte grandi lotte dei proletari contro la borghesia indu­striale. Non è qui il caso di ricordare le lotte inglesi del «cartismo» nella loro tipica intersecazione con la lotta tra fabbricanti e proprietari terrieri, che culminarono nel gigantesco sciopero del 1842, in cui il proletariato intravide per un momento la conquista autonoma del potere politico, ma fu poi travolto dal blocco di tutte le classi pos­sidenti e del loro Stato. In Francia, nel 1830, il proletariato di Pa­rigi fece le sue prove immense nella rivoluzione di luglio, che rove­sciò i Borboni ma venne sfruttata dalla sola borghesia, e memorabile fu lo sciopero dei tessitori lionesi che per vari giorni tennero la città conquistata dalle loro formazioni col nero vessillo su cui era scritto: «o vivere lavorando o morire combattendo». Il loro moto prescindeva da fedi politiche o religiose.

Prima di dire che in Italia - non ci occupiamo qui di pensatori che meritano il nome di precursori, come i grandi Filippo Buonarroti, eroe della congiura di Babeuf, e Carlo Pisacane - all'epoca del 1848 e fino al compimento della unità nazionale nel 1861 non si possono riconoscere moti operai autonomi, vogliamo tornare all'analogia tedesca, e riferire la descrizione di Mehring della società germanica dopo il 1860.

Questa breve descrizione si trova nel capitolo I della sezione III intitolato: «Il proletariato tedesco intorno al 1863». Un grande pro­gresso dell'industria tedesca era seguito agli avvenimenti del 1848-49: ma nel 1863 il proletariato rurale era sempre in grande maggioranza. In Prussia, di fronte a 3,5 milioni di persone attive nell'agricoltura stavano soltanto 750 mila circa persone attive nelle fabbriche; ma in tali cifre non è ben chiara la distinzione tra salariati e conta­dini nell'agricoltura, e fra salariati e artigiani nell'industria. Co­munque, sommando alle cifre della Prussia quelle dell'Assia, della Sassonia, della Baviera, del Baden e del Württemberg, si può arrivare per la Germania ad oltre 2 milioni di artigiani contro meno di 1,5 mi­lioni di operai «puri» di fabbrica. Lo stesso autore avverte che non si tratta di cifre sicure e che molti «artigiani» erano in realtà lavo­ratori a domicilio sfruttati dal padrone capitalista: tuttavia, è certo che nella Germania del 1863 gli artigiani superavano gli operai indu­striali, e che le due classi riunite erano meno numerose dei lavora­tori della terra. In due soli paesi vi era già una predominante eco­nomia industriale, la Sassonia e il distretto di Düsseldorf, comple­tamente urbanizzati con una parte minore di territorio agricolo.

Il giudizio finale è che la Germania del 1863 non poteva an­cora definirsi un paese industriale. In questo quadro, in cui i pro­letari industriali sono in numero inferiore agli artigiani, con l'agi­tazione di Lassalle non sorge ancora un vero partito politico di classe ma la grande Associazione Generale Operaia Tedesca, che solo succes­sivamente diventerà un autentico partito e farà propria, attraverso non poche crisi, la dottrina del marxismo.

 

1) È un testo che andrebbe riprodotto in luogo proprio, e non resisteremo alla tentazione di darne un passo che giustificherebbe da parte di giovani no­stri collaboratori l'asserzione che anche il Mehring lesse cento anni prima i programmi russi!

«Dai precedenti tipi di lavoro non pagato il lavoro salariato si distingue in ciò che il movimento del capitale è smisurato e la sua avidità di plus­lavoro insaziabile. In formazioni economiche della società in cui predomina non il valore di scambio ma il valore d'uso del prodotto, il pluslavoro è limi­tato da una cerchia più o meno vasta di bisogni, ma dal carattere della pro­duzione non deriva un bisogno illimitato di pluslavoro. Ben altrimenti stanno le cose là dove predomina il valore di scambio. Come produttore di laboriosità altrui, come spremitore di pluslavoro e sfruttatore di forza-lavoro. Il capitale supera in energia, smodatezza ed efficacia tutti i processi di produ­zione precedenti, fondati direttamente sul lavoro coatto. Al capitale interessa non il processo di lavoro, la produzione di valori d'uso, bensì il processo di valorizzazione, la produzione di valori di scambio dai quali trarre un va­lore superiore a quello che vi ha immesso. L'avidità di plusvalore non cono­sce senso di sazietà; la produzione di valori di scambio ignora il limite che alla produzione di valori d'uso è posto dal soddisfacimento dei bisogni».

 

 

2.        Origini del movimento proletario italiano.

 

Una via non diversa seguirà il movimento italiano, tenuto conto di notevoli differenze nella situazione interna ed estera.

L'Italia aveva, sulla Germania, il vantaggio di una soluzione più completa della grande rivoluzione liberale, anche se si era in monar­chia e non in repubblica. Ogni forma di potere delle vecchie classi feudali era scomparsa statalmente e legalmente; inoltre, stava contro l'influenza del clero cattolico la violenta rivendicazione della Roma papale. Per contro, la Germania era tuttora dominata da forme sta­tali di tipo feudale che nemmeno gli effetti della guerra franco-prus­siana e della rivoluzione nazionale dall'alto contro l'Austria dovevano radicalmente eliminare.

La situazione economica italiana nel 1861 era invece di gran lunga più arretrata di quella tedesca. Nel 1861 la produzione di ghisa acciaio e ferro non superava le 125.000 tonnellate mentre nel 1914 se ne ebbero del solo acciaio 846.000 e nel 1957 6 milioni e 800.000. Nel 1870 le aziende industriali erano 9.000 con meno di 400 mila ad­detti laddove nel 1900 gli addetti salirono a 1.275.000, nel 1914 a 2.300.000 e nel 1951 a 4.257.000 contro circa 864.000 artigiani. È evi­dente che nel 1860 e nel 1870 non solo la proporzione della popo­lazione contadina sul totale era più forte della tedesca, ma anche quella degli artigiani in rapporto ai proletari industriali.

Senza addentrarci in questa sede nel confronto delle cifre, ripor­tiamoci al quadro sociale tedesco descritto dal Mehring per il 1863 ed anni successivi, e che servì di base all'organizzazione e agitazione di Lassalle, mezzo economica e mezzo politica, in cui la forma del par­tito socialista di classe non era ancora ben delineata.

Nell'epoca dunque in cui si formò la prima Associazione Interna­zionale dei Lavoratori (1864) - nella quale tuttavia gli elementi operai veri e propri, meno che per l'Inghilterra e in parte per la Francia, non erano ancora proletari d'industria ma per lo più pic­coli artigiani - la composizione della società italiana era molto più arretrata anche di quanto corrisponda allo «schema» di classi del Manifesto del 1848. L'unità nazionale si era formata accozzando fra loro staterelli che politicamente non erano da definirsi totalmente feudali, ma erano stati ben centralizzati per tradizione da secoli, con limitata influenza della aristocrazia terriera, laddove sotto il riguardo economico per la loro stessa piccola estensione avevano struttura ibri­da, non erano in possesso di un vero mercato nazionale, e, mentre gran parte della popolazione sparsa viveva di una economia ad isole ap­pena uscita dalla economia diretta e naturale, era all'inverso non già il libero commercio borghese ma un'economia interventista di Stato che portava alle città, da lunghi secoli molto addensate e popolose (specie nelle regioni che la cultura banale dichiara feudali, come Puglia, Sicilia, ecc. ), i generi alimentari.

L'imposizione dall'alto di una legislazione copiata su quelle borghesi, e adatta forse solo al Piemonte, alla Liguria e alle provin­ce ex austriache, ebbe per le classi inferiori, non proletarie ma pic­colo-borghesi, l'effetto di un incremento di miseria che provocò rea­zioni informi e non certo socialiste nella Romagna, nella Toscana, e poi nel Sud.

Tale il quadro che non possiamo qui stendere della società italiana nel momento in cui a Londra la rappresentava fra i proletari del mondo Luigi Wolff, segretario di Mazzini, il cui testo fu scartato a fronte di quello di Marx. I mazziniani erano stati i primi a scendere fra contadini ed operai, ma la loro ideologia era pietistica e associa­zionistica - in senso economico - e l'antitesi tra il sistema di Mazzini e quello di Marx è addirittura stridente, sebbene tardi se ne abbia consapevolezza in Italia.

Nel primo decennio di vita dell'Internazionale, tuttavia, non sono i marxisti che compaiono e conducono la lotta contro i maz­ziniani, bensì i seguaci dell'anarchico Michele Bakunin, che visse in Italia e vi ebbe largo seguito. Chi fa la storia del movimento italiano, è solo di bakuniniani che ha da parlare per i primi decenni, durante i quali il marxismo non è praticamente rappresentato e lo è solo da qualche studioso e non da moti delle masse, che invece i bakuniniani conducono con vigore anche in quanto la loro ideologia meglio ri­specchia il primitivismo sociale dell'ambiente.

