Con un territorio esteso poco meno che Francia e Germania unite, una popolazione pari a quella dei due Paesi europei, uno sviluppo Nord-Sud superiore alla distanza che separa Roma da Londra, il Pakistan occupa una regione di elevato interesse strategico nell’Asia del Sud Ovest. Da due secoli inserito nel great game delle manovre militari tra Russia zarista e Inghilterra vittoriana, insieme all’enorme territorio occupato da quelli che oggi sono Afghanistan, Iran, Turchia orientale e le steppe dell’Asia centrale, esso ha costituito per millenni una delle principali vie di collegamento tra l’oceano Indiano e gli altopiani centro-asiatici. E’ lungo le rive del suo grande fiume che scorre da Nord a Sud, l’Indo, che si è sviluppata una delle più antiche civiltà urbane della storia umana: qui si accampò Alessandro nelle sue spedizioni asiatiche; qui, già nel XVIII secolo, si scatenarono gli appetiti del colonialismo inglese, che si preoccupò di attuare un sistematico saccheggio del territorio, con un’oppressione fiscale insopportabile, e di varare infine in nome del progresso, come ricorda Marx in alcuni articoli per il New York Daily Tribune del 18531, un Codice penale per l’“amministrazione della giustizia”, dopo aver sradicato, con la forza combinata del “vapore e della scienza”, dall’“intera superficie dell’Indostan la combinazione fra industria agricola e industria manifatturiera” su cui si poggiava l’antica unità produttiva e sociale locale, il sistema di villaggio.

 

Un paese di contrasti

Ciò che nel XIX secolo si chiamava Indostan, nel 1947 fu trasformato in Pakistan dalla borghesia e dai vertici militari inglesi, in uno degli ultimi atti di forza dell’ex potenza coloniale, ormai destinata a cedere il passo agli USA anche nei suoi possedimenti storici. Assemblando territori e regioni tra loro diversissime per storia, lingua, cultura, morfologia, ambiente, economia, sviluppo sociale, fu ottenuto lo stupefacente risultato di inventare uno Stato nel quale le classi al potere oggi, nonostante le abissali differenze interne, riescono a ottenere credito presso una popolazione stremata solo grazie agli “aiuti” finanziari americani, all’FMI e all’Arabia Saudita e all’esasperato culto del nazionalismo anti-indiano, e sbandierando ad ogni piè sospinto il mito democratico (sotto forma di elezioni, di confronto parlamentare ecc.) in un paese tradizionalmente e largamente retto, su scala locale, secondo antiche leggi di natura tribale e, su scala nazionale, da governi militari con scarsissime propensioni al “dialogo”.

I grandi contrasti tra le diverse regioni (il Punjab è considerato dalle altre, non a torto, come il saccheggiatore del Paese), contrasti che alimentano fortissime spinte autonomiste e che si risolvono generalmente in atti di violenza contro esercito, popolazione e strutture da parte di “terroristi”, non sono tuttavia tali, paradossalmente, da limitare un esacerbato nazionalismo (a dire il vero, occhiutamente orchestrato più dalla propaganda di regime che sentito visceralmente a livello popolare), che si traduce generalmente in sgangherate manifestazioni di piazza ad ogni pallottola vagante nella valle del Kashmir, da sempre contesa con l’India. Manifestazioni sgangherate, e assurde – ma perfettamente funzionali, qui come ovunque nel mondo, a servire da valvola di sfogo per qualsiasi forma di tensione sociale tra le classi.

