Parliamo ancora dell’area mediorientale poiché su di essa si concentra una violenza borghese senza limiti, una violenza generale che presto o tardi sfocerà in un conflitto mondiale tra le grandi potenze imperialiste. L’area turco-curdo-siriana è sottoposta da mesi a martellanti incursioni aeree, con devastazioni di città e paesi, uccisioni, decimazioni e massacri di popolazioni indifese e prigioniere di potenze criminali: una guerra civile che, secondo le cronache, ha causato già 200mila morti. E’ una guerra organizzata, alimentata e armata dalle grandi potenze, “contenuta politicamente e militarmente” (così dicono!), controllata da un accordo sull’uso delle armi chimiche e intervallata da tregue periodiche. E’ una guerra civile in cui si scontrano le forze lealiste di Assad sorrette da sciiti irakeni, iraniani e libanesi, e le varie bande “jihadiste” a loro volta sostenute dalle milizie occidentali d’intervento interessate ad abbattere il regime e a imporre il controllo sul territorio siriano – tutti già in rotta di collisione con le bande armate dell’Isis, che hanno occupato metà della Siria e un terzo dell’Irak e che minacciano di stravolgere l’intera regione. Una guerra di tutti contro tutti.

Dentro a questa devastazione, i mezzi di comunicazione borghesi raccontano, con il solito tono piagnucoloso e ipocrita, di un lungo esodo biblico di profughi verso l’estero e di rifugiati all’interno: una massa di dispersi oscillante, sui vari fronti, tra gli 8 e i 10 milioni (su una popolazione totale siriana di 23 milioni di persone!) e che continua a crescere, attraversando vari paesi (Turchia, Grecia, Ungheria, Serbia, ecc.) e disperdendosi tra essi. Veri e propri campi di concentramento stanziali (baraccati, tendopoli, accampamenti) si stanno impiantando su un ampio territorio; di volta in volta, questi campi stanziali si trasformano in vere e proprie masse di disperati in movimento, che attraversano aree desertiche, sconfinano sotto la pressione degli interessi locali o vengono bloccate, incanalate e deviate da muraglie e reticolati. Qui, la borghesia imperialista ha lasciato la propria impronta di violenza, come sempre accompagnata da una benedizione caritatevole: alimentando le divisioni etniche, religiose e “nazionali”; esportando, durante i molti cicli di crisi economiche, le proprie guerre, “umanitarie” e “democratiche”; scatenando i propri conflitti per il petrolio.

Poi, dopo aver istituito una base d’appoggio finanziario, di sostegno (addestramento militare) e di transito ai jihadisti anti-Assad e ai combattenti dell’Isis, per impedire l’attività dei peshmerga curdi sul fronte siriano e irakeno contro il cosiddetto Califfato, è entrata in gioco la Turchia: il suo intervento non si è fatto attendere. Il nemico pubblico numero uno era, e continua a essere, il movimento curdo, il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) contro il quale lo scontro è mortale, come attestano le migliaia di morti tra la popolazione curda nei tanti decenni: almeno 40mila nell’arco di trent’anni. Impedendo a Erdogan di ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento, la recente affermazione alle elezioni turche della formazione curda dell’HdP (Partito democratico del popolo), giunta al 13%, ha acutizzato le contraddizioni interne: durante le manifestazioni indette per la vittoria, il terrorismo di matrice islamista (o turca?) ha causato decine di morti. La caccia all’uomo tra le montagne, gli interventi massicci di carri armati, i bombardamenti, gli arresti hanno significato, nel tempo, un grande tributo di sangue versato dai combattenti per una causa nazionale che non ha più storia, invischiata com’è in una massa d’interessi gestiti dai tanti gruppi d’affari e dai partiti curdi borghesi, da sempre in lotta fra di loro: vittima sacrificale, per l’ennesima volta, è il proletariato, si chiami curdo, irakeno, turco, siriano, etc. Contro il suo presente, contro le sue lotte economiche di difesa e il suo futuro politico, le borghesie piccole e grandi che mercanteggiano con le grandi potenze le proprie esistenze miserabili si avventano sperando di impedire il proprio inevitabile crollo. In questo contesto, l’assedio di Kobane, al confine turco-siriano, ad opera dell’Isis, ha visto realizzarsi una naturale alleanza del Califfato e dei turchi contro i curdi: la manifestazione di protesta che ne è seguita ha lasciato sul campo 52 morti negli scontri con la polizia turca, seguita da perquisizioni, arresti e condanne per terrorismo. Il pretesto che ha spinto la Turchia a intervenire è stato la partecipazione del Pkk alla guerra e la consegna delle armi messe a sua disposizione dai paesi occidentali. L’offensiva militare è scattata dopo il vertice Nato di Bruxelles di fine luglio: sarebbero 260 i morti e 400 i feriti tra i combattenti curdi e i civili, in una settimana di raid aerei turchi che hanno colpito una serie di villaggi in tutta l’area di confine, non facendo distinzione tra villaggi curdo-siriani, postazioni dell’Isis e villaggi irakeni. L’offensiva è andata di pari passo con l’istituzione, con l’avallo della Nato, di una zona neutra a nord della Siria (primo contributo alla prossima spartizione del territorio siriano) e con il permesso agli aerei americani di utilizzare la base militare turca di Incirlik. Intanto, il teatro degli scontri si è spostato attorno ad Aleppo, tra i miliziani del cosiddetto gruppo Jaish al Fatah e le truppe dell’esercito di Assad, che hanno impedito che il gruppo s’infiltrasse nella provincia di Lakatia. Altri scontri si sono avuti presso una base militare governativa a nord di Aleppo (vedi il Manifesto del 2 agosto).