Quando, dopo la Comune di Parigi e la sua caduta, alle glo­riose manifestazioni rivoluzionarie dell'Internazionale di Londra, con­densate nei famosi Indirizzi scritti da Marx per il Consiglio Gene­rale, succede una crisi non meno grave di quella del 1848 in seguito alla sconfitta di classe del proletariato, e si va dopo lotte violente verso la scissione tra marxisti e bakuniniani, le forze italiane sono tutte dalla seconda parte. La Federazione italiana, che anni prima aveva messo fuori dall'Internazionale i mazziniani, con tutte le sue forze decide, al congresso di Rimini dell'agosto 1872, di boicottare il congresso dell'Aja indetto dal Consiglio Generale per il 2 settembre.

Qui non interessa la cronaca e la ridda dei nomi, delle persone e delle accuse personali e scandalistiche, ma la portata del dissenso di allora (nel tempo successivo tanto mal compreso) che vale a stabilire che i marxisti, detti autoritari (e più tendenziosamente lega­litari), erano a sinistra e rappresentavano il potenziale della rivoluzione proletaria, mentre i libertari erano a destra e rappresentavano un confuso moto piccolo borghese, non classista e non rivoluzionario, ma solo a volte insurrezionista e terrorista nel senso individuale, non nel senso storico che il marxismo condivide.

Poiché ci interessa non meno il mostrare che non si tratta di una versione postuma delle lotte di allora, ma che la nostra valuta­zione è quella classica di tutta la grande, continua scuola marxista, ricorreremo ancora a una pagina del Mehring sulle lotte al congresso dell'Aja, contenuta nel capitolo XII della III sezione.

 

3.        Crisi della prima Internazionale: la deviazione libertaria.

 

La prima Internazionale fondata da Marx nel 1864, era nel 1872, quando si riunì all'Aja il suo quinto congresso, in piena crisi. La se­zione francese era stata schiantata dalla reazione che seguì la Co­mune del '71 e in Inghilterra le pesanti Trade Unions ne uscivano perché il Consiglio Generale, con gli storici Indirizzi di Marx, aveva sostenuto gli eroici comunardi parigini. Intanto un'opposizione si for­mava in paesi che, come la Spagna, l'Italia, il Belgio, l'Olanda, e una parte della Svizzera, erano allora tanto poco evoluti socialmente quanto la Francia e l'Inghilterra di prima del 1848. In questa situa­zione trova radici un socialismo «che non vuole saperne di politica, perché nelle lotte politiche delle classi possidenti gli ingannati fu­rono sempre gli operai». Questo socialismo è una forma arretrata rispetto alla posizione dialettica che presenta al proletariato la sua via nello sviluppo storico della società capitalistica come una lotta politica avente quale pegno il potere politico rivoluzionario.

Nella formazione dell'Internazionale, quest'ingenuo socialismo aveva potuto essere ammesso per condurlo a superare la sua posi­zione insufficiente. Ma esso divenne un pericolo mortale quando se ne pose alla testa Bakunin, che lo raccolse sotto il nome di anar­chismo.

Il testo del Mehring, in accordo con tanti del marxismo, svela la falsa considerazione che il movimento anarchico prese come moto attivista e insurrezionale, seducendo gli elementi «blanquisti» del movimento socialista malgrado la contraddizione che gli anarchici non vogliono nessun potere politico mentre i seguaci del francese Blanqui, pur dando importanza errata al metodo dei colpi di mano di una minoranza cospiratrice, erano per l'istituzione di una vera dittatura politica rivoluzionaria.

Tuttavia questo testo spiega come Marx (negli ultimi anni ab­biamo raccolto innumerevoli documenti che illustrano questo concet­to) prevedendo un lungo periodo di ristagno dopo la sconfitta della Comune volle evitare che l'Internazionale si trasformasse in una rete di cenacoli di stile piccolo-borghese, e ne fece decidere il trasporto in America pur potendo ancora all'Aja disporre della maggioranza. La situazione europea del tempo esigeva che si trasferissero le energie sul terreno del lavoro teorico, per la lotta, ininterrotta ed assidua, contro le deformazioni dovute a quello che poi dicemmo opportuni­smo, e di cui l'anarchismo è una delle prime edizioni.

In sostanza diamo con questi testi una prova che la linea della sinistra marxista comprende e fa tesoro di tutte le vigorose sconfes­sioni di Marx e di Engels contro i bakuniniani e i libertari del 1872.

Quasi contemporaneamente, i bakuniniani si riunivano in con­gresso separato a Saint-Imier rifiutando esplicitamente di riconoscere l'autorità del Consiglio Generale, che, dal canto suo, li espulse. Da questo momento avremo due Internazionali, quella influenzata da Marx e quella di indirizzo «anti-autoritario», la quale ultima rappre­sentava, in forma mutata e con l'apporto di forze nuove, la prosecuzio­ne dell'Alleanza della democrazia socialista fondata anni avanti da Ba­kunin, e che questi aveva simulato (favorito in ciò dal carattere di tipo massonico, segreto o quasi) di sciogliere onde poter entrare nell'Internazionale controllata da Marx. I convenuti a Saint-Imier carat­teristicamente proclamano: «1) La distruzione di ogni specie di potere politico è il primo compito del proletariato; 2) L'organizzazione di un potere politico, anche se di nome temporaneo e rivoluzionario, allo scopo di promuovere tale distruzione, non potrebbe recare altro che delusione».

Prima di tornare al movimento italiano che era tutto a Saint­-Imier e contro Marx e il Consiglio Generale, fermiamoci brevemente sul contenuto del dissenso. E, prima di ricordare quanto esso fu profondo in dottrina, autorizzandoci a classificare questo primo (sto­ricamente) nostro avversario nella serie lunghissima degli oppor­tunismi e immediatismi, fenomeni patologici della lotta di classe pro­letaria, rammentiamo che, come sempre avverrà, esso prese un primo carattere di disaccordo organizzativo. Qui si vede che noi marxisti ortodossi, come non abbiamo nulla di comune col termine di libertari (o con quello di liberisti o liberali di cui esso è una variante), così non possiamo che combattere ogni federalismo e autonomismo. Ve­dremo nel lungo corso la corruzione e il disfacimento opportunista avanzare sempre nella forma delle autonomie locali regionali o na­zionali e delle regole di organizzazione «centrifughe»; mentre sotto tutti i cieli e le intemperie noi marxisti radicali ci atteniamo al centralismo e alle organizzazioni anche internazionalmente «centripete».

Qual'era la pretesa dei dissidenti? Che il Consiglio Generale di Londra non avesse facoltà di dirigere l'azione delle federazioni nazio­nali, che si dovevano governare da sé, anzi non dovevano nemmeno pretendere di dirigere tutte le loro sezioni provinciali o urbane, che erano autonome anche nell'azione insurrezionale. Il Consiglio Gene­rale non doveva essere, come Marx disse col suo tremendo vigore sar­castico, che una «cassetta per le lettere», chiamandosi «ufficio di corrispondenza». Chi non vede che la storia dell'opportunismo copia senza posa se stessa, e che il terribile rivoluzionarismo dei libertari non fa che precorrere i russi da essi aborriti nelle loro ultime for­mule di diverse vie nazionali al socialismo; come su questa lunga via troveremo il cretinismo parlamentare quando chiederà che in ogni «collegio» l'organizzazione locale sia autonoma nello stringere blocchi coi partiti borghesi, e poi, nel parlamento, autonoma nella sua condotta la frazione, o gruppo, parlamentare?

Il Consiglio Generale, che con i grandi atti storici degli Indirizzi alla Comune di Parigi aveva già mostrato l'importanza primaria di un centro unico della strategia rivoluzionaria mondiale, conquista che sopravvisse di gran lunga alla sconfitta come per la III Internazionale è sopravvissuta ai suoi turpi liquidatori cominformisti, respinse le pretese degli autonomisti e rivendicò il concetto irrevocabile del cen­tralismo di organizzazione, punto cardinale che resta in piedi mal­grado la lunga opera demolitrice dei libertari.

Per quanto riguarda l'inconciliabilità della nostra dottrina con quella degli anarchici, si dicano essi individualisti o comunisti, am­mettano l'associazione economica dei lavoratori e gli scioperi, o ne­ghino come nel primo bakuninismo anche questi, basta riportarsi fra l'altro agli appunti luminosi di Marx sul libro di Bakunin Stato e Anarchia. Bakunin protesta perché i marxisti dicono che il proleta­riato avrà bisogno di uno Stato «nuovo» che sorgerà dalla rivolu­zione. Egli vuole che questa ponga fine ad ogni forma di Stato. Marx, il quale scriverà infine che l'espressione libero Stato popolare non è che «una insulsaggine» del suo seguace G. Liebknecht, spiega che il proletariato, abbattuto il potere borghese, «deve adoperare mezzi violenti, cioè governativi» perché rimane esso stesso ancora una classe (dominante come nel Manifesto dopo il primo stadio della sua organizzazione in partito - che governa, governa con un par­tito) e perché, per sopprimere tutte le classi, quelle non proletarie devono essere «violentemente eliminate o trasformate e il processo della trasformazione violentemente accelerato». Si legge qui che la borghesia e la classe terriera si eliminano con la violenza, le piccolo-borghesi si trasformano parimenti con la violenza e non con la per­suasione. Gli anarchici sono sempre stati profondamente educazionisti, e si vede qui quanto fossero falsi pastori nella pretesa che Marx fosse ripudiato da Bakunin perché non credeva nella violenza e nel terrore; lui, il red terror doctor degli inglesi!