Fino all’11 settembre 2001, il Pakistan aveva dovuto subire gli effetti delle sanzioni statunitensi, in vigore dalla seconda metà degli anni Settanta. Dopo l’attentato alle Torri Gemelle, esse furono abolite nel giro di poche settimane, furono annullati i debiti contratti nei decenni precedenti e venne assicurata una continua “assistenza” militare. Anche l’Unione europea aprì il proprio mercato ai prodotti (soprattutto tessili) pakistani, e l’economia del Paese, che era sempre stata sull’orlo della bancarotta, conobbe un vertiginoso incremento con percentuali di crescita di ordine “cinese”. Questo tumultuoso e forsennato periodo di crescita capitalistica era stato preceduto, e quindi favorito, da una parte dall’ammassamento di forza-lavoro in città invivibili e in fabbriche nelle quali l’estrazione di plusvalore avveniva, ed ancora avviene, in molti casi, a causa dell’arretratezza delle condizioni tecniche della produzione (soprattutto tessile, ma non solo), secondo le leggi della produzione di plusvalore assoluto, piuttosto che relativo; dall’altra parte, esso si è largamente basato, ieri come oggi, sulla rete diffusissima di piccole aziende che sfruttano molto spesso, sull’intero territorio, manodopera minorile, la più esposta di tutte agli infortuni. Entrambe le situazioni della classe lavoratrice erano la causa primaria dell’impressionante frequenza e gravità di “incidenti” nei luoghi di lavoro, con decine, talvolta centinaia di morti nei grandi centri produttivi del Paese, a Karachi, a Lahore. Le statistiche indicano nel numero di circa 8 milioni i bambini tra i 10 e 14 anni (il 20% della popolazione attiva) impiegati in vari tipi di lavori, soprattutto nell’edilizia, nella costruzione di strade ecc.

Il processo di urbanizzazione negli ultimi 50 anni ha toccato punte non conosciute altrove nel mondo. La maggior parte della popolazione, passata in mezzo secolo da 47 milioni a oltre 200 milioni di abitanti (nel 1971 l’unificazione tra parte orientale ed occidentale comportò un secondo esodo di massa della popolazione islamica in Bangladesh, dopo il primo, verificatosi all’atto della costituzione del Paese nel 1947), è stata ammassata a forza in città nelle quali mancano spesso i servizi più necessari. Per comprendere come il tessuto urbano si sia sviluppato in modo disomogeneo, basti pensare che il Balochistan, che occupa poco meno di metà dell’intero territorio, è abitato dal 5% della popolazione totale; il resto è concentrato principalmente nelle città lungo l’Indo, o sulla costa. Come nei centri a maggior sviluppo capitalistico, la causa più frequente di morte sono le malattie cardio-vascolari; ma, date le condizioni in cui il proletariato e vaste masse di sottoproletariato sono costretti a vivere nelle città e nelle loro periferie, le principali cause di morte sono malattie legate a malnutrizione o degrado ambientale e sociale, come le affezioni polmonari, sifilide, leishmaniosi, tubercolosi, oppure alle condizioni in cui viene utilizzata la forza-lavoro, dunque gli incidenti sul lavoro (incendi, cadute, crolli ecc.).

Il settore primario gioca un ruolo fondamentale nell’economia del Paese. L’agricoltura e l’attività estrattiva sono gli elementi trainanti, quest’ultima con una potenzialità enorme di sviluppo (il Pakistan è il quarto paese al mondo per riserve di carbon fossile e le grandi risorse minerarie sono ancora poco accessibili, mentre dipende in larga misura da altri paesi per quanto riguarda il consumo di petrolio). Il settore industriale si basa molto sulla produzione tessile, occupando oltre il 60% della forza lavoro. Accanto a settori industriali avanzati (elettronica), è molto diffusa la produzione a piccola scala, di tipo quasi familiare.

La borghesia locale, per antica tradizione pronta a ogni forma di corruzione, ha scelto l’opzione dei governi militari con un’ininterrotta pioggia di denaro e di colpi di stato – dal governo Zia degli anni ‘80 a quello di Musharraf, a Nawaz Sharif – col duplice scopo di esorcizzare i pericoli esterni, che si sono via via chiamati India, Stati Uniti, Iran, e di fronteggiare la potenziale polveriera sociale formata da masse sterminate di proletari malnutriti e da una pletora di contadini senza terra sui quali il problema della carenza d’acqua fa ciclicamente sentire la sua morsa dolorosa.

