Si parla ancora molto della crisi COOPCA (cfr. “Dal Nordest. Calma piatta... fino a quando?”, il programma comunista, n.1/2015). Nella rete di 40 negozi, la gran parte in Carnia, lavorano attualmente 650 dipendenti; circa 3000 soci hanno visto congelato il loro prestito sociale per un totale di 3 milioni di Euro. Si tratta soprattutto di dipendenti e pensionati che hanno investito risparmi e liquidazioni, riponendo piena fiducia in una istituzione più che secolare (fu fondata nel 1906 nel quadro del movimento cooperativo cattolico). La rete distributiva si era poi sviluppata nel secondo dopoguerra e si era via via modernizzata, in tempi più recenti anche con ambizioni di competere con la grande distribuzione. La crisi del 2008 ha segnato una svolta anche per queste realtà assai radicate nel territorio e "tradizionali" nella percezione comune. Le vendite sono cominciate a calare e le perdite si sommavano anno dopo anno; oltretutto la cooperativa si era lanciata in investimenti notevoli, indebitandosi fino al collo per la costruzione di un magazzino, completato nel 2011, grande quasi quanto quello costruito nello stesso anno da Amazon in Italia. Ma si sa, la crisi prima o poi doveva passare, e la società intendeva apprestarsi ad affrontare il radioso futuro della ripresa... Invece, fatto inspiegabile, la crisi non è passata!

In quegli stessi anni, aumentava il numero di soci, ma diminuiva nettamente l'ammontare del prestito sociale, come conseguenza dell'abbandono dei sottoscrittori con un certo peso finanziario, compensato solo in parte dagli effetti della propaganda rivolta ai piccoli risparmiatori, orfani dei rendimenti dei Bot, ormai prossimi allo zero. Peccato che nessuno abbia comunicato loro che i prestiti sociali, men che meno i certificati azionari venduti a piene mani con le più ampie rassicurazioni, non godono di alcuna garanzia in caso di fallimento. Non solo, ma nel corso del 2014, quando era già ben noto agli amministratori che i bilanci segnavano profondo rosso, la società aveva inviato una lettera ai soci per invitarli a investire ulteriori somme con l'incentivo di un interesse maggiorato dell'1%. La fiducia, si sa, nel mondo della finanza è tutto (o quasi). Nel frattempo, gli investitori più scafati avevano già cominciato ad abbandonare la barca dopo il fallimento delle Cooperative Operaie di Trieste, lasciando il cerino in mano ai pesci piccoli. Le ragioni della crisi delle due cooperative erano le stesse, e anche i tentativi di mimetizzare i buchi nei bilanci. Sull'esempio della società triestina, anche la COOPCA aveva ceduto una parte del patrimonio immobiliare a una società creata ad hoc, la Immobilcoopca, ascrivendo all'attivo di bilancio i crediti derivanti dall'operazione. Ciò nonostante, il rosso rimaneva tale, finché la crisi di liquidità non ha portato al limite del fallimento. Oggi si tenta la soluzione del concordato, che dovrebbe consentire il recupero di una parte dei crediti grazie alla cessione dei beni di proprietà COOPCA. Ma non è detto che i valori stimati corrispondano a quelli di mercato e trovino compratori, tant'è che ad oggi solo la metà dei punti vendita ha dei possibili acquirenti. All'orizzonte si profilano dunque licenziamenti e perdita di risparmi di operai e impiegati.

Le critiche, spesso all'insegna dell'indignazione, sono rivolte soprattutto ai dirigenti della cooperativa per gli “errori” gestionali, gli investimenti "sbagliati", i comportamenti “ingannevoli” nei confronti dei soci: ma noi sappiamo che questi aspetti sono essi stessi un portato della crisi. Il perdurare della crisi capitalistica sta sgretolando tutte le certezze e le illusioni, compresa quella della maggiore affidabilità della cooperazione per il suo carattere "sociale" e mutualistico. Un'accusa che viene spesso rivolta alla cooperativa è di aver agito "come una banca": ma la cooperativa è a pieno titolo un soggetto capitalistico che la legislazione attuale abilita a esercitare attività finanziarie senza particolari vincoli, che investe per incrementare fatturato e profitti, nella logica delle economie di scala, per meglio affrontare la concorrenza agguerrita dei grandi gruppi. Non c'è più spazio per sentimentalismi: la legge del capitale rompe tutte le vecchie barriere (nazionali, locali, legislative) e si impone con la forza del mercato e della concorrenza, stravolge i vecchi rapporti e distrugge certezze secolari. Rientra nelle regole del gioco che pochi ne traggano vantaggio e i più subiscano un peggioramento della loro condizione, ingrossando le schiere dei senza riserve. Anche questa vicenda è un segnale della china che sta prendendo la situazione economica e sociale in territori considerati fino a non molto tempo fa immuni dal rischio del declino e oggi alle prese con una crisi industriale senza precedenti.