Altro non servirebbe citare; basti dire che è fatta giustizia della formula, populista e dei moderni comunisti russofili, di passare la grande proprietà alle famiglie contadine, chiodo di Bakunin.

Mentre Marx è determinista, Bakunin è volontarista; egli vede nello Stato il male supremo, il metafisico principio del male a cui non pure gli idealisti borghesi ma addirittura i fideisti tutto riducono. La polemica di Marx nella Prima Internazionale è un atto della stessa lotta contro l'opportunismo controrivoluzionario, che nella Terza In­ternazionale, a mezzo secolo di distanza, condurrà il Lenin di Stato e Rivoluzione. L'antidialettica di Bakunin è la stessa di tutti i diffa­matori del bolscevismo russo, che non mancheranno di servirsene. Marx ed Engels gli dicono: tu vedi nello Stato, base di tutti i mali ab aeterno, la causa del capitale e del padronato capitalista; non ca­pirai quindi mai che è il capitale la causa dello Stato moderno; per­tanto, stai storicamente al di qua del vero moto rivoluzionario, e con te, che tieni di Proudhon e di Stirner, tutti gli immediatisti.

 

 

4.        Primi marxisti in Italia.

 

Ci è utile, per tornare all'argomento italiano, una lettera di Engels sul principio di autorità, da lui indirizzata ad uno dei primi socialisti marxisti italiani, il Bignami, che la pubblicò nell'«Almanacco repubblicano» per l'anno 1874 (e noi la riportiamo dagli Scritti Italiani di Marx ed Engels, ed. Avanti!, 1955). In essa è il brano famoso: «Una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che vi sia; é l'atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all'altra parte col mezzo di fucili, baionette e cannoni, mezzi autori­tari se ce ne furono; e il partito [nota bene!] vittorioso, se non vuol avere combattuto invano, deve continuare questo dominio col terrore che le sue armi [del partito] inspirano ai reazionari». E la lettera conclude accusando gli antiautoritari o di seminar la confusione o di tradire il proletariato, a vantaggio in entrambi i casi della reazione.

Questi ed altri cento documenti stabiliscono quale errore sia sem­pre stato il considerare l'avversione di Marx, di Engels e del movi­mento socialista internazionale per gli anarchici come una rinunzia ai mezzi insurrezionali e rivoluzionari; lunga e dura illusione soprat­tutto in Italia, che solo successive situazioni storiche, dopo la rivo­luzione russa, avevano trionfalmente dispersa.

 Il Bignami in effetti è il primo nome di marxista che si trovi nelle storie a tipo di cronaca per protagonisti. Il suo periodico «La Plebe» cominciò a pubblicarsi a Lodi nel 1868. Invero il sottotitolo della «Plebe» era «periodico repubblicano, razionalista, socialista» ma non sono giuste le valutazioni derivate da accuse anarchiche che l'indirizzo fosse di un socialismo «maloniano», ossia umanitario e alieno dai mezzi violenti. La corrispondenza con Engels ne è una suf­ficiente prova. La qualifica di repubblicano è efficace nei confronti della tendenza (che sorgerà poco più oltre) secondo cui i socialisti devono essere «agnostici» in materia istituzionale, ossia indifferenti a lavorare in monarchia o in repubblica, grave malattia opportunista sempre combattuta da ogni marxista radicale. L'aggettivo razionalista basta a chiarire che non si tratta della repubblica alla Mazzini, che è, giusta la formula Dio e Popolo, nettamente teista. Populismo e teismo vanno bene assieme.

Altri giornali dell'epoca sono chiaramente dominati dall'indirizzo libertario; lasciamo ad altri ricercatori ogni dettaglio in argomento.

Il 1° settembre del 1873, Ginevra vede riuniti due distinti con­gressi, dei marxisti e dei bakuniniani. Al primo aderiscono due sole sezioni italiane: Lodi e Aquila, che si erano scisse dalla «Federa­zione italiana dell'Associazione internazionale dei lavoratori». È chia­ro che a quel congresso si definirono i legami fra Marx-Engels e la sezione di Bignami, di cui fu conseguenza il fondamentale articolo dell'Almanacco 1874 che passa in posto d’onore nell'archivio teorico della Sinistra.

Gli anni seguenti sono riempiti dai vivaci tentativi insurrezionali degli internazionalisti italiani. Non è facile provare la affermazione che i primi socialisti non libertari condannassero quei moti; essi di­fesero in quanto valorosi compagni proletari le vittime della persecu­zione poliziesca e giudiziaria della borghesia. Nel 1874 insorsero prima i romagnoli, e in seguito alla sconfitta Bakunin fuggi da Bologna ove attendeva l'esito del moto partito da Imola, antica cittadella rossa; poi i moti, che risentivano palesemente della mancanza di un centro nazionale dirigente, si ebbero anche altrove, ma soprattutto nel Be­neventano (1877). La lezione storica di questo periodo è che l'autono­mismo locale è sempre fattore disfattista di ogni movimento rivolu­zionario: l'unità statale borghese va colpita nei gangli vitali del cen­tro, come nella Comune di Parigi.

Possiamo riferire a Bologna, marzo 1880, non un congresso ma un primo convegno che si prefigge di fondare un partito socialista; l'iniziativa, tuttavia, non ebbe seguito immediato.

Tra il 1873 e il 1880, il movimento della Internazionale baku­niniana, oggetto di violente persecuzioni poliziesche e giudiziarie da parte del regime monarchico italiano, tiene altri congressi, ma dopo il decennio si estingue e si trasforma in movimento anarchico, che preferisce funzionare per gruppi locali e ammette solo un vago fede­ralismo talché i congressi nazionali e internazionali appaiono ai se­guaci di tale indirizzo, ancora numerosi, una forma inutile.

La Federazione italiana della Internazionale bakuninista, dopo il congresso di Rimini 1872, ne tiene un secondo a Bologna nel 1873, un terzo a Firenze nel 1876, un quarto a Pisa nel 1878. Dopo, la federa­zione dell'Alta Italia si dovette riunire a Chiasso nel 1880 e non votò indirizzi, per la tesi anarchica contro la sovranità dei congressi. Alla vigilia poi del definitivo distacco tra anarchici e socialisti, ma sotto la pressione della tendenza generale alla forma di partito nazionale politico, gli anarchici si riunirono a Capolago nel 1891 come Federa­zione Italiana del Partito Socialista Anarchico Rivoluzionario. Fra contrastanti tendenze fu eletta, come solo organo centrale, una commissione di corrispondenza.

Per seguire nel decennio 1880-1890, e fino al 1892, la formazione del partito politico socialista fa d'uopo seguire non più i libertari che in Italia rappresentavano l'Internazionale (non più marxista), ma la lunga serie delle organizzazioni operaie che si andarono formando dopo la costituzione dell'unità nazionale con obiettivi all'inizio più che limitati.

Già prima del 1860 vi erano stati nel Piemonte congressi delle Società Operaie. Tali società erano sorte da tempo sotto la tutela paternalistica dei governi con scopi di assistenza mutua che nell'epoca si attuava con fondi sorti da modesti versamenti degli associati da cui si traevano sussidi di malattia e di infortunio, talvolta con vaghi scopi educativi che la chiesa faceva in modo di avocare a sé. Dopo lo statuto del 1848, la tendenza di destra facente capo ai liberali sosteneva che gli operai, se come cittadini andavano chiamati ai di­ritti del suffragio, come categoria sociale nei loro congressi non do­vevano trattare di questioni politiche. Ma una tendenza di sinistra, nella quale si muovevano i liberali radicali, i mazziniani, e alcuni pri­mi socialisti, compieva sforzi in senso opposto, e nel 1859 a Novi riuscì a far votare la sottoscrizione operaia per un milione di fucili a Garibaldi.

Nell'ottobre 1860 si riunisce a Milano l'ottavo congresso delle Società Operaie italiane. Una prima tendenza a passare dal campo della «mutualità» a quello della «resistenza» si manifestò nella pro­posta dell'organizzazione per settori d'arte e di mestiere, contro i piemontesi che erano per una organizzazione indistinta o, come si diceva, «cumulativa», atta solo a scopi di assistenza e non a quelli che poi si dissero sindacali.

Al congresso di Firenze nel 1861, i mazziniani si impadronirono del movimento delle Società Operaie, da cui si scissero quelle di ten­denza moderata. A Roma, nel 1871, il congresso delle Società Operaie aderì con un ordine del giorno ai principi sociali e politici di Maz­zini, provocando l'uscita di alcuni delegati aderenti all'internazionali­smo libertario, come il Cafiero. Le Società Operaie affratellate di tipo mazziniano si riunirono ancora nel 1874 a Roma, dove si pronunziarono contro gli scioperi, ritenuti «in massima dannosi», e invitarono le Consociazioni regionali a prevenirli «con ogni sforzo... contrapponendo, qual riparo alle ingiuste esigenze del proprietario, l'associazione del capitale col lavoro», e la costituzione di «arbitrati misti di operai e proprietari»! A Genova nel 1876, sempre sotto l'influsso repubbli­cano, un congresso votò contro la partecipazione alle elezioni poli­tiche finché non vi fosse il suffragio universale (non va dimenticato che i mazziniani puri erano e furono sempre astensionisti in mo­narchia).