 

Un’economia disastrata

Non è scopo del presente articolo esaminare le enormi contraddizioni di un Paese che, come il suo vicino indiano, non ha saputo né potuto mai liberarsi dalla fame, un personaggio “del tutto moderno e civile, che ha fatto la sua comparsa su scala generale insieme col telaio meccanico inglese e con lo spietato regno capitalistico della merce e del denaro; ha messo radici prima nelle campagne saccheggiate dagli esattori delle imposte e dagli usurai, poi nelle città formicolanti di ex contadini affamati in cerca di pane nelle galere aziendali di un capitalismo cresciuto a forza di prestiti ed ‘aiuti’ – non certo disinteressati – delle grandi centrali imperialistiche”2. Non è questo lo scopo dell’articolo, anche se non si può comprendere appieno la situazione di questo grande agglomerato umano, senza vedere come il bestiale processo di “liberazione” della forza-lavoro nel processo di accumulazione originaria descritto per l’Inghilterra del XV-XVII secolo da Marx nel I Libro del Capitale abbia trovato una sua applicazione, diversa nel processo storico ma non meno feroce nei modi di realizzazione, lungo la valle dell’Indo alla metà del secolo passato. E non si può capire questa realtà, se non si vanno a esaminare a fondo le ragioni e le conseguenze della mancata rivoluzione agraria: dopo minimi e presto abortiti tentativi, effettuati negli anni Settanta, di ridurre per legge, “alla prussiana”, l’estensione delle proprietà dei fondi, si calcola che oggi tra i 60 e gli 80 milioni di persone che vivono nelle zone rurali del Pakistan non hanno alcun diritto di proprietà sul suolo e campano, secondo una definizione dell’economia borghese, “al disotto della soglia di povertà”.

In questo quadro, la principale “forza” che ha tenuto assieme i vari partiti, al potere o all’opposizione, è stata quella della finanza americana e del FMI – oltre, beninteso, al regime poliziesco statale. Tuttavia, sarebbe fin troppo riduttivo limitare a quest’aspetto l’economia e la politica pakistana. Il Paese, che ha da sempre un bilancio commerciale negativo, è soprattutto dipendente dall’estero per quanto riguarda il settore energetico, telecomunicazioni, prodotti chimici e farmaceutici. La parte del leone, come investimenti esteri tra il 2007 e il 2014 (dati governativi), spetta certamente agli USA, con un totale di 3500 milioni di dollari, seguiti da UK (2218) ed Emirati (1271). In questa classifica, la Cina è più indietro, dopo Hong Kong e Svizzera (!). Tuttavia, se si considerano questi dati nella loro evoluzione, si osserva che gli USA sono passati da 1300 milioni del 2007 a 212 del 2014; la Cina, nello stesso periodo, da una miseria di 14 a quasi 700, più del doppio di investimenti rispetto a quelli americani e inglesi associati. Ciò comincia a dare un senso di quanto gli equilibri imperialistici inizino a spostarsi, sottolineando da una parte il sicuro aumento delle tensioni tra i briganti imperialistici, dall’altra l’assoluta dipendenza del Paese dagli interessi altrui.

Nonostante i galloni dorati e la voce grossa rivolta verso l’interno, utile a tenere schiacciate sotto il tallone masse impaurite da un crescendo impressionante di violenza, il Pakistan non può essere altro che un gigantesco terreno di conquista da parte di predoni ben più decisi ed organizzati e pronti a mettere le grinfie su un mercato di 200 milioni di individui e di enormi risorse sotterranee, in buona parte ancora inesplorate. Ciò non significa che il nazionalismo esasperato che si vuole inoculare nelle masse non sia in qualche modo incapace di reagire: ma non sarà una forza tale da opporsi a un destino che verrà deciso sulla base dello scontro (finché possibile, solo sul piano diplomatico ed economico) tra sfere di influenza imperialistica, che passeranno sul Paese come un rullo compressore.