Nel settore manifatturiero del Friuli Venezia Giulia, metà delle aziende di dimensioni grandi o medie è in difficoltà o ristrutturazione. Alcuni esempi tra i più rilevanti: cassa integrazione alla Safilo per cessata attività dei siti in Regione (500 esuberi); La Eaton di Monfalcone è passata da 232 occupati a 140; alla Sertubi di Trieste, 136 lavoratori su 200 sono in Cigs, poi in mobilità; alla Warsila (Ts), 130 esuberi su 1000 occupati per riorganizzazione; dismesso il sito Ideal Standard di Zoppola (Pn), ora gestito da una cooperativa costituita da 400 lavoratori; alla Electrolux di Porcia (Pn) su un totale di 2200 addetti, 350 - tutti operai - rischiano di trovarsi in esubero nonostante l'adozione di contratti di solidarietà. La crisi più recente riguarda la Alcatel-Lucent (Trieste), dove la maggior parte dei circa 700 addetti ha contratti o collaborazioni a tempo determinato. In seguito alla fusione del gruppo con la Nokia, il sito potrebbe essere chiuso e l'attività delocalizzata. Oltre ai gruppi medio grandi, bisogna considerare le migliaia di aziende piccole o piccolissime di cui non si parla, dove esuberi e licenziamenti non danno accesso ad ammortizzatori sociali. A distanza di oltre sei anni dall'inizio della crisi - si tratta di dati ufficializzati da una relazione in sede in commissione regionale - siamo dunque ancora davanti a un bollettino di guerra. Se ai 47.000 disoccupati si sommano i cassintegrati prossimi alla scadenza del sussidio, il tasso di disoccupazione regionale sale dal 7,7 al 10%. La ripresa produttiva, se mai ci sarà, sta passando attraverso le forche caudine di pesanti ristrutturazioni aziendali e la chiusura delle imprese non in grado di sostenere la concorrenza ai prezzi attuali, per dimensioni, composizione tecnica, caratteristiche del prodotto. Anche le crisi locali riproducono lo schema classico: fallimenti, crescita della concentrazione, aumento della composizione organica e calo dell'impiego di manodopera in rapporto al capitale rappresentato da mezzi di produzione, materie prime e semilavorati. Anche nel Nordest le sole imprese che vanno relativamente bene sono quelle indirizzate all'export. A differenza delle crisi precedenti, infatti, il peso del debito accumulato nei trascorsi cicli espansivi per forzare la produzione impedisce il ricorso all'aumento della spesa in deficit per il rilancio del mercato interno. Alla crisi debitoria corrisponde la crisi del sistema creditizio, nonostante i salvataggi bancari e le forti immissioni di liquidità da parte della Bce.

L'ultimo bubbone (grosso) che sta scoppiando riguarda il Mediocredito del Friuli V. Giulia, istituzione finanziaria partecipata della Regione, azionista al 50%, specialista nel finanziamento agevolato per l'impresa. Pure qui siamo di fronte a una forte crescita delle esposizioni verso le imprese negli anni di espansione e oltre, che si è tradotta in una montagna di sofferenze. Pare che dal 1998 al 2012 siano stati erogati sette miliardi di finanziamenti, 610 milioni solo nel 2008, sulla base di un patrimonio di 200 milioni. Evidentemente, ciò è stato possibile solo con il ricorso agli strumenti della "leva finanziaria" allora di gran moda, e tutto il baraccone è servito a foraggiare con garanzia pubblica una vasta schiera di imprenditori e di amministratori. Ora si parla di un miliardo di esposizioni a rischio, su un totale di un miliardo e mezzo di impieghi. Negli ultimi tre anni, l'erogazione di credito si è interrotta e i bilanci hanno registrato un costante passivo, mentre l'attività si è conformata alla raccolta bancaria sul modello "conto arancio". Finora, la spinosa questione è stata accuratamente tenuta nell'armadio dai politici regionali, probabilmente per non mettere in piazza le responsabilità di un intero ceto politico, tuttora saldamente ancorato ai posti di comando. Ma si dà il caso che uno scrupoloso giornalista, al ristorante, abbia colto del tutto casualmente alcune battute di un gruppo di imprenditori veneti che, tra sghignazzi e bevute, si vantavano di aver succhiato da Mediocredito una barca di soldi: da qui, è partita l'indagine giornalistica che ha permesso di portare alla luce la "grana", in una regione considerata esempio di virtù. Il fatto è che quando il meccanismo di accumulazione è lanciato, la sua frenetica corsa trascina anche la politica, che asseconda quello slancio con finanziamenti pubblici. Nel suo atteggiarsi a "deus ex machina" dello sviluppo, in realtà la politica non fa altro che mettersi al servizio dell'impresa, o più spesso degli imprenditori. Per parte sua, il ceto politico-amministrativo si appropria di una quota di risorse in forma di remunerazioni per incarichi (si dice che il direttore generale di Mediocredito guadagni quanto Obama), mentre una pletora di liberi professionisti ed esperti incassa parcelle e "consulenze". Tutto ciò rafforza i legami interni al ceto politico, indipendentemente dall'appartenenza: ma soprattutto consolida il legame organico tra politica e capitale.