A Bologna 1880 un congresso nazionale delle Società di Mutuo Soccorso, con intervento di repubblicani e socialisti, si oppose a pro­getti governativi di riconoscimento statale delle mutue e relativo controllo statale delle loro casse (che precorrevano la tendenza a bloc­care il sindacato operaio nella macchina statale) e tenne una con­ferenza per il suffragio universale.

Si era ormai delineata l'esigenza di riunire le associazioni ope­raie in un partito politico nazionale, ma i programmi non potevano essere chiari in un paese, come l'Italia, con una stratificazione sociale ambigua, e tra le influenze di tipo piccolo-borghese dei libertari da una parte e dei liberali o semiradicali costituzionali dall'altra. Siamo alla vigilia della costituzione di un Partito Operaio, che avrà origine a Milano.

Ma di grande interesse è la riunione a Rimini, nell'agosto 1881, del I congresso del Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna. Anima di tale iniziativa fu Andrea Costa. Nel '79 il grande agitatore si era staccato dai libertari, dei quali era stato uno dei maggiori esponenti in Italia, e nell'81 aveva fondato a Cesena il glorioso «Avanti!». Non è nel nostro proposito svolgere tali dettagli storici, ma lo po­trebbero fare ricercatori che non si fermino alle polemiche e alle vi­cende personali e di persecuzione ed esilio degli agitatori del tempo, ma guardino a fondo al loro apporto alla precisazione dei programmi di partito. È noto che il Costa fu un propagandista e un agitatore ma­gnifico, e non solo, anche un ottimo organizzatore; ma forse la sua opera di teorico è rimasta poco conosciuta mentre indubbiamente fu notevole. Alla fine di quel decennio il marxismo si introdusse in Italia; e con grande fatica si dispersero, seppure non in tutto, le deformazioni polemiche dei Mazzini e dei Bakunin. L'errore libertario cominciò a vacillare. A noi non sembra molto importante che un grande anar­chico, Carlo Cafiero, prima di morire nel 1882 abbia inviato al Bignami della «Plebe» una lettera in cui approvava la partecipazione alle elezioni politiche; molto importante è invece che proprio Cafiero ab­bia stampato in Italia il famoso riassunto del Capitale, quando era in­tellettualmente in pieno vigore.

Per Andrea Costa, era cosa ben chiara che l'adozione della tat­tica elettorale, se distingueva i socialisti dagli anarchici (e non da tutti questi), non aveva affatto il carattere, a cui per venti o tren­t'anni tutti hanno creduto, di ammettere che il potere politico possa dal proletariato essere conquistato per via legale e senza rivoluzione armata.

La premessa al programma del Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna (Rimini 1881) è, sotto questo profilo, di una straordinaria lucidità, e di una formulazione ineccepibile (in appendice a G. Mana­corda, Il movimento operaio italiano attraverso i suoi congressi Roma, ed. Rinascita, 1953):

«Considerando:

che condizione primordiale della emancipazione umana delle classi la­voratrici, e perciò di tutti gli esseri umani, è la emancipazione economica;

che questa non può ottenersi se non quando le classi lavoratrici delle città e delle campagne si impossessino, pel bene di tutti, della terra e dei capitali e, per conseguenza, di tutto il potere politico militare e sociale, che da il loro possesso;

che, l'esperienza storica dimostrando come una classe privilegiata non ceda mai pacificamente i suoi privilegi secolari, l'appropriazione della terra, del capitali e di ogni potere sociale non può avvenire se non per via di rivoluzione, tanto che la rivoluzione non é soltanto il miglior modo, che noi proponiamo, per sciogliere efficacemente la questione sociale ed emancipare le moltitudini, ma è una fatalità storica inevitabile, che noi non facciamo se non formulare, rendere cosciente ed affrettare con tutte le forze nostre; per queste ragioni:

il Partito Socialista di Romagna è e non può non essere rivoluzionario.

La rivoluzione è, prima di tutto, un'insurrezione materiale violenta delle moltitudini contro gli ostacoli, che le istituzioni esistenti oppongono alla affer­mazione e alla attuazione della volontà popolare.

La rivoluzione é perciò, prima di tutto, dittatura temporanea delle classi lavoratrici, cioè accumulazione di tutto il potere sociale (economico politico militare) nelle mani dei lavoratori insorti, allo oggetto di atterrare gli ostacoli, che il vecchio ordine di cose oppone all'instaurazione del nuovo, di difendere, di provocare, di propagare la rivoluzione, e di eseguire l'espropriazione dei privati, di stabilire la proprietà collettiva e l'ordinamento sociale del lavoro».

 

Il programma osserva poi che la «trasformazione dalle radici di tutto l'ordinamento sociale» al quale il socialismo mira, non può avve­nire per opera «di cospirazioni, di raggiri diplomatici e di decreti», né di «tentativi di rivolta di minoranze audaci» (tentativi che non sconfessa, ma lascia alla «iniziativa individuale»), bensì richiede «non solamente la cooperazione degli individui coscientemente socia­listi e rivoluzionari, che non sono generalmente mai se non una pic­cola minoranza, ma... la cooperazione efficace ed energica delle molti­tudini dei salariati industriali e agricoli».

Non respinge le riforme e le rivendicazioni immediate e contin­genti, ma proclama che «per noi [esse] non sono che un'occasione, un mezzo di attrazione e di lotta - mezzo passeggero il quale non impedisce che rendiamo possibili e approfittiamo di altre manife­stazioni dell'attività popolare e rivoluzionaria, particolarmente quan­do ogni manifestazione legale ci sia resa impossibile».

Dichiara che la rivoluzione deve:

«essere preceduta da un'ampia propagazione delle idee socialistiche rivoluzionarie ed aver per organo un partito fortemente ordinato [ecco un bal­zo avanti nettissimo dal concetto anarchico del partito come rete elastica di gruppi autonomi, o addirittura del non-partito], capace di provocarla, quan­do esistano le condizioni necessarie alla sua buona riuscita, e d'inspi­rarla e anche di dirigerla, quando sia scoppiata.

Perciò il nostro partito ha un doppio oggetto: quello di svegliare con la parola, con gli scritti, con gli esempi, e all'uopo con altri mezzi, le mol­titudini assopite delle città e delle campagne, preparandole alla rivoluzione che si va compiendo inesorabilmente nella società per opera di quegli stes­si fattori sociali, che ora ci tengono oppressi; e quello di approfittare della occasione favorevole per rovesciare le moltitudini stesse sull'ordine esisten­te, inspirarle e dirigerle nella lotta e far ogni sforzo perché la rivoluzione dia quei frutti, che le moltitudini ne aspettano».

 

Quanto sappiamo dell'Andrea Costa dei momenti migliori, tra l'altro precursore del più reciso anticolonialismo, permette a noi di inserirlo nella traccia storica dell'autentica sinistra italiana.

Abbiamo qui l'attestazione programmatica della dittatura mar­xista del proletariato, che i socialisti tedeschi tenevano nascosta, co­me Lenin svelò. Essa non era ignota in Italia, sebbene soffocata dalla menzogna che gli anarchici sono per la violenza e che i socialisti se ne staccarono per pacifismo sociale.

La storia dell'Angiolini (Cinquant'anni di socialismo in Italia), noto riformista, e ben destro, edita a Firenze nel 1900, in tutte le pagine presenta gli antianarchici non solo come autoritari, che è termine valido e da noi rivendicato, non solo come legalitari, ma perfino come «transigenti» ed «evoluzionisti», il che è grossa svista programmatica almeno quando non si guardi alla tendenza socialista di destra che, come vedremo, nasce non nel 1890 ma nel 1900, per dominare fino al 1910 (e debordare oscenamente oggi, dal 1925 in poi).

Eppure l'Angiolini, che a modo suo rivendica il marxismo teorico, non può non scrivere a pag. 61 queste parole: «Il Marx voleva come scopo finale l'associazione dei produttori basata sulla proprietà col­lettiva del suolo e degli strumenti di lavoro, e come mezzo la dittatura politica e transitoria della classe operaia».

 È il passo dove lo con­trappone giustamente a Bakunin, il quale voleva che l'Internazionale «fosse del tutto indifferente alla questione della forma di governo».

Se dunque è vero, come abbiamo cento volte denunziato, che nel secondo volume dell'edizione Avanti! delle opere di Marx, Engels e Lassalle, 1914 (lettera di Marx sul programma di Gotha) la parola dittatura (quel Wörtchen del cornutissimo Kautsky) fu falsata in «critica rivoluzionaria del proletariato», non è men vero che dal 1900 essa girava stampata (come gira in Europa dal 1848 nelle Lotte di classe in Francia) per tutta Italia.

I filistei indigeni finsero di scoprirla nel 1917. I filistei russi la stanno in questi giorni seppellendo!