In questo senso, le recenti iniziative cinesi non fanno altro che confermare una tendenza che è in atto ormai da diversi anni. Già nel maggio 2011, poche settimane dopo l’attentato mortale a bin Laden da parte statunitense, che il governo pakistano vide come una minaccia di enorme portata alla propria sovranità territoriale e che sembrò costituire l’inizio di una pressione militare americana contro Islamabad, la Cina avvertì che “la sovranità e l’integrità territoriale del Pakistan devono essere rispettate” e “che un attacco contro il Pakistan sarà considerato un attacco alla Cina” (Indiatimes, 20 maggio 2011). Da allora, l’interesse cinese verso il Pakistan si è fatto più pressante.

In alcuni articoli da noi pubblicati di recente 3, si metteva in dovuto rilievo come il governo cinese, negli ultimi anni, sia stato costretto a concedere credito per rilanciare la produzione rivolta al mercato interno; e come, tuttavia, abbia triplicato negli ultimi dieci anni la sua spesa in armi, diventando dal 2008 il secondo paese al mondo. Il che dimostra che, se la politica economica comincia a rivolgersi all’interno, quella strategica ha un indirizzo ben preciso verso l’esterno.

 

Il porto di Gwadar

In questo senso si deve interpretare il grande interesse (e la grande preoccupazione) che ha suscitato sulla stampa della borghesia internazionale la notizia che il 22 aprile di quest’anno, a Islamabad, il capo del governo Nawaz Sharif e il presidente cinese Xi Jinping hanno firmato accordi per investimenti cinesi nelle infrastrutture e nell’energia per 46 miliardi di dollari, una cifra che polverizza gli investimenti effettuati negli ultimi dieci anni da tutti i principali paesi che hanno interessi in Pakistan.

La somma è di gran lunga superiore rispetto al pacchetto previsto dall’amministrazione americana tra il 2009 e il 2012 ed è quasi tre volte la cifra totale degli investimenti esteri arrivati in Pakistan dal 2008. L’investimento è stato stanziato da Pechino per la costruzione di strade, ferrovie, impianti energetici da qui ai prossimi 15 anni.

È evidente che tali accordi renderanno il Pakistan totalmente dipendente dalla politica cinese. Benché essi si riferiscano, per i tre quarti, al settore energetico, vi è tuttavia un aspetto essenziale di interesse geo-strategico, che riguarda il porto di Gwadar, la costruzione di strade e ferrovie per oltre 3.000 km, nell’ambito di un progetto denominato Corridoio economico Cina-Pakistan.

Il porto di Gwadar, acquistato dall’Oman nel 1958, si trova poco lontano dallo stretto di Hormuz, da dove passa circa il 20% del petrolio mondiale, e a soli 120 km dalla frontiera con l’Iran. Nel settembre 2011, il Wall Street Journal 4 riferiva che, data la insufficiente attività commerciale del porto (che subiva la fortissima concorrenza del poco distante porto di Karachi, uno dei più importanti porti commerciali asiatici), il governo pakistano aveva proposto alla Cina di farsi carico dell’intera struttura: essa sarebbe rimasta di proprietà pakistana, ma verrebbe gestita da una compagnia di stato cinese, la China Overseas Port Holding Company. Un primo accordo era firmato nel febbraio 2013. I cinesi hanno finanziato in larga misura i lavori di ristrutturazione del porto, iniziati due anni fa, fornendo anche gran parte della mano d’opera. L’intento è doppio. Esso rappresenterà l’ingresso del Corridoio per il trasporto di petrolio medio-orientale verso Kashgar, nella Cina nord-occidentale, per ferrovia, strada e oleodotto: con la possibilità di trasformarlo, all’occorrenza, in una base navale nel Mare Arabico in futuro.