Poteva mancare, nel “quadretto patriottico” curdo, il diktat categorico del Pdk (Partito democratico del Kurdistan) rivolto al Pkk perché ritiri le sue truppe dal Nord dell’Irak, “per non offrire pretesto ai turchi di bombardare il paese”? Che cosa c’è sotto? E’ presto spiegato. Il vecchio legame tra il Governo centrale irakeno di al-Abadi e il Kurdistan autonomo a Erbil, che poggia da sempre su una rete di alleanze regionali e sulla vendita del petrolio alla Turchia, si è andato sfaldando con il “dissolversi” dello stesso Stato irakeno, che non riesce più a nutrire il fronte sunnita anti-Assad. In realtà, per i “fratelli curdo-irakeni” del Kurdistan, l’attacco di Ankara al Pkk costituisce un grande fastidio perché ostacola la vendita del petrolio a Erdogan con la benedizione dell’Onu. Mentre la Nato e gli Usa si preparano dunque a spezzare le reni al fronte curdo anti-Isis che ha saputo frenare l’avanzata del Califfato, un pacchetto di aiuti militari fornito a Baghdad (addestramento, difesa, sicurezza) cerca di spingere quel che resta dell’esercito e dei funzionariirakeni (pure forze mercenarie, in campo politico e militare, degli Usa)verso una guerra che completerà la rovina totale di quel che rimane dell’Irak. Mentre al-Abadi batte i pugni sul tavolo, Barzani a nord si dà cura di salvaguardare i rapporti economici con la Turchia, molto più stretti di quelli fra Turchia e Baghdad – rapporti che nulla hanno a che vedere con la lotta condotta dai “fratelli” curdo-turchi e curdo-siriani, men che meno con la difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei “fratelli” curdo-tedeschi, che hanno perduto da anni la propria identità lavorando nelle fabbriche di Germania.

Il processo di separazione che si va preparando tra Kurdistan e Irak allontana il miraggio di quella che un tempo sarebbe potuta essere la nazione curda, e non lo rende più reale: lo fa sparire definitivamente. Il punto di non ritorno è dato dallo sviluppo economico verificatosi nell’area settentrionale di quello che un tempo era un solo paese, l’Irak: con esso, scompare anche l’identità regionale chiamata Kurdistan. Negli anni passati, Barzani, approfittando della crisi politica del Governo centrale, ha occupato Kirkuk (la zona più ricca di petrolio), e da lì lo sfruttamento del greggio ha trovato la sua via privilegiata di transito (il gasdotto turco) verso la Turchia, che rappresenta oggi uno dei maggiori partner di questo Kurdistan autonomo. L’integrazione si è fatta sempre più forte: i capitali turchi oggi finanziano infrastrutture, aeroporti, giacimenti petroliferi, centri commerciali. Gli accordi sulla vendita diretta del petrolio sono innumerevoli, a migliaia si contano le compagnie private turche in ogni settore, dall’agricoltura all’edilizia, dalle banche alle telecomunicazioni. La dimensione stessa di questi accordi spinge il cosiddetto Kurdistan verso un’alleanza politico-strategica con la Turchia, in chiave anti-Iran: lo scontro di fatto con Baghdad è, dunque, nell’ordine delle cose e sarà ancora il petrolio al centro della scena. Non resta che aspettare. Ciò che non può aspettare è la prospettiva della rinascita del partito comunista a livello mondiale: sia nel centro imperialista euro-americano e asiatico sia in una “periferia” sempre più attratta nell’occhio del ciclone delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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