Da questo momento abbiamo due correnti che confluiranno nel formare il partito proletario di classe: una è quella del Partito Socia­lista Rivoluzionario di Romagna di cui ora abbiamo detto e che dal terzo congresso a Forlì nel 1884 prenderà il nome di P.S.R. italiano, l'altra è quella del Partito Operaio, la cui prima sezione nasce a Milano nel 1882 e alla cui attività in quegli anni contribuirà il gio­vane avvocato Filippo Turati. È da notare che il Partito Operaio al suo inizio è «operaista», o, per dirla all'inglese, laburista, non vuole avere una ideologia politica, non vorrebbe organizzare se non lavo­ratori salariati e manuali, ed è - come gli anarchici - astensionista elettorale per orrore degli intrighi corruttori della politica borghese. Rispetto a tali posizioni sarà un passo avanti quello di ammettere nel partito tutti i militanti aventi un'opinione teorica socialista, di darsi un chiaro programma politico e di partecipare in opposizione a tutti i partiti borghesi alle lotte elettorali. Nel 1885 si tiene a Milano il I congresso del Partito Operaio Italiano. Ancora si respinge, pur salutando il Partito Socialista Rivoluzionario e auspicando la riunione con esso, la lotta politica, e si definisce il partito come «economico». Al partito aderiscono associazioni operaie e di arte (oggi diremmo di categoria): suo strumento principale di lotta è lo sciopero. A Mantova nel 1885 il partito si unifica con la Confederazione Operaia Lombarda, influenzata da radicali democratici, ma poi svoltasi in senso socialista. A questo congresso vi è Costantino Lazzari, autentico proletario marxista. È originale la sua soluzione agnostica del problema elettorale: il partito «non avendo alcun programma di governo» lascia libere le sezioni di partecipare o no alle lotte elettorali. Chi conosce il pensiero del bravo Lazzari sa che egli non intendeva dire che la borghesia tenesse pure in mano il governo quanto voleva, ma, all'opposto, che i socialisti non dovevano entrare in governi borghesi democratici; sbocco della tattica parlamentare che il futuro dimostrò in Europa quasi inevitabile. La detta posizione fu ribadita ancora a Mantova nel 1886. Ma nelle elezioni di quell'anno il Partito Operaio, pur riaffermando la propria «indipendenza di fronte a tutti i partiti politici come rappresentanti degli interessi dei capitalisti», scese in lotta a Milano senza successo, mentre il Partito Socialista Rivoluzionario faceva riuscire Costa ad Imola e Moneta a Mantova. Il Partito Operaio, oggetto di processi e persecuzioni, tenne il III congresso a Pavia nel 1887, il IV a Bologna nel 1888, il V (che fu l'ultimo) a Milano nel 1890. L'evoluzione interessante è la sostituzione delle vecchie società operaie di mutuo soccorso con le leghe di resistenza e l'adozione aperta del metodo dello sciopero. Mentre i congressi delle Fratellanze di mutue, già dominate dai mazziniani, si andavano svuotando di ogni carattere di classe, maturavano le condizioni per un congresso di unificazione di tutte le forze socialiste in un partito politico unico.

 

5.             Genova 1892: il Partito Socialista.

 

Il celebre congresso di Genova del 1892 che dette i natali, come si suo] dire, al Partito Socialista Italiano, è anche ben noto non come un congresso di unificazione, ma come il congresso della divisione fra anarchici e socialisti. In effetti le correnti romagnole del Partito Socialista Rivoluzionario e quelle lombarde del Partito Operaio trovarono un terreno comune di natura pratica nella partecipazione alle elezioni, a cui gli anarchici e gli operaisti puri si opponevano, sebbene in quel torno non senza alcune concessioni (Comuni, candidature agitatorie di condannati e simili). Il congresso fu drammatico e tumultuoso: vi prevalsero i socialisti politici che si erano formati al marxismo e che erano per la fondazione di un partito solidamente unico e disciplinato che conducesse tutta l'azione del proletariato italiano. Dall'incontro uscirono due partiti dello stesso nome: Partito dei Lavoratori Italiani; ma l'uno era di principi anarchici, l'altro di principi marxisti. Nel campo marxista, come sempre avviene in tali svolte, non si chiarirono le differenze tra la visione rivoluzionaria e quella, già allora apparsa in Europa, riformista o revisionista. Ne venne il famoso programma di Genova 1892 che il partito conservò fino al 1921, quando a Livorno ne uscirono i comunisti. Occorre riportare questo programma nel suo testo integrale, perché giustifica la critica che i rivoluzionari ne fecero dopo la guerra 1914-18, pur non avendo prima chiesto che fosse modificato.

In esso la tattica della partecipazione elettorale prende una formulazione di principio che non si concilia con la teoria marxista dello Stato e del potere, chiarissima già nel Manifesto del 1848 e negli Statuti della Prima Internazionale del 1864, a cui pure il partito proclamò sempre fedeltà. Non è infatti detto che solo a fini di propaganda e di agitazione si entrerà nel parlamento e nelle amministrazioni locali, ma si giunge a dire che tali organi, e lo stesso Stato, sono da conquistare per «trasformarli» in strumenti di espropriazione della borghesia capitalistica.

Ecco il testo del trentennale programma:

«Considerando

che nel presente ordinamento della società umana gli uomini sono costretti a vivere in due classi: da un lato i lavoratori sfruttati, dall'altro i capitalisti, detentori e monopolizzatori delle ricchezze sociali;

che i salariati d'ambo i sessi, di ogni arte e condizione, formano per la loro dipendenza economica il proletariato, costretto ad uno stato di miseria, d'inferiorità e di oppressione;

che tutti gli uomini, purché concorrano secondo la loro forza a creare e a mantenere i benefici della vita sociale, hanno lo stesso diritto a fruire di cotesti benefici, primo dei quali la sicurezza sociale dell'esistenza;

riconoscendo

che gli attuali organismi economico-sociali, difesi dall'odierno sistema politico, rappresentano il predominio dei monopolizzatori delle ricchezze sociali e naturali sulla classe lavoratrice;

che i lavoratori non potranno conseguire la loro emancipazione se non mercé la socializzazione dei mezzi di lavoro (terra, miniere, fabbriche, mezzi di trasporto, ecc.) e la gestione della produzione:

ritenuto

che lo scopo finale non potrà raggiungersi che mediante l'azione del proletariato organizzato in Partito di Classe, indipendentemente da tutti gli altri partiti, esplicantesi sotto il doppio aspetto:

1)  della lotta di mestieri per i miglioramenti immediati della vita operaia (orari, salari, regolamenti di fabbrica, ecc.) lotta devoluta alle Camere del Lavoro ed alle altre Associazioni di arti e mestieri;

2)  di una lotta più ampia intesa a conquistare i poteri pubblici (Stato, Comuni, Amministrazioni pubbliche ecc.) per trasformarli, da strumenti che oggi sono di oppressione e di sfruttamento, in uno strumento per l'espropriazione economica e politica della classe dominante;

i lavoratori italiani, che si propongono la emancipazione della propria classe, deliberano:

di costituirsi in Partito, informato ai principi suesposti».

 

Tradizionalmente i «principi» che dal programma di Genova venivano stabiliti, erano: lotta di classe - socializzazione dei mezzi di produzione - organizzazione del proletariato in partito politico - indipendenza da tutti gli altri partiti. Non dobbiamo qui richiamare come in tali formule non si racchiuda tutto il marxismo rivoluzionario, che da quando era sorto aveva chiaramente parlato di conquista del potere politico col mezzo della violenza rivoluzionaria, di distruzione dello Stato parlamentare borghese, di dittatura del partito proletario per l'abbattimento del capitalismo. L'espressione finale di espropriazione economica e politica della classe dominante fu particolarmente vaga, e lunga causa di confusione. Egualmente poco chiara è la rivendicazione della «gestione della produzione», in cui manca il soggetto: il sindacato? lo Stato? E allora, lo Stato dovrebbe durare in eterno?

Non sono dubbi su formule letterarie: è il contenuto reale di una lunga e sanguinosa lotta di decenni in Italia e in Europa.

Nei primi cinque congressi del nuovo partito, fino a Bologna 1897, fu per tutti chiaro che lotta di classe e indipendenza. da tutti gli altri partiti significavano rifiuto di alleanze elettorali e parlamentari con ogni partito, anche radicale. Dopo le lotte del 1898, quando la monarchia italiana si poggiò su governi di destra, questo principio venne scosso, e la sanzione se ne ebbe a Roma nel 1900 (VI congresso) con la vittoria della corrente riformista e dei suoi brillanti esponenti (Turati, Bissolati, Prampolini, Treves, Modigliani, ecc.).

A Reggio Emilia nel 1893 tutti furono per l'intransigenza e contro ogni alleanza. Nelle firme dell'ordine del giorno che prevalse sull'altro, pure intransigente, firmato da Turati, troviamo i nomi di Lazzari, Serrati, Agnini; nel seguito, e fino alla crisi del dopoguerra, esponenti con altri del marxismo di sinistra.

III congresso, Parma 1895. La maggioranza adotta in tema di organizzazione un chiaro ordine del giorno centralista contro uno di stile federalista. Da questo momento si parla di Partito Socialista Italiano. Sulla tattica, la maggioranza è per l'intransigenza contro un ordine del giorno che ammette timide eccezioni locali.

IV congresso, Firenze 1896. Segue alla caduta di Crispi che aveva represso i Fasci siciliani, e all'amnistia concessa da di Rudini ai condannati. Di importante il voto contro l'ammissione al partito di associazioni economiche e peggio elettorali, e per la sola forma dell'adesione personale. Sulla tattica elettorale, a un ordine del giorno Sambucco di assoluta intransigenza ne fu preferito uno di Enrico Ferri con lievi eccezioni per i ballottaggi.