Alla fine, gli imprenditori sghignazzanti non saranno toccati dalle polemiche che inevitabilmente sorgeranno; forse qualche politico sarà chiamato a rispondere, ma difficilmente pagherà per le sue responsabilità, e se lo farà restituirà comunque poco rispetto a quanto ha potuto incassare. Alla fine, le perdite saranno scaricate sulle finanze pubbliche e a pagare saranno anche in questo caso i lavoratori dipendenti e i pensionati - i cosiddetti "contribuenti".

e sull’Austria Felix

Un caso analogo di crescita abnorme del credito e di commistione economia-politica è quello della Hypo Bank, nella confinante "Austria felix". Ma c'è anche un legame diretto: proprio Mediocredito del Friuli V.Giulia, nonostante i bilanci in rosso, ha assorbito nel proprio organico una parte del personale della banca austriaca in crisi con i relativi costi. Misteri della finanza! Evidentemente i due gruppi, che hanno sviluppato una politica parallela negli anni del boom della speculazione, sono legati da rapporti politici e finanziari molto stretti.

La crisi della Hypo Alpe Adria, già di proprietà del Land della Carinzia, è una nuova conferma che il sistema bancario europeo non è affatto fuori dai guai, e non solo per le potenziali ripercussioni della crisi greca. Nonostante la tenuta dell'economia dell'area germanica rispetto alla periferia dell'Europa, anche qui il perdurare della crisi trova conferma in tassi di crescita della produzione assai modesti e in un faticoso recupero degli indici della produzione industriale rispetto alla caduta produttiva del 2008. Il sistema finanziario ne risente direttamente e paga le conseguenze della bolla creditizia gonfiatasi nella fase espansiva che ha preceduto la crisi. Puntando sulle garanzie pubbliche e sul boom della finanza, dal 2000 al 2008 la Hypo aveva esteso la sua attività in Germania, Italia e nei Balcani, portando il proprio bilancio da 5,4 a 43,3 miliardi. Nel 2007, proprio quando la bolla inizia a sgonfiarsi a partire dagli USA, la landesbank bavarese BayernLB ne acquisisce la maggioranza azionaria con un'operazione che alla fine le costerà oltre 5 miliardi di perdite. Infatti, nel 2009 la Hypo, gonfia di crediti inesigibili, è a rischio fallimento. Lo stato austriaco tenta il salvataggio immettendo inutilmente oltre un miliardo, poi passa alla nazionalizzazione, acquistando le quote della Carinzia e della BayernLB a una cifra simbolica. Anche in questo caso, come per i debiti della Grecia nei confronti delle banche (soprattutto tedesche e francesi), è lo Stato a sobbarcarsi l'onere del debito: ma ora incombono gli stress test della Unione Bancaria europea e lo Stato austriaco cerca di liberarsi del fardello. Heta, la bad bank creata per assorbire le attività "spazzatura" di Hypo, sta pesando sul bilancio statale e gonfiando il debito pubblico, tanto che il Ministro delle finanze ha annunciato la fine dell'esborso di soldi pubblici per tenerla a galla; d'altra parte, un fallimento peserebbe direttamente sul bilancio federale, ma soprattutto su quello della Carinzia, che garantisce il debito Hypo per una somma pari a 12 volte le entrate fiscali annue del Land, tanto che Moody's ha già declassato il debito carinziano di ben quattro gradini. Se aggiungiamo che altre due banche, la sussidiaria austriaca di Unicredit e la Erste Group Bank, sono in difficoltà per l'esposizione verso il secondo gruppo austriaco delle costruzioni (Bau Gmbh), vicino al fallimento, abbiamo un quadretto ben poco rassicurante del "paradiso" austriaco. In generale, è il sistema delle Landesbanken austrotedesche, sopravvissuto alla crisi finanziaria solo grazie alle garanzie pubbliche, con bilanci ben poco trasparenti e forti esposizioni nell'Esteuropa, a essere direttamente minacciato dal piccolo terremoto austriaco. Il Ministro delle finanze di Vienna, probabilmente facendo gli scongiuri, ha ricordato che nel 1931 la recessione in Europa si scatenò in seguito al crack della Creditanstalt, una banca austriaca... Dovesse saltare il cuore del sistema finanziario europeo, risulterebbe finalmente chiaro che i problemi dell'Euroarea non sono da attribuire a un paese spendaccione, ma all'intero meccanismo di indebitamento che ha sostenuto l'ultima fase espansiva e favorito la crisi di sovrapproduzione. Che tutta questa ostilità di Germania e soci verso la Grecia oberata di debiti sia la coda di paglia per i debiti (o l'eccesso di credito) di casa propria?

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista)

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