È chiaro che la Cina si sta muovendo con grande energia, oltre che sulle regioni costiere del Pacifico sud-occidentale, anche su quelle, sensibilissime, del Mare Arabico, ove sta costruendo ovunque i suoi avamposti commerciali (e, in prospettiva, militari). L’India si trova stretta in questa morsa; e non possono essere certo casuali gli accordi che, tra il 2005 e il 2008, il governo di Delhi ha sottoscritto con gli USA per un’assistenza nel programma di energia nucleare ad uso civile, oltre alla cooperazione nello sviluppo della tecnologia satellitare. Lo stesso governo indiano, dopo anni di reciproca freddezza, allo scopo di tentare un allentamento della morsa del Dragone, aveva accolto Xi Jinping nel settembre 2014 con grande entusiasmo, soprattutto per il progetto cinese di investire in India, nei prossimi 5 anni, oltre 20 miliardi di dollari per la costruzione di due grandi complessi industriali, la cooperazione nel rafforzamento dei trasporti ferroviari e un accordo sull’uso pacifico dello spazio. Ma il recentissimo accordo economico Cina-Pakistan viene visto a Delhi, i cui giornali parlano esplicitamente di “pugnalata alle spalle”, come una prova del doppiogiochismo cinese; e la costruzione di una mega-area di sviluppo industriale nella regione di Thatta, sul delta dell’Indo, a meno di 100 km da una delle tante zone contese tra Pakistan ed India, è vista come una seria minaccia all’integrità del territorio indiano.

In questo contesto di instabilità crescente, il Pakistan rappresenta una faglia estremamente fragile, lungo la quale si possono orientare alcuni degli epicentri che scuoteranno il sottosuolo del capitalismo mondiale. Non è certamente casuale che, nel periodo 2009-2013, nell’ordine India, Cina e Pakistan abbiano occupato i primi tre posti nella graduatoria dei paesi principali importatori di armi, con rispettivamente il 14, 5 e 5 percento sull’import globale (dati SIPRI).

E non è neppure casuale, che dal canto suo, Islamabad sfrutti l’avvelenata alleanza con la Cina per rafforzare il proprio equipaggiamento militare. È recentissimo l’acquisto di 8 sottomarini di produzione cinese, chiaramente in funzione anti-indiana. La Cina è il terzo maggiore esportatore di armi al mondo (dopo USA e Russia) con un incremento dell’export militare del 143% nel quinquennio 2009-2014 rispetto al precedente (dati SIPRI). In un tal contesto, il Pakistan figura tra i suoi acquirenti principali, coprendo da solo oltre il 40% delle esportazioni cinesi. Prima del recente affare dei sommergibili (del valore complessivo di 6 miliardi di dollari), il contratto più costoso che la Cina si era aggiudicata con il Pakistan negli ultimi anni riguardava la vendita di 50 caccia JF-17 (per un totale di 800 milioni di dollari).

Certamente, il gioco diplomatico e politico delle alleanze e degli equilibri strategici è ancora fluido, soprattutto in quest’area vitale per estrazione, produzione e distribuzione di ampia parte delle risorse energetiche del pianeta. Una cosa, tuttavia, è sicura. A fronte dell’acuirsi delle crisi, locali e generale, si assisterà alla preparazione di tutto l’armamentario ideologico della “difesa della patria”, per meglio organizzare nuovi macelli proletari. Non vi sarà scampo, se la nostra secolare parola dell’internazionalismo rivoluzionario non tornerà a farsi sentire con tutta la sua forza.

 

1 K. Marx, F. Engels, India Cina Russia, il Saggiatore 2008: articoli del 7 maggio e del 10 giugno 1853.

2 “Due Indie, una sola polveriera”, il programma comunista, n. 1 1972.

3 “La Cina tra nuove riforme, repressioni e antagonismi interimperialistici”, il programma comunista n. 1/2014; “L’economia cinese dal 1949 alla crisi economica generale attuale”, id., n. 6/2014.

4 T. Wright, J. Page, “China Pullout Deals Blow to Pakistan”.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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