V congresso, Bologna 1897. Fu respinto un tentativo contro l'organizzazione accentrata del partito. Sulla questione agraria fu votato un ordine del giorno Agnini per l'organizzazione dei salariati e la constatazione che la piccola proprietà tende a sparire. In questo congresso Turati mise avanti l'idea dell'autonomia dell'organizzazione locale negli accordi elettorali. Ferri - che allora passava per marxista di sinistra, - propose la conferma della tattica di Parma. I voti furono: Ferri 97, Turati 90. L'intransigenza assoluta in un ordine del giorno Ciotti era stata respinta con 123 voti contro 66: si andava verso la vittoria dei riformisti al congresso di Roma.

Non è solo nei congressi, tuttavia, che possiamo trovare traccia della lotta della sinistra radicale e marxista, ma anche in altre manifestazioni della lotta socialista. Una delle più difficili è quella della difesa dei militanti processati nei giudizi successivi alle repressioni poliziesche, e che pure ai fini della difesa, e sotto la pressione degli avvocati patrocinatori inviati dal partito, avrebbero avuto ogni ragione di smussare le formule dei loro principi.

Dopo di aver citato Andrea Costa ricorderemo quindi un altro autentico rappresentante della sinistra rivoluzionaria: Nicola Barbato, medico, processato a Palermo dopo il movimento dei Fasci nel 1894. Aveva 34 anni, la condanna fu a 14. Il brano del suo discorso, che prendiamo dal volumetto delle Edizioni Avanti!, Milano 1958, Autodifese di militanti operai... davanti ai Tribunali, è mirabile non solo per il coraggio ma per la chiarezza teorica che in tutta la sua vita caratterizzò quel compagno modesto quanto valoroso, vero esempio di marxista genuino.

Barbato anzitutto deplora che il socialista di destra Montalto, coimputato, abbia sconfessato gli anarchici chiusi nella stessa gabbia. Barbato non nega le differenze teoriche, ma con parola eloquente saluta quei generosi combattenti della rivoluzione alla testa degli sfortunati proletari e carusi di Sicilia.

Entra poi nella parte del discorso difensivo che risponde alle accuse del Tribunale militare. Riportiamo quel testo ammirevole:

«Io, milite oscuro del socialismo, mi onoro di appartenere alla falange dei rivoluzionari; cioè non credo che il fenomeno delle insurrezioni a mano armata possa evitarsi nella più grande e più umana delle rivoluzioni della mia specie. Qui è il punto principale che divide me da Montalto, Bosco, Petrina e Verro: essi credono che la rivoluzione socialista si compirà senza insurrezioni armate. Secondo me le distruzioni violente spariranno quando comincerà ad esistere l'umanità.

L'umanità non è esistita mai e non esiste ancora: ci sono stati degli individui umani, cioè uomini che in tutto o nella massima parte degli atti della loro vita, hanno mostrato di avere sentimenti altruistici solidamente organizzati; ma l'umanità, come ente collettivo, incomincerà ad esistere il giorno, in cui l'uomo non sarà più costretto dai bisogni della propria conservazione a fare una lotta da lupi col proprio vicino.

Ammesso anche che la maggior parte degli individui delle nazioni civili sia oggi disposta per eredità e per educazione a vivere umanamente, bisogna pure che essa si adatti a vivere bestialmente, né più né meno come l'altra parte che non vi è disposta, se non vuole esporsi al pericolo di cadere tra i vinti e gli affamati; bisogna pure che ognuno di noi si adatti a levare il pane dalla bocca altrui senza pietà. Con le attuali organizzazioni sociali, sono destinate a perire quelle nazioni e quegli individui che non si sforzano col permesso dei codici, di rapire qualche cosa alle altre nazioni o agli altri individui. Questa vecchia verità è stata già riconosciuta da non pochi conservatori; ma essi, confondendo la biologia con la sociologia e applicando male le leggi darviniane, finiscono sempre col concludere che la lotta per la vita è legge naturale, che ha dominato e dominerà perennemente i rapporti tra nazione e nazione, tra individuo e individuo della stessa nazione.

Noi rivoluzionari, noi socialisti, invece, basandoci sulla storia e sulla sociologia, crediamo che verrà giorno in cui l'uomo non sarà più costretto dai bisogni della propria esistenza ad armarsi di fucili, di cannoni e di codici, per fare il ladro col cosiddetto straniero, col proprio concittadino, e non rare volte coi genitori, coi fratelli e con le sorelle. Saremo degli utopisti: ma non dimenticate che la bestia uomo si è distaccata dalle bestie ed è giunta al punto in cui è per virtù di utopie, le quali, prima di realizzarsi, destarono disprezzi, ire, odi e persecuzioni contro i poveri sognatori.

E la storia è da un pezzo che va preparando la realizzazione alla più bella delle utopie del cervello umano: il giorno, in cui nei codici si affermò che nell'interesse pubblico si può levare la proprietà privata al cittadino, indennizzandolo con moneta, si fece un vero atto di socialismo incosciente; un altro atto di socialismo incosciente può chiamarsi il servizio militare obbligatorio per tutti gli uomini robusti, mentre i deboli e le donne ne vanno esenti... e tanti altri esempi si potrebbero citare di socialismo incosciente. La ripetizione di simili atti e un gruppo complesso di fattori, che non è qui il luogo di esaminare, hanno prodotto la coscienza socialista che oggi non è più un sogno, ma la visione netta di una tendenza sorta da lungo tempo nelle società umane e arrivata a tale grado di sviluppo da farci sperare che non è lontana l'epoca in cui avremo le prime organizzazioni coscientemente socialistiche.

Qui ripeto ciò che dichiarai nel mio interrogatorio: da socialista ho tentato di contribuire alla più umana, alla veramente umana, delle rivoluzioni, con tutti i mezzi che ho creduto necessari e che il codice della borghesia permette a tutti i cittadini italiani.

Mezzi che il codice chiama reati, non li ho adoperati, non già perché li rigetti a priori, in sé, ma per la semplicissima ragione che ritengo non essere ancora arrivato il tempo, nel quale simili mezzi saranno utili e dolorosamente necessari.

...La rivoluzione per raggiungere i nostri ideali non è quella di cui mostrano spaventarsi i magistrati. Avete inteso quale deve essere e quale sarà.

Nessuno potrà provocarla: l'insurrezione armata sarà fatale. Sono dolente che quest'ora dell'insurrezione armata non sia suonata.

Credo anzi che sia ancora molto lontana».

 

 

6.        Il socialismo italiano verso il riformismo.

 

Tra il congresso di Bologna del 1897 e quello di Roma del 1900 si inserisce un periodo cruciale per l'Italia borghese, quello che i collitorti d'oggi avrebbero chiamato una svolta. Il nuovo corso non poteva mancare, anche se indubbiamente fu meno schifoso di quelli che si danno in pasto ai lavoratori ingenui nell'anno di grazia 1963, in cui avrà successo il piano controrivoluzionario di «apertura a sinistra» che fin da allora è il roseo sogno del capitalismo italiano. Non sono forse pieni di verità i discorsi dei capi democristiani che spiegano che si apre a sinistra per tagliare definitivamente i garretti ad ogni eventuale «pericolo» rivoluzionario?

Ma riprendiamo il filo della nostra storia.

Già prima dei congressi di Firenze (1896) e Bologna (1897) la società italiana era stata turbata dai violenti riflessi della crisi economica della fine del secolo scorso, acuita dalle conseguenze della politica di espansione africana dello Stato italiano, che, sebbene uno dei più deboli sul piano produttivo, volle ingaggiarsi sulla via dell'imperialismo. Il 1° marzo 1896 la tremenda disfatta di Adua provocò la caduta del ministero Crispi, che aveva condotto la feroce reazione seguita ai moti siciliani del 1894. Fu allora che Andrea Costa propose alla Camera il suo storico: Via dall'Africa!, che non era un episodio parlamentare ma un vero schiaffo sul viso della sordida borghesia italiana, con la affermazione che il colonialismo é contrario alla libertà dei popoli di colore quanto agli interessi di quello metropolitano; tesi davvero avanzata a quella data, se si pensa a quanti ulteriori sommovimenti storici abbiano condotto alla fine più ignominiosa l'imperialismo italico. Con le disfatte della borghesia nazionale il partito socialista, che Crispi era giunto a sciogliere, riportava tra le masse, anche stando al metro elettorale, clamorosi successi. Già al congresso di Bologna, esso registrava una potente ripresa.

Ma nel corso del 1897 si sviluppava, come conseguenza anche delle disfatte militari, una grave crisi economica, che infieriva soprattutto sulle miserrime regioni meridionali. Il prezzo del pane era salito gravemente, e il proletariato cadde a un regime di fame. Dalla fine del 1897 alla primavera del 1898 si susseguirono violente rivolte, cui il governo di Rudini rispose con gravi misure di polizia e perfino richiami di truppa. Nel maggio del 1898 i moti guadagnarono la industriale Milano e presero tragiche proporzioni: si parlò ufficialmente di 80 morti, ma si è sempre ritenuto che la cifra fosse maggiore specie nei furibondi scontri al centro fra gli operai scioperanti e la sbirraglia armata. Come nel 1894, si ebbero gli stati di assedio e i tribunali militari, e le condanne fioccarono: Turati, che pur aveva cercato di evitare i tumulti, fu condannato a 12 anni. Il re Umberto chiamò al governo il famoso generale Pelloux (per la repressione di Milano si rese illustre il generale Bava Beccaris).

A questa famosa ondata di reazione rispose il formarsi dì una opposizione popolare di sinistra di cui i socialisti erano la punta estrema. La reazione nel campo elettorale fu drastica; a Milano risultò per la prima volta eletto un consiglio comunale contrario ai clerico-moderati, destra del tempo. Nelle elezioni nazionali del giugno fu travolto Pelloux con 800 mila voti contro soli 600 mila governativi. I padri della generazione che in quei giorni era fanciulla, uomini degni, di vecchia fede liberale democratica, tripudiarono alla notizia: che botte ha preso sù il ministero! Ma intanto l'abile borghesia italiana «aggiornava» la sua finezza politica, e un pericolo nuovo nasceva per il proletariato: il riformismo. Il 29 luglio del 1900 un anarchico di solida fede, invano poi dipinto come un delinquente comune, Gaetano Bresci, di Prato, traeva secondo la propria ideologia le conclusioni, e a Monza uccideva a revolverate Umberto di Savoia. La reazione contro i socialisti, che ovviamente nulla avevano di comune col regicidio, ricominciò ad urlare. Ma ciò non poteva impedire la svolta a sinistra della borghesia italiana col suo Giolitti e col giovane re; ambedue non privi di politico fiuto.

Il congresso del settembre 1900 si trova davanti all'eterno e non ancora risolto problema: come deve agire il partito proletario quando due politiche della borghesia sono possibili, e la «scelta» può dipendere dal gettare o meno il proprio peso sul piatto di sinistra della bilancia?

Oltre sessant'anni sono passati e si solleva ancora il problema delle famose scelte. È chiaro che questo problema si può porre in due modi: quello delle armi e quello della contesa costituzionale.

Nel 1898 le masse avevano lottato in piazza e assai valorosamente, sfidando non solo i fucili ma i cannoni messi in postazione a tutti i crocicchi di Napoli e Milano. Anche allora la destra borghese più reazionaria (che non va confusa con la destra liberale classica, conservatrice socialmente ma ortodossa nel suo legalitarismo statutario) minacciò di sospendere le garanzie costituzionali, anzi le tolse senz'altro - ma non giunse, come doveva fare più tardi il fascismo, fino a porsi contro il responso parlamentare ed elettorale. (In sostanza la differenza storica non è totale, in quanto il 1898 fu abbastanza assolutista e il 1922 abbastanza costituzionale; il diverso giudizio del parere generale non ha diversa origine dalla non marxista valutazione in cui il partito proletario cadde nei due casi). Ma l'argomento dei socialisti di destra è ben noto: interessa la classe operaia che il potere esecutivo non usi la maniera forte, ed è utile ottenerlo col mezzo pacifico di un voto degli elettori e dei deputati: ridotta la questione a un problema di conta numerica, sarebbe logico non rovinare un così utile (o almeno comodo e facile) risultato, per l'ubbia di non sommare i voti nostri con quelli dei borghesi benpensanti, affini, come si dice, alla sinistra... In questi casi, il partito proletario difende la libertà, lo statuto, la costituzione, perché la loro violazione fa comodo alla classe nemica.

Da allora e da sempre, noi della sinistra rispondiamo: questa linea tattica sarebbe convincente se fossimo certi che i postulati della nostra classe potranno un giorno passare senza rompere la «libertà di tutti», l'ordine legale, e la struttura costituzionale. Se questa possibilità è esclusa, sarà un errore aver preparato le masse a salvare (che cosa? quali pretese conquiste già fatte? conquiste fatte insieme alla borghesia contro forme più antiche, o conquiste già fatte contro la borghesia?), diciamo a salvare se stesse dalla aggressione del nemico di classe, rifugiandosi dietro i medesimi baluardi storici che sarà necessario abbattere come sola via per liberare il proletariato dall'oppressione capitalista.

È possibile che la borghesia e il suo Stato prendano l'offensiva, e la storia ce ne dà esempi continui. Ma la risposta della classe lavoratrice non si può ridurre a una difensiva dietro baluardi che sono quelli stessi della conservazione delle forme borghesi: democrazia e pacifismo. La risposta storica per la quale il nostro partito è sorto, è una futura controffensiva che non leverà, come nelle vergogne di oggi, le bandiere storiche cadute di mano al nemico di classe, ma spezzerà i principi e gli istituti che stanno da secoli dietro quelle bandiere.

 

7.        Roma 1900, data di nascita ufficiale del riformismo.

 

Il VI congresso socialista si aprì l'8 settembre del 1900. La relazione del Gruppo parlamentare, che negli anni seguenti finirà col divenire il punto ardente, ebbe in quella situazione una calda accoglienza, ed era facile spiegarselo: i deputati venivano, più che dal parlamento, dalle piazze dove avevano lottato con gli operai, e dalle carceri borghesi. Per essi riferì un Andrea Costa che ricordò le battaglie del famoso ostruzionismo (un vero illegalismo in parlamento: si ricordi che destri del calibro di Bissolati giunsero a infrangere le urne), il grido «né un uomo né un soldo» lanciato non solo per le spedizioni in Africa ma anche per quella in Cina (rivolta dei Boxer) quando le donne proletarie si sdraiavano sulle rotaie dei treni militari; e la coraggiosa condotta tenuta dopo l'attentato a Umberto (il de Marinis che andò in gramaglie al Quirinale era stato messo alla porta:il congresso unanime ratificò l'espulsione di costui decisa dalla sezione di Napoli).

Il congresso discusse quindi la tattica elettorale, che era in quel tempo il vero tema politico. Non ci dilunghiamo sull'interessante dibattito circa la lotta per i comuni, che dette luogo a spunti notevoli, tra cui il concetto di non andare alla gestione dei comune che con maggioranze del solo partito, e nel caso di alleanze nelle elezioni vittoriose restare all'opposizione di controllo su giunte formate da alleati non socialisti. Lo diciamo solo per mostrare che il classico riformismo era più sano dello sfrontato opportunismo di oggi.

Circa la tattica nelle elezioni parlamentari trionfò la destra con 109 voti contro 69 e 2 astenuti. L'ordine del giorno di Treves, Modigliani e Prampolini, dopo aver riaffermato che nella battaglia elettorale si doveva far propaganda dei principi del partito, ridotti a «lotta di classe e socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio», proclamava nettamente «la piena autonomia delle organizzazioni collegiali nel contrarre alleanze coi partiti dell'Estrema Sinistra» in considerazione della grande varietà delle condizioni sociali e locali in Italia.

Cominciamo a trarre da questi dati positivi storici due caratteri immancabili di ogni revisionismo. Uno è la famosa autonomia delle sezioni locali rispetto al partito tutto - che annienta il fondamentale centralismo marxista -, l'altra è la grande varietà delle situazioni locali che alla scala nazionale serviva a giustificare il metodo dei «blocchi», come alla scala mondiale servirà nel 1914 e poi nel 1939 a spezzare l'unità rivoluzionaria internazionale.

Ma quale il valore dell'ordine del giorno respinto, opera del reciso rivoluzionario Ciotti sostenuto da varie delegazioni di tutta Italia? Non molto. Nessuna questione di principio, ma solo la timida affermazione che in base ai deliberati dei precedenti congressi si statuisce l'«intransigenza nelle lotte amministrative e politiche», ammettendo tuttavia eccezioni in quelle politiche per qualche repubblicano o radicale, purché iscritto regolarmente al proprio partito, in caso di ballottaggio.

Si deve dunque riconoscere che l'ala sinistra nulla di meglio seppe dire sulle scarne tesi di principio concesse dagli stessi riformisti vincitori, portati sulla cresta del trionfo della democrazia elettorale e parlamentare.

Lotta di classe? Il riformista la concepisce come conflitto dì interessi fra i padroni capitalisti e le maestranze operaie, fra i quali lo Stato interviene secondo l'influenza dei partiti borghesi ed operai in lotta nel parlamento. Non troviamo un solo congressista che ricordi la tesi marxista che lo Stato democratico e parlamentare difende per sua natura gli interessi del capitale. Quando poi si ammette la famosa «socializzazione», i riformisti non escludono che sia realizzata dallo Stato attuale (nazionalizzazione) e tutt'al più concepiscono il trapasso futuro come curato da uno Stato a maggioranza parlamentare socialista, echeggiando la formula di Genova 1892 di trasformare i pubblici poteri da mezzi per lo sfruttamento del proletariato in mezzi per la sua emancipazione.

Ma il problema storico fu visto più da vicino nella delicata discussione sul programma minimo del partito. Questo tema scabroso si era trascinato di congresso in congresso, e ancora a Roma viene solo approvato, come schema provvisorio da rinviare ad una commissione, il testo redatto con opera del tutto apprezzabile da Turati, Treves e Sambucco. La premessa è condotta da mano non estranea alla buona dottrina marxista, e ammette che il programma non può essere piattaforma di accordo con altri partiti e che, mentre il programma massimo vale come fine, quello minimo non è che mezzo. Notevole nella parte generale questa tesi : «...preparare il proletariato ad assumere e mantenere la gestione della società collettivizzata» accogliendo «tutte le riforme e tutte le istituzioni che ponendo un argine allo sfruttamento capitalistico, elevano le condizioni economiche e politiche del proletariato e lo iniziano alla amministrazione ed al governo della cosa pubblica, secondo leggi che siano emanazione della sua classe». Si può qui trovare un eco del «proletariato classe dominante» di Marx e del Manifesto, e se si vuole della sua dittatura; come, altrimenti, le leggi della futura società saranno «emanazione della sua classe»?

Ma la parte speciale, pur volendo essere solo un'elencazione non completa, viene certo a contraddire la parte generale e il programma massimo:

«Stato democratico dove il proletario si senta realmente uguale, politicamente e giuridicamente, al capitalista». Si dirà che questo Stato è di transizione, ossia precede la vittoria del proletariato, ma appunto nel presentare questa ipotesi il partito usa un mezzo che uccide i suoi fini e i suoi principi (si ricordi Lenin al II congresso dell'Internazionale e la nostra chiosa).

Per il marxismo, vi è uno Stato in cui il proletario è inferiore al capitalista; e se ne prevede uno in cui il capitalista è inferiore al proletario, anzi in cui il primo è nulla e il secondo è tutto: l'assurdo sta nel ritenere che ci si arrivi passando per una forma di Stato storico in cui il proletario e il capitalista siano «giuridicamente e politicamente eguali». Qui il nocciolo della demolizione della democrazia in cui la dottrina marxista consiste, e qui la centrale scoperta di Marx: la dittatura proletaria.

A Roma la sinistra non avanza nessun controprogetto; l'atmosfera le è troppo sfavorevole (quanto dopo la vittoria dell'antifascismo stramaledetto sul fascismo, maledetto lui pure in quanto generò il primo, come dal 1922 noi vedemmo).

Il breve testo di cui disponiamo contiene qualche monco ma non trascurabile spunto: Soldi fu per un programma unico e contrario allo sdoppiamento tra massimo e minimo, chiara intuizione della tesi dialettica marxista e leninista: unico programma e quello massimo: conquista violenta del potere, rottura dell'apparato di Stato attuale, e dittatura di classe; DOPO, nel senso economico e sociale, si può e si deve formulare un programma minimo e concreto. Labriola vide nella richiesta di nazionalizzazione il pericolo di un socialismo di Stato «traducentesi in una forma di socialismo capitalistico... ».

Nell'eleggere la direzione non vi fu scontro di tendenze; furono eletti cinque elementi della sinistra e sei deputati (tra cui il direttore dell'«Avanti!», Bissolati) in prevalenza della destra.

Sotto il ministero Saracco, di tendenza ibrida tra i reazionari di prima e la nuova maggioranza parlamentare, ci furono vivaci lotte per il riconoscimento dei sindacati (erano sorte le gloriose «Camere del Lavoro») e per la facoltà di sciopero, e il governo dovette cedere su tale fronte più per la forza delle masse che per la manovra parlamentare. Infatti, nel 1901 Saracco cadde contro una maggioranza formata da estrema sinistra (socialisti inclusi) centro e destra (non si ripete forse la storia?) e il nuovo re chiamò al governo il democratico costituzionale Zanardelli (Giolitti agli interni).

Nel partito si cominciò a discutere se si poteva appoggiare il gabinetto Zanardelli-Giolitti per evitare che, votandogli contro (come sempre fin allora si era fatto per principio), la destra potesse tornare al potere.

Il VII congresso si trovò di fronte a questo problema. Era già buona cosa che si riconoscesse che non lo doveva risolvere il gruppo parlamentare, ma il partito. Le opinioni erano molto discordi. Non si trattava ancora del problema di accettare posti in un gabinetto borghese (metodo infausto del francese «millerandismo» designato con la brutta parola di ministeriabilismo) ma del ministerialismo inteso come partecipazione a una maggioranza ministeriale. Allora si arricciava il naso, magari, anche da un Turati; oggi l'una e l'altra cosa sono più innocenti che sorbire un uovo fresco.

Sta di fatto che, prima del congresso che si aprì ad Imola il 16 settembre 1902, già varie volte i voti del gruppo parlamentare, andando al ministero Zanardelli-Giolitti, ne avevano assicurata la vittoria contro la destra. Non erano mancate nel partito le critiche; tuttavia esse non si manifestarono in sede di relazione del Gruppo parlamentare e della Direzione del partito, in quanto nessuno si sentiva di proporre il biasimo, e fu respinta la proposta del rivoluzionario Soldi di discutere, come era nell'ordine del giorno, prima tali relazioni, poi la tattica del partito. I rivoluzionari non erano molto risoluti, tanto che Rigola, che primo parlò per essi (notoriamente poi aperto riformista sindacale), ammise che in casi eccezionali si votasse per i governi. Del suo primo intervento, notevole la difesa dei rivoluzionari dall'accusa di essere contro l'azione nei sindacati, che mostra come le stesse questioni di tattica si ripresentino in modo ciclico nella storia proletaria.

I riformisti furono agevolmente rappresentati da Chiesa, Turati e Treves. Ma il futuro avrebbe detto che dei tre rappresentanti rivoluzionari nessuno era di tempra genuina: Rigola (Turati stesso esclamò: è un altro dei nostri), Arturo Labriola ed Enrico Ferri! Treves teorizzò elegantemente, non senza un buon maneggio di dialettica (hegeliana più che marxista; ma il dirgli questo lo fece sempre scattare, dato che del marxismo non gli si poteva negare ampia conoscenza), che il socialismo nei suoi principi avanza ipotesi solidamente scientifiche sul futuro, poi con l'azione riformista le saggia con metodo sperimentale per darne la prova. Egli è un campione del metodo che era già di Bernstein e che sarà di Gramsci e della falsa versione corrente del leninismo in una filosofia della prassi non marxista, ma pragmatista.

Labriola fece la vecchia critica del riformismo che chiedeva concessioni per il proletariato ma non lo conduceva a strapparle e conquistarle «lottando contro lo Stato». Turati mal confutò Labriola dando della di lui posizione questa formula: che il partito debba essere politico e antilegalitario, più che economico e legalitario. Presto l'agilissimo Labriola evolverà verso il sindacalismo rivoluzionario, che sarà antilegalitario sì, ma economico. In queste formule di tanto tempo fa si vede la parentela fra i due opportunismi, riformista e sindacalista, che mal si diranno destra e sinistra.

Ferri fu, come sempre, vuoto di contenuto. L'ordine del giorno riformista ebbe 456 voti contro 279 a quello intransigente. Questo era debole: affermava in principio il concetto che «ogni forma alla quale il Partito tende deve essere conquista diretta della massa lavoratrice e deve coordinarsi e subordinarsi allo scopo generale della trasformazione della società politica ed economica attuale da compiersi per opera del proletariato organizzato in partito di classe», formule valide ma che non giungono al secondo stadio del Manifesto: «organizzazione del proletariato in classe dominante», il che vuol dire presa del potere fuori dal parlamento; e concludeva di seguire in tutti i campi (senza nominare il parlamento) un indirizzo autonomo da quello di ogni altra classe e partito.

L'altro ordine del giorno nega le tendenze (vecchio chiodo dei destri), e afferma come principi «assoluti» solo proprietà collettiva e lotta di classe, poi conclude per l'«azione autonoma del gruppo parlamentare» approvandone i voti al ministero borghese di sinistra e solo giustificando le coalizioni come transitorie (vi sono pidocchi che trattano a questa stregua l'ammissione dei compromessi in Lenin!).

Ma v'è un passo di questo ordine del giorno, vertice delle fortune dell'opportunismo in Italia, che a distanza storica di 60 anni è significativo citare: nelle sue azioni autonome (collaborazioniste) il gruppo parlamentare a mezzo del partito (cui si lascia una funzione di stimolo) deve «tenersi continuamente in corrispondenza con la coscienza e la volontà della grande massa proletaria».

Quando noi, a riformismo che credevamo per sempre debellato, udimmo levare a chiave delle questioni di tattica del partito di classe questa specie di consultazione della coscienza e volontà delle grandi masse, avemmo ragione di sentire, venti anni dopo, a Mosca, odore di bruciaticcio! Chi ci disse che questo era leninismo non poté ingannarci, perché Lenin aveva imparato da Marx e insegnato a noi, giovani allora, che la coscienza e la volontà sono del partito e non delle masse, e nemmeno della classe proletaria, prima che il partito l'abbia resa capace non di sola forza fisica, ma di potenza rivoluzionaria.

Menò la destra gran scalpore e non esitò ad abusare della sua vittoria. Ma presto riprese vigore la tendenza rivoluzionaria, e vive critiche all'indirizzo dell'«Avanti!» condussero Bissolati a dimettersi dalla sua direzione, che fu presa da Ferri. Ma questi non fece che mosse demagogiche, come una grande campagna contro Bettolo, ministro della marina con Zanardelli. Al solito, non si trattava di stabilire una norma tattica come quella di non appoggiare alcun governo, quali che ne fossero i nomi, ma si gridava sui casi personali e concreti, accusando Bettolo di aver favorito contratti con le acciaierie dannosi per lo Stato. I giovani hanno creduto che Fiumicino fosse una trovata originale di battaglieri onorevoli; la storia invece è antica